Recensioni: “Qualcosa d’altro” di Gianfranco de Turris

Dettagli

Titolo: “Qualcosa d’altro”

Autore: Gianfranco de Turris

Curatore: Andrea Scarabelli

Editore: Bietti

Collana: L’Archeometro

Genere: narrativa fantastica

Pagine: 264

Prezzo: 16,00 €

Commento

Dopo aver finito di leggere il nuovo volume pubblicato da Bietti, “Qualcosa d’Altro” – che raccoglie i racconti di Gianfranco de Turris pubblicati tra il 1986 e il 2000, ed è seguito ideale della sua prima antologia narrativa “Il silenzio dell’universo” – ho avuto la sensazione che sarebbe stato impossibile scrivere una recensione che ne dicesse qualcosa di più, o di migliore, di quanto se ne può desumere dalla sua lettura.

Raramente succede, infatti,  che un testo si sveli, fin dal titolo, per ciò che è. Ed ancor più singolare è che lo faccia proprio uno del genere, il quale, essendo una raccolta, subisce l’inevitabile sedimentarsi dei detriti che il tempo lascia fra una storia e l’altra, tra lo scrittore di ieri e quello dell’altro ieri, figuriamoci dell’oggi. Subito dopo, però, ho trovato la chiave. Il titolo è un’immagine riflessa in uno specchio; di cosa? Vado a recuperare un altro volume, una silloge di interviste rilasciate da de Turris a partire dagli anni Settanta fino alla soglia dei Novanta, e raggruppate sotto il titolo di “Il disagio della Realtà”. Eccola qui, la chiave, inserita in un più ampio commento all’eventuale presenza di un senso nascosto oltre il confine della mera Ragione: “Come tutti, combatto quotidianamente con la Realtà, che mi diventa sempre più insopportabile per come è stata resa artificiosamente complicata e totalmente inumana…Sicché…mi piace pensare che da qualche parte si aprano delle Porte, e che si aprano su qualche Altrove sconosciuto”. Insomma, la ricerca e la percezione di “Qualcosa d’altro” nascono da questo, dal disagio senza nome per il reale.

Sembra quasi di trovarsi di fronte a un distico dal sapore gnostico, e in fondo, almeno in una certa misura, lo è. Il mondo così com’è non osiamo raccontarcelo. Accade di rado persino con noi stessi, figuriamoci con gli altri. Sappiamo tutti di stare reggendo il gioco, di recitare la commedia, e nessuno ha intenzione di calare per primo la maschera. Forse, in verità, c’è anche qualcuno che in effetti non ha capito il trucco, e prende le cose per quelle che sono, accettandone la bruttura.

Nel de Turris autore, al contrario, il disagio di cui sopra porta inevitabilmente alla ricerca vera o figurata dell’Altrove. Che esso sia orrorifico, incomprensibile e sconfini in più di un caso nel dionisiaco, costituisce il contraltare necessario all’entusiasmo che comporta la scoperta che la prigione del Reale non ha sbarre perfette, che passaggi segreti – per la libertà o per stanze ancora più oscure – si aprono talvolta dietro angoli familiari, situazioni casalinghe. Oppure nella solitudine della Natura, lì dove – sparito il bisogno della maschera – gli uomini si rivelano per quello che sono, e una vista ulteriore offre loro lo spettacolo della loro stessa essenza e la comunione col numinoso più arcaico.

In questo contesto, la collocazione dei racconti in generi apparentemente diversi (sci-fi, weird, addirittura ghost story) è da considerarsi come occasionale. A ben vedere, essa rispecchia la sfaccettatura asimmetrica di una singola identità, caratteristica questa che tutti condividiamo, e che proprio confrontandosi con il Fantastico mostra la sua natura tutt’altro che monolitica, bensì stratificata, polivalente. Ricondotto all’essenziale, per paradosso, l’individuo si scopre non uno, ma molti. La paura e il senso di mistero appaiono dunque viatico iniziatico a questa scoperta: penso soprattutto a “Il vecchio che camminava lungo il mare”, “Il bacio della sirena”, dove tutto ciò è più evidente. Oppure alle intuizioni paniche e quasi misteriche di “Meridies” e “L’ora senza ombre”, nei quali alcuni elementi – l’onnipresente estate, la luce abbacinante – oltre che essere contingenze amate e ricercate dall’autore, si profilano come vere manifestazioni del kairos, il tempo opportuno, in cui è possibile effettuare il passaggio verso l’Altra Parte.

Dirimente, sotto questo aspetto, è l’uso prevalente della prima persona all’interno dei racconti. Non esiste una sostanziale barriera tra chi narra e ciò che viene narrato. Il brivido di scoprire una fessura nel tessuto altrimenti compatto dell’esistenza, lo scoramento di chi porta il fardello invisibile di un mondo che non pare concedere eccezioni al suo impero sullo spazio-tempo, appaiono come confessioni affidate a un diario a puntate. L’impossibilità di uscire in toto da sé stessi, di afferrare il segreto della vita – se non quando il caso o il destino lo mostrano, usando un linguaggio indicibile – il filo rosso che le lega. E nonostante tutto resta, impalpabile e vicino, “Qualcosa d’Altro”.

Curata da Andrea Scarabelli e introdotta da Giuseppe O. Longo, un’uscita di assoluto valore per scoprire un de Turris meno consueto, che smessi per l’occasione i panni di critico, affida alla penna la sua personale versione di quel grimaldello per l’evasione dalla cella del quotidiano che è la narrativa fantastica.

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