Il tiranno in decadenza, da Shakespeare a Tolkien

Nei Dialoghi dei Morti, scritti nel II secolo d.C., Luciano di Samosata immagina trenta dialoghi tra personaggi dell’epica e del mito ambientati nell’oltretomba. L’intento apparente è satirico ma dalle parole utilizzate e dall’atmosfera evocata emerge uno scopo filosofico e riflessivo, come spesso accade andando al di là delle apparenze giocose della satira. Essa, infatti, serve anzi tutto come spunto di riflessione critica. Nei Dialoghi dei Morti troviamo un concetto assai caro ai greci antichi: la morte e la caducità della vita. La gloria può essere raggiunta in vita, così come la ricchezza, ma ogni cosa è soggetta al mutare degli eventi e del Fato, la divinità Tyke. La tragedia offre esempi a non finire, e proprio dalla tragedia Luciano prende alcuni suoi personaggi mitici, ribaltandone la solennità e mostrandone il lato più umano e meno eroico secondo i canoni della Grecia classica. Sono passati molti secoli infatti dal “kalòs kai agathòs” dell’epica di Omero, e i canoni letterari ed estetici di Luciano di Samosata si distaccano molto dalla Grecia antica come si è soliti pensarla ad un primo sguardo, delle poleis e di Solone.

Luciano è un autore fantastico. Storia vera incarna topoi letterari che saranno poi ripresi da Ariosto – Astolfo sulla Luna –  e, in buona parte, da quella branca di fantasy che si occupa dell’assurdo e dell’avventuroso in senso surreale. Anche Jonathan Swift e i suoi Viaggi di Gulliver ne sono influenzati. Nello specifico, i Dialoghi dei Morti mostrano come un grande re, un personaggio illustre o un eroe, possa ben poco di fronte all’ineluttabilità della morte. Alessandro, in uno dei dialoghi a lui dedicati, trovandosi da poco all’Inferno, incontra il filosofo Diogene. Tra i due vi era già stato un precedente incontro quando entrambi erano in vita: Alessandro si recò a visitare il filosofo cinico che viveva in una botte, mendicando ma sempre mantenendo un aspetto fiero. Quando Alessandro gli chiese di cosa aveva bisogno, visto che gli appariva come un mendicante, Diogene rispose se il re poteva scostarsi visto che gli faceva ombra e lui voleva essere illuminato dal Sole, ossia dalla luce della sapienza. Non cercava dunque ricchezze materiali bensì interiori, la conoscenza che nell’antichità coincideva con un’intima connessione con il Geist, Spirito, Assoluto, Infinito, dell’Idealismo tedesco o l’Uno di Plotino. Il Sole fuori dalla caverna di Platone. Diogene si rivolge ad Alessandro chiedendogli come mai fosse morto così giovane e in un modo così inusuale per un guerriero del suo calibro che, tra l’altro, era stato dichiarato figlio di Zeus dall’oracolo di Amon. Vi erano persino dicerie sul fatto che sua madre, Olimpiade d’Epiro, si fosse accoppiata con un serpente, ossia Dioniso incarnato, quindi non era strano che Alessandro in vita fosse considerato dal alcuni il figlio di un dio.

Il dialogo si conclude con il giovane che si rende conto della falsità di tutto ciò che gli era stato raccontato dagli oracoli. Essendo morto di malattia o di avvelenamento non poteva essere altro che un mortale qualunque. Il senso dei Dialoghi dei Morti di Luciano di Samosata è proprio quello di mostrare, tramite il paradosso tipico del genere satirico, un importante e ricorrente concetto tipico della letteratura e dell’ethos greci: il rispetto per il Destino, per il Fato, e, quindi, per la morte stessa. È un concetto che riecheggia nella cultura greca fin dai tempi dell’Odissea di Omero, in cui il protagonista spesso si abbandona allo sconforto temendo di non poter mai più rivedere Itaca. Solo quando si lascia andare completamente alla Tyke Odisseo riesce a tornare a casa, dove affronterà ancora diverse prove. Nella cultura classica è ricorrente questa contrapposizione tra il rispetto per la Tyke, la Sorte, e quindi per tutto ciò che è divino e trascende la comprensione umana mortale, e la Hybris, ovvero la tracotanza, l’arroganza nei confronti degli dei, il voler porsi al pari di un dio dimenticandosi della propria natura umana, come per esempio fece Alessandro il Grande. Va comunque considerata la ragione strategica dietro all’affermazione dell’oracolo di Amon: l’impero di Persia poteva cadere solo per mano di qualche potenza titanica, divina. Il figlio di Zeus, per l’appunto.  La storia è anche fatta di mito. Per essere accettato come sovrano dalla gente dell’epoca Alessandro doveva necessariamente apparire come un dio nell’immaginario collettivo. Non c’erano alternative al fine di governare un popolo abituato ad essere sottomesso soltanto da un dio Re. Vi erano quindi ragioni storiche profonde dietro alla profezia dell’oracolo di Amon.

Davanti alla domanda di Diogene se lui si ricordasse di tutte le sue conquiste e di tutti i momenti più belli della sua vita, Alessandro scoppia in un pianto, maledicendo anche gli insegnamenti che Aristotele gli aveva impartito da ragazzo. Il filosofo puntava solo a far spiccare la bravura letteraria di Alessandro, frenandolo nei suoi progetti ambiziosi di conquista. Allora Diogene consiglia al giovane tiranno sconvolto e decaduto di bere dal fiume infernale Lete, le cui acque avevano il potere di far dimenticare alle anime che le bevevano tutti i ricordi della loro vita mortale. Sempre in maniera satirica, Diogene invita Alessandro a far presto perchè stanno arrivando nei pressi del fiume anche le anime di Clito il Nero e di Parmenione, entrambi accusati e messi a morte da Alessandro durante uno dei frequenti scatti d’ira del sovrano. Secondo quanto affermato dagli storici questi comportamenti potrebbero essere stati una mania presente in lui fin dalla tenera età, oppure causati delle stregonerie e degli strani rituali della madre. Altre ipotesi incolpano l’abuso di vino e bevande alcoliche miste a oppio e altre piante di natura psicotropa che nell’antichità, anche tra i macedoni, i re e le loro corti erano soliti utilizzare in abbondanza.

La figura del re in decadenza ricorre spesso nella letteratura.

Piena di scorpioni è la mia mente” – Macbeth, W. Shakespeare

Il connubio tra potere e maledizione viene esplicato in maniera del tutto sublime nella tragedia Macbeth di Shakespeare. La trama e l’atmosfera influenzeranno tutta la letteratura Romantica e, di conseguenza, anche buona parte della primigenia letteratura fantastica.

Ci troviamo nella cupa Scozia del Basso Medioevo. Le Sorelle Fatali, tre Streghe ispirate alla figura delle Norne della mitologia norrena e delle Parche di quella greco romana, decidono che la loro prossima apparizione sarà a Macbeth. Quest’ultimo e Banquo, generali dell’esercito di re Duncan di Scozia, hanno appena sconfitto le forze congiunte di Norvegia e Danimarca, guidate dal ribelle Macdonwald.

Lugo la via del ritorno Macbeth e Banquo affermano, riguardo l’atmosfera della Scozia, che il tempo meteorologico era “brutto e bello insieme”. Ciò indica l’ambiguità e lo sguardo sull’oltre che prende piede in molte storie weird o fantasy, come se qualcosa di sovrannaturale fermasse il tempo e la pioggia e le nubi nere delle brughiere ventose. Da lì a poco, come se i due personaggi avessero intuito cosa stava per accadere, appaiono le tre streghe. Una si rivolge a Macbeth definendolo “il soldato”, un’altra lo chiama “il generale”, e la terza lo chiama “il re”. Le streghe parlano anche a Banquo, che le sfida, sebbene intimorito dall’atmosfera magica e straniante della situazione e dall’aspetto terrificante delle tre sorelle. Profetizzano che egli sarà capostipite di una stirpe di re. Poi le tre streghe svaniscono, lasciando Macbeth e Banquo sgomenti. Macbeth, convinto dalla moglie e dalla profezia delle streghe, arriverà ad uccidere persino il suo migliore amico a causa della brama di potere. Diventerà folle, tormentato dalla visione dello spettro di quest’ultimo. Tuttavia, come in molte profezie e segnali provenienti dall’oltre, sovrannaturale e umanamente incomprensibile, è la stessa apparizione delle Moire, o delle Sorelle Fatali, riadattate da Shakespeare per favorire l’ambientazione medievale, a diventare causa di qualcosa d’infausto. Macbeth è causa della sua stessa rovina. Il personaggio presenta una certa ambiguità: la sua sete di potere lo induce al delitto ma, pur essendo incapace di pentimento, ne prova rimorso. Il sovrannaturale è presente con apparizioni di spettri, fantasmi che rappresentano le colpe e le angosce dell’animo umano, nonché dalla presenza, forse reale o forse solo immaginata, delle tre streghe quali emissarie di un Fato incombente e ineffabile, giustificazione e al tempo stesso ineluttabile sovrano delle sorti degli uomini. Nella follia sanguinaria Macbeth ha un solo conforto attraverso il contatto con il soprannaturale e, all’inizio del IV atto, egli si reca nuovamente dalle streghe per conoscere il proprio destino. Il responso è solo in apparenza una rassicurazione, in realtà è molto enigmatico, ma Macbeth vi si aggrappa con convinzione ed affronta i nemici (V atto) fino al momento in cui scopre il vero significato di quelle oscure profezie.

Tra i vari presagi elencati dalle tre streghe ve ne era uno che avrebbe dovuto indicare la sconfitta del tiranno: il bosco che si mette a camminare per spostarsi. Sembrava un paradosso, qualcosa d’impossibile ad indicare che Macbeth non avrebbe mai conosciuto la sconfitta. Ma in Inghilterra MacDuff e Malcolm stanno pianificando l’invasione della Scozia. Molti baroni scelgono di abbandonare Macbeth, adesso identificato come un tiranno, e Malcolm è alla guida di un esercito, con MacDuff e Seyward, contro il castello di Dunsinane, fortezza associata al trono di Scozia e residenza di Macbeth. Ai soldati, accampati nel bosco di Birnam, viene ordinato di tagliare i rami degli alberi per mascherare il loro numero. Con ciò si realizza la terza profezia delle streghe: tenendo alti i rami degli alberi, innumerevoli soldati rassomigliano al bosco di Birnam che avanza verso Dunsinane. Alla notizia della morte della moglie (la cui causa non è chiara; si presume che ella si sia suicidata, oppure che sia caduta da una torre in preda a un delirio da sonnambula) e di fronte all’avanzata dell’esercito ribelle, Macbeth pronuncia il famoso monologo (“Domani e domani e domani”), sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano, vani atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore.

“La vita non è che un’ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla”.

Nella letteratura italiana troviamo l’esempio di Saul di Vittorio Alfieri. La tragedia narra un episodio biblico e tratta le ultime ore di Saul nell’accampamento militare di Gelboè, durante la guerra contro i Filistei. Saul incarna l’archetipo del guerriero coraggioso, valoroso, forte e invincibile. Fu voluto come re di Israele e benedetto da Samuele, il sacerdote. Col tempo, però, Saul si allontanò da Dio finendo per compiere diversi atti di empietà. Allora Samuele, su ordine del Signore, consacrò re un umile pastore: Davide. Questi fu chiamato alla corte di Saul per placare con il suo canto l’animo del re, e lì riuscì ad ottenere l’amicizia di Gionata, figlio del re, e la mano della giovane figlia di Saul, Micol. David generò però una forte invidia nel re, che vide in lui un usurpatore e, al tempo stesso, vi vide la propria passata giovinezza. Per questo venne perseguitato da Saul e costretto a rifugiarsi in terre dei filistei (e per questo fu accusato di tradimento). L’opera narra le ultime ore di vita del re e vede il ritorno di David, che da prode guerriero accorre in aiuto del suo popolo in guerra con i Filistei, pur conoscendo bene il rischio che ciò poteva comportare per la sua vita. Egli è pronto a farsi uccidere dal re, ma prima vuole la possibilità di combattere. Non appena Saul lo vede monta in lui desiderio di ucciderlo ma, dopo averlo ascoltato, si convince a dargli invece il comando dell’esercito. David  però commette un errore. Parla di “due agnelli” in Israele, e ciò genera in  Saul un delirio omicida. Il re spiega poi a Gionata la dura legge del trono, per la quale “il fratello uccide il fratello”. Da questo momento in poi la follia di Saul diventerà sempre più incontenibile e selvaggia, fino ad arrivare al culmine della tragedia nel quale il re, solennemente, dopo essersi ridestato, nell’ultimo atto, e aver previsto in sogno la morte propria e dei suoi figli, si uccide. L’esercito dei Filistei sta avendo la meglio su quello d’Israele. La figura del tiranno impazzito recupera la sua dignità tramite il gesto tragico del suicidio. Dall’ultima parte del Romanticismo e dal Decadentismo Alfieri eredita il suo gusto per il titanico, per la solenne morte di un re che, però, gli restituisce il suo onore. Come se l’onore fosse, per un glorioso re dell’antichità, più importante della vita stessa. La morte è qualcosa che toglie, non che restituisce eppure, nella visione tragica di molti autori, sembrano esservi cose che vanno oltre la morte stessa, visioni d’immensità, intuizioni d’infinito.

La letteratura fantasy eredita dalla cultura tragica il gusto per il titanismo e per l’estetica eroica ed epica.

Ne “Il Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien leggiamo di Grampasso, un ramingo, ultimo erede della stirpe di Isildur e Elendil, il trentanovesimo, che rifiuta per buona parte della trilogia il suo ruolo e fato indissolubile. Egli passa i primi anni della sua vita in esilio, vagabondando tra le Terre Selvagge ma, dopo aver combattuto nella guerra dell’Anello, viene incoronato re di Gondor e tutti i regni degli uomini. La sua vera identità gli sarà svelata solo all’età di vent’anni da re Elrond, a Gran Burrone, dove Aragorn fu adottato, avendo perso il padre in un inseguimento di orchi nelle terre del Nord insieme ai figli di Elrond. Quest’ultimo dai frammenti di Narsil, la Lama che fu Spezzata, forgia Andùril, Fiamma dell’Ovest. Aragorn diviene insieme a Gandalf il Grigio il capitano della Compagnia dell’Anello. Viene incoronato col nome di “Elessar”, che significa gemma elfica.

Aragorn non è un sovrano decaduto, ma fa parte di una linea regale infranta, di un sangue maledetto. Isildur rifiutò di gettare l’Anello nel Monte Fato quando ne ebbe l’occasione, e questo fu causa indiretta della sua rovina, e della rovina dell’intera Terra di Mezzo. Se Aragorn rappresenta il superamento delle insicurezze e delle paure umane per il conseguimento di un obiettivo ben preciso, ossia proteggere gli Hobbit partiti dalla Contea, Isildur raffigura invece il cuore corruttibile degli esseri umani. Egli ha un animo colto dalla cupidigia e dalla sete di potere, dalla voglia di avere ancora più gloria, ancora più prestigio, ancora più forza.

Tolkien, figlio del suo tempo, insegna una lezione d’umiltà al lettore. La gloria autentica, ovvero, il massimo compimento della natura umana, e dell’essenza della Terra di Mezzo, non si raggiunge di certo tramite l’Anello di Sauron, ovvero tramite la forza facile, immediata e brutale, ma attraverso la saggezza e la calma elfica. Un’altra figura interessante dal punto di vista della cupidigia, vista sotto l’aspetto della brama di conoscenza, è quella di Saruman il Bianco. Capo dell’ordine di Gandalf, Saruman si lascia corrompere, alleandosi con il Nemico e dando la stirpe degli uomini per sconfitta. Egli, come lo descrive Tolkien, brama, con uno strano luccichio negli occhi, un potere sinistro. La veste, una volta immacolta, riflette ora tutti i colori, cambiando tonalità come stava cambiando l’essenza stessa di Saruman, in qualcosa di sempre più simile al Caos.

Per quanto riguarda il Caos, il tiranno decaduto per eccellenza della letteratura fantastica spada e stregoneria è Elric di Melnibonè di Michael Moorcock, che possiede due spade legate intimamente al Caos del multiverso dell’autore, in contrasto con la Legge. Egli è albino, costretto ad assumere continuamente pozioni per mantenere la sua forza, differente dagli altri Melniboneani per via del suo carattere, troppo sensibile agli occhi dei compatrioti, ed è imperatore di un impero in decadenza da cinquecento anni. Dopo lo scontro con il cugino Yrkoon, Elric lascerà il trono e inizierà a errare per i cosiddetti Regni Giovani, sorti da appena cinque secoli rispetto a Melnibonè, che è un impero millenario.

In Robert E. Howard (ne “L’ora del dragone” troviamo una citazione che rende benissimo l’idea del concetto di sovrano che hanno i personaggi creati dall’autore statunitense, troppo liberi per accettare i compromessi della vita regale di corte.

“Quand’ero uomo d’arme suonavano i timballi, il popolo dorava le strade ai miei cavalli. Ora che sono Re, è irto il mio cammino, di perfidi pugnali, veleno nel mio vino.”

Nel fantasy possiamo ritrovare una rappresentazione allegorica delle dinastie e dell’atmosfera dell’Impero Romano, se non si rifanno addirittura ai popoli Egizi o Babilonesi e Sumeri, oppure una rievocazione dei regni del Medioevo e della Guerra dei Cent’Anni tra Francia e Inghilterra. Questo per quanto riguarda il “substrato”, l’humus sopra al quale prende vita la storia. Nel fantasy mediterraneo, che sta prendendo piede negli ultimi anni rifacendosi alle opere primigenie e più simili al classico romanzo d’avventura del genere fantastico, leggiamo proprio di ambientazioni prese da un contesto storico e culturale ben preciso e fuse insieme a miti e leggende del folklore tipico del territorio a cui si fa riferimento.

Un buon esempio di fantasy mediterraneo è il romanzo La Stirpe di Herakles di Andrea Gualchierotti, per le Edizioni Il Ciliegio, oppure Rodi – Il Sorriso del Colosso e l’antologia Mediterranea, editi da Italian Sword & Sorcery Books. Si tratta di opere che mischiano il fantastico con lo storico, il mito con il vero, richiamando l’essenza vitale stessa dell’uomo antico, in mezzo a mitologiche forze titaniche ma anche alla concretezza della vita e delle esperienze quotidiane. Gli antichi, con la loro peculiare sensibilità, vivevano circondati dalla loro stessa cultura, mantenendo un’identità collettiva molto forte e ben marcata.

Il tiranno in decadenza è il simbolo dell’uomo che osa troppo, a causa della sua tracotanza, nei confronti degli dei ma anche degli uomini, e che, per colpa del suo orgoglio o della sua eccessiva brama di potere, finisce per cadere nelle tenebre. Tuttavia, ancora oggi il genere tragico lo decanta, facendosi voce di Dioniso e Apollo insieme, razionalizzando l’irrazionale e addomesticando le visioni e le paure più ataviche della natura umana, come intuì ne La Nascita della Tragedia F.W. Nietzsche. Tragedia è addomesticamento del terribile, scrive il filosofo tedesco. Essa ci mostra esempi da non seguire, da non imitare, così come, al contrario, l’epica ci mostra esempi da fare nostri. Colui che addomestica il terribile è il tragediografo, insieme al pubblico, e, in un atto collettivo e catartico, quasi sciamanico, vengono evocate forze antiche, energie ataviche, emozioni ancestrali. Nel fantasy troviamo lo stesso tipo di coinvolgimento emotivo da parte delle figure più carismatiche. Gli eroi e i re, sebbene decaduti, nella letteratura fantastica non sono mai decadenti, non sanno mai di stantio. Sono sempre luminosi e vitali, come una costellazione, vecchia di miliardi di anni ma che racconta sempre la medesima, potente, storia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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