Speciale: Panoramica e considerazioni sul cinema italiano Sword and Sorcery – parte I – di Pat Antonini

Non è affatto ignoto, soprattutto ad un pubblico specialistico, che il film del 1981/82 diretto da John Milius, intitolato Conan il Barbaro, abbia avuto un considerevole impatto generando una corrente del cinema fantastico che, anche se anglo-americana, si è svolta in zone più periferiche rispetto alla pulsazione creativa hollywoodiana degli anni ’80; ove a sua volta invece ha avuto vita un’altra corrente della Fantasy cinematografica più generalista. La corrente di stile generata dall’opera di Milius si è propagata lungo gli anni ’80 esprimendosi anzitutto con il film dal titolo più paradigmatico: il modesto The Sword and The Sorcerer (1982), seguito pochi mesi dopo da Sorceress e da Beastmaster (1982)¹  proseguendo con Hundra e Deathstalker (1983) e, nel tralasciare alcuni titoli secondari, culminando con il sequel diretto Conan il Distruttore (1984) e Red Sonja (1985), da noi noto come Yado.

Nello specifico delle due pellicole dedicate a Conan si riscontra, a titolo personale e senza alcun atteggiamento da guru specialista, vi assicuro, una certa indolenza manifestata dal voler arraffare e sperperare a destra e manca vari dettagli del mondo hyboriano e nel voler quindi comporre una sorta di “sunto di rappresentanze iconiche e varie”. Se questa ricerca della salienza howardiana, da un lato, ha donato ai film di Milius e Fleischer una vigorosa effervescenza nei momenti di immediata esaltazione dei primi anni ’80, dall’altro, al lungo andare ha sottratto ad essi quel purismo autoriale e quella maturità che avrebbe permesso di evitare una attitudine troppo simile alla sintesi di stampo fumettistico. Tralasciando tuttavia questi dettagli non si può negare che, le due pellicole, oltre ad invecchiare piuttosto bene, se prese da un punto di vista generale di cinema fantastico avventuroso siano di notevole livello, soprattutto il primo, Conan il Barbaro, assolutamente in grado di dar vita a sequenze drammatiche, emozionanti ed epiche. Sebbene la corrente americana in generale abbia avuto qualità alterne e alcuni inciampi va senza dubbio riconosciuto un “onore delle armi” nel dare una risposta volenterosa a quella più aristocratica, imbellettata e hollywoodiana di stampo più classico, rappresentata da titoli come l’interessante Excalibur (1981) che ricorda in alcuni latenti concetti il pathos del romanzo I Figli del Tritone di Paul Anderson, il superlativo Ladyhawke, coevo a  Legend (1985), La Storia Fantastica (1987) e Willow (1988). Ma non ci soffermeremo oltre su ciò che riguarda questo genere al di fuori dell’Italia, dato che, su Hyperborea si è già trattato l’argomento qui, nel meritorio articolo di Riccardo Maggi.  Ma è doveroso, per addentrarci meglio nella panoramica dei film Italiani Sword & Sorcery, prolungare la vita naturale di questa introduzione che , normalmente, sarebbe cessata in queste ultime battiture e proporvi quindi delle rapide e fondamentali considerazioni sul cinema italiano.

Semplificando molto, sul finire dell’epoca dei film statalisti d’alto profilo dell’era fascista il cinema italiano si è diramato a “Ipsiilon”, costituendo, da un lato un filone autoriale: rappresentato in larga parte dalle commedie e dagli storico-drammatici del Neorealismo; e dall’altro un filone più di intrattenimento: rappresentato in grossa percentuale dalla commedia comica d’impronta regionale nell’esempio massimo dei film con Totò. Sul finire degli anni 50, il pensiero cinematografico italiano ha subito una ulteriore mutazione diventando un panorama a “tre velocità”: Il cinema autoriale, colto e intellettuale dei Fellini, Bertolucci e Visconti, il cui volto sublime e abbellito dai trucchi dell’autorialità – che lo si voglia ammettere o no – è,  e sarà sempre sfigurato dall’ipocrisia di fondo di intellettuali schizofrenici e disorganici, che hanno parlato e continuano a parlare un maccheronico linguaggio proletario per rispondere ad una borghesia filistea che ha sempre finto di comprenderlo. La seconda velocità è quella della commedia brillante “nazionale”, continuativa a quella, appunto, “regionale” di Totò e Aldo Fabrizi e protrattasi ,nei vari mutamenti di pelle, sino agli anni ’80 e  ’90 con Jerry Calà e Paolo Villaggio. Opere che hanno offerto lo stato puro dell’evasione e una valida alternativa alle appassionate domeniche di calcio, ma che quelle risposte al popolo;… le hanno sempre evitate, o al massimo accennate, come nella lunga saga di Fantozzi. In ultimo abbiamo la terza velocità, quella del controverso , deriso, offeso, censurato e mortificato cinema di genere italiano. Una stirpe cinematografica che è senza dubbio stata soggetta alla discrasia di un’alternanza di abissali, pacchiane e cialtronesche amatorialità ad incredibili guizzi di genialità e avanguardismo. Quello dei Peplum, ad esempio, che, seppur soggetti a scivoloni e ingenuità, non hanno mancato di offrire momenti degni di nota come Le Fatiche di Ercole o l’Assedio di Siracusa. Quello dell’Horror e del Gotico che, pur muovendosi talvolta nelle infime paludi del basso costo, ha anticipato di dieci anni lo Slasher Movie americano di Venerdì 13 con Reazione a Catena di Mario Bava, oltre che, con La Maschera del Demonio e Danza Mancabra,  umiliato, se non annichilito i più ricchi e abbottonati britannici Hammer del duo Peter Cushing -Cristopher Lee. Ma nondimeno è anche quello dei polizieschi e dei “Spaghetti Western”, decisivi e fondativi al pari della vecchia exploitation per il neo-exploitation pulp, “paraculturale” e citazionista di Tarantino rispetto a quanto lo siano mai stati i noir degli anni 60 come Criss Cross. Nonostante tutti i suoi limiti il cinema di genere italiano ha sempre surclassato quello tedesco, spagnolo e francese, incastrandosi meritevolmente a terzo incomodo tra quello britannico e statunitense. Vi è tuttavia anche un merito ulteriore e ancor più importante. Rispetto alle altre “due velocità” descritte poco sopra, questa branca filmica è quella che maggiormente e più onestamente ha guardato negli occhi del popolo, perchè , “quelle risposte”, mentite dal cinema autoriale ed evitate dalle commedie nazionali, il cinema di genere è l’unico che ha cercato di darle. E’ dietro i tradimenti e le cospirazioni di una stirpe di viscidi ed “euristeici” politici e regnanti combattuti dagli eroi nei peplum; dietro la morbosa necrofilia, nascosta oltre la porta della camera da letto di Jane Baker in Macabro di Lamberto Bava; dietro il pessimismo crepuscolare di un capolavoro come Keoma; dietro le efferatezze di Cani Arrabbiati o il perverso incesto in Zombi Horror, finanche lo sguardo spione dalla serratura di Alvaro Vitali ad una Edwige Fenech di turno alla toilette che;  si nascondono le interpretazioni ad uno stato che, per l’appunto, non dava risposte al caso Aldo Moro, al delitto di Emilio Alessandrini, alla strage di Bologna o al Caso Emanuela Orlandi.

Avendo quindi riconosciuto in tutte e tre “le velocità” difetti e pregi, è altrettanto opportuno dire che ognuna di esse è oggi compianta e apprezzabile, dato che nel cinema odierno, dalla bile completamente sbiancata mancano non solo quelle risposte, ma anche le domande, diventando, quand’anche ben fatto e gradevole agli occhi, a tutti gli effetti un “cinema muto” ma non in senso acustico del termine.

A questo punto è plausibile chiedersi se la corrente cinematografica italiana Sword and Sorcery faccia parte di questo retaggio. La risposta è assolutamente si , dacchè Ator l’invincibile (1982), se guardiamo bene, si riconosce come discendente unicamente di Conan il Barbaro di Milius, e come coevo di Sword and the Sorcerer e di Sorceress, precedente quindi a tutto il resto della corrente americana. A questa risposta segue tuttavia un successivo interrogativo:

cosa è andato storto?

Un approssimativo 70% del quesito è facilmente risolvibile considerando l’assoluta penuria di mezzi e i budget irrisori che questa serie di film ha dovuto affrontare. Ma rimane un 30% di carattere più contenutistico e attitudinale, ed è in questa restante area che cercheremo di far luce con la panoramica che oggi vi proponiamo.

Potremmo già definire la corrente italiana dei film Sword and Sorcery basata essenzialmente su due settori e tre protagonisti fondamentali. I due settori sono quello specifico del Ciclo di Ator e l’altro aspecifico dei film Sword & Sorcery generalisti che si declinano in differenti maniere: da quella protostorica di Thor il Conquistatore , a quella epica de Il Trono di Fuoco; sino ai toni più Fantasy di The Barbarians. Come tre protagonisti è doveroso invece citare innanzitutto Aristide Massaccesi, in arte Joe D’Amato, prolifico regista di B-Movie erotici, porno, horror e avventurosi che, se non famosi potremmo quantomeno definire “famigerati” e che ha diretto quasi tutto il Ciclo di Ator. Gli altri due sono invece i due volti di risposta a Arnold Schwarzenegger: Miles O’Keffee e Pietro Torrisi.

Se dovessimo basarci sui pareri della critica specialistica italiana e internazionale non avremmo dubbi su chi dei due abbia avuto la meglio, sebbene sia una lotta a ribasso, intendiamoci. Il personaggio dell’invincibile Ator fu senza dubbio il più deriso dei due nonchè quello maggiormente considerato come “..becera copia di Conan”. Fermo restando che, Il Conan di Milius è senza dubbio la sorgente creativa principale e che, effettivamente, il Torrisi sia stato probabilmente un attore più convincente dell’ O’Keefe, bisogna dire che tra i due è Ator quello meno simile a Conan. Fin nell’aspetto, il personaggio si presenta , pur considerando la probabile casualità della cosa, più somigliante a Kothar il Guerriero di Gardner Fox  o al personaggio fumettistico He-Man che non al Conan letterario e cinematografico. E’ inoltre assente in Ator il tratto antieroico-terreno e il furore selvaggio di Conan che invece troviamo maggiormente nei personaggi di Pietro Torrisi. Contriariamente al cimmero, l’eroe biondo presenta su di sè i topoi della discendenza divina simil-eraclidea (essendo figlio del Dio Thorn) e dello status di “predestinato” di matrice eroico-messianica. Ator basa il suo stile ricordando più una sorta di atleta-marzialista che un barbaro dalla “Spada Selvaggia”, coerente, bisogna dire, con un carattere stacanovista e un inclinazione al paladinismo che lo porterà ad erudirsi all’alchimia e la cultura. Non trascurabile è il fatto che egli è spinto all’avventura e all’eroismo dal rapimento dell’unica donna che ama, Sandra, sua sorella ma non di sangue, essendo lui adottato, e che avrebbe altrimenti preferito vivere in pace e coltivare la terra. Diversi sono invece i “Conanidi” interpretati dal Torrisi, più terreni, sanguigni e appassionati, più vagabondi e avventurieri, ben piazzati a metà strada tra la “piacioneria” dell’Ercole di Steve Reeves dei Peplum italiani e il Conan filmico dal volto dello Schwarznegger.

  1. Il Ciclo di Ator

Tutti i film del Ciclo di Ator sono contraddistinti da almeno due punti comuni: una sceneggiatura  approssimativa e una collezione infinita di critiche negative tutt’ora in crescita. L’apertura è affidata a Ator L’invincibile, opera del 1982 diretta da Aristide Massaccesi. Nel film si riscontra , pur nella  semplicità, un’estetica dei costumi e delle scenografie superiore a quella che vedremo nei successori. La storia è indirizzata verso tappe standard che, come vedremo, avranno una cadenza più o meno costante nei vari film, su tutti l’immancabile attacco iniziale con sterminio-saccheggio del tutto ritagliato da quello inflitto da Thulsa Doom al villaggio di Conan. Il Villaggio delle Pianure dove abita Ator infatti subirà l’assalto proveniente dal Regno del Grande Antico, ordinato dal Gran Sacerdote del Dio Ragno che è al comando d’una nera armata del tutto simile a quella di Thulsa Doom. Ator si salverà grazie a Griba, un solitario guerriero esule dalle terre orientali che lo salvò già da bambino. Sarà lo stesso Griba che lo preparerà con un lungo e duro addestramento e gli rivelerà il suo destino. Allorchè Ator, in un giorno qualsiasi della sua istruzione alla spada, salverà l’amazzone Runn da tre predoni, non ritroverà più Griba al ritorno nel loro rifugio, ma vedrà che egli, sparendo dalla circolazione, ha lasciato per lui la Spada di Thorn, una Katana orientale dorata e magica. Oltre ai vari topoi, Massaccesi inserisce anche quello dell’arma incantata di stampo arturiano. Si apprezza nel film una certa tendenza alla generosità e alla ricchezza degli scenari d’avventura. Ator attraversa infatti un viaggio odisseico che lo vedrà coinvolto, dopo l’evento scatenante del saccheggio del villaggio, in una lunga avventura, ricca di combattimenti, incontri, fughe e salvezze: dal bosco delle amazzoni dove viene imprigionato e graziato da Runn, interpretata da Sabrina Siani, che debitrice decide di salvarlo per unirsi a lui, alla conturbante maga Indun interpretata da Laura Gemser, fedelissima del Massaccesi essendo la protagonista della saga erotico-avventurosa di Emanuelle Nera. La scena con Indun sembra più utile a omaggiare i fan del regista con “l’ospite speciale” che non ad offrire un arricchimento reale della storia. Indun induce Ator alla stessa trappola che ha irretito Conan nell’incontro con la strega nel film di John Milius. Ma anche stavolta ci sarà la bella Runn, con una risoluzione narrativamente discutibile, a tirare fuori dai guai il biondo eroe. A questo segue la sbrigativa fuga dai guerrieri morti viventi²  e lo scontro con i guerrieri-fabbri ciechi concertato a quello contro i guerrieri ombra. Una sequenza basata sull’alternanza di silenziose sortite furtive a segmenti combattuti alla spada. Seguiranno dopo una sospensione in locanda – dove di nuovo spunta fuori anche Griba – gli sviluppi finali, ove Ator e la nordica amazzone Runn affronteranno e sconfiggeranno molti scagnozzi e con essi il Sacerdote del Dio Ragno, che verrà distrutto solo grazie allo “scudo-specchio” che, come vedremo, non servirà solo a soluzione risolutiva contro il cultista, ma anche come arma “perseica” contro lo stesso Ragno demoniaco. Dopo la vittoria sul Gran Sacerdote egli trova finalmente Sandra, imprigionata nella ragnatela del gigantesco aracnide. Massaccesi regala anche il colpo di scena di un ennesimo ritorno di Griba che rivela il suo reale piano, quello, si suppone, di utilizzare Ator per abbattere il culto del ragno e sostituirsi al sacerdote, per poi tradirlo approfittando della cieca fiducia in lui da parte dell’ingenuo eroe. Il sino ad ora infallibile Griba finirà nella tela al termine della colluttazione e Ator affronterà il ragno fuori dalle caverne. Utilizzando la luce del sole riflessa dallo scudo-specchio disorienterà il ragno per poi colpirlo mortalmente con la Spada di Thorn. Il demoniaco mostro, che si suppone sia il “Grande Antico” da cui il regno prende il nome, oltre a ricordarci il Ragno gigante del racconto di Robert E. Howard (La Torre dell’Elefante), nella sua vulnerabilità verso lo specchio e la luce ci suggerisce anche un’imprevista combinazione tra la Gorgone Medusa e Ungoliant.

Che il buon Aristide sia stato in realtà così sottile da “incuriosire il gatto” facendo fare capolino a Lovecraft per poi far trovare Tolkien dietro la svolta? … “troppa grazia”; … risponderebbe qualcuno, senonchè, lo scudo-specchio è chiamato nel film “Scudo di Mordor“.

Lascerò a voi l’ardua conclusione se considerare questo campionario di elementi come un grossolano scafandro di stereotipi o come un elegante mantello di citazioni (e immagino già la vostra risposta), ma mi limiterò a quel che appare più oggettivo: è piuttosto facile rendersi conto che Ator L’invincibile sia un’opera estremamente derivativa ma è innegabile che la visione riesca, tutto considerato, a regalare un certo senso di completezza e soddisfazione pur tenendo conto di tutti gli asterischi del caso. Doveroso segnalare che Sabrina Siani è l’unica ad essere uscita indenne dalle sanguinose recensioni italiane e americane, plaudita più o meno unanimemente quale “autrice d’un ottima prestazione”. Non saremo così fortunati con il sequel Ator 2 – L’invicibile Orion (1984), decisamente inferiore.

Dopo un colloquio introduttivo di presentazione e riepilogo tra Mila e suo padre; il saggio re e alchimista Akronos, avrà luogo il già collaudato attacco-saccheggio iniziale scatenante, dal quale però Mila sfugge essendo già pronta a partire con l’incarico di trovare Ator che nel frattempo è intento a proseguire il suo addestramento e i suoi studi alchemici con Thong, il Subotai di turno, altra parziale costante del ciclo. Rispetto ad Ator l’invincibile, il successivo Athor 2 – l’invincibile Orion si presenta più arido, slavato e tratteggiato a ricalco. Sono assolutamente minime le variazioni che si riscontrano, come la sostituzione delle amazzoni con una tribù di uomini primitivi e con la tribù guerriera dei Kungs, così come il demoniaco Dio Ragno cede il posto all’usato ancor più sicuro del Dio Serpente; un rettile gigante che Ator affronterà nelle sequenze centro finali della pellicola. Tra gli aspetti salvabili troviamo il Re delle Terre del Nord, Zoltan che differisce dal modello di Thulsa Doom. Quest’ultimo sembra infatti molto più terreno e caratterizzato da ambizioni indipendenti e non necessariamente funzionali al fondamentalismo che troviamo per il Dio Serpente (Adorato anche dai Kungs) o per il Dio Ragno nel precedente film. Il villain nutre per Akronos una profonda stima e riverenza non disinteressata ovviamente, dato che cercherà di carpire dal re i segreti dell’alchimia. Apprezzabile è anche la scena di colloquio tra Ator e Mila accampati durante la traversata della foresta, dove il primo spiega alla principessa come Zoltan sia in realtà usurpatore di suo fratello Soko, e di come abbia protetto la tribù dei Kungs al solo scopo di usarli per usurpare il trono.

Ator 2 è purtroppo totalmente simmetrico e speculare al predecessore ed inferiore in ogni componente corrispettiva. Per quanto Griba abbia giocato nel campo semplificato dei deus ex machina aveva un potenziale che non sfigurava troppo con Subotai, mentre Thong si limita ad essere una infallibile macchina di efficacia priva di una qualsiasi caratterizzazione.  Anche Sabrina Siani pur non essendo abile come Sandhal Bergman (vincitrice del Golden Globe) nelle scene action è riuscita nel primo film a reggere il confronto complessivo sul campo della recitazione pura. Non è certamente lo stesso per Lisa Foster e il suo personaggio Mila che, pur non mettendo in luce particolari difetti non riesce ad essere memorabile, ed è senza meno soggetta ad essere confusa o dimenticata. Per quanto proposti ingenuamente anche gli “elementi extra” pescati dalla mitopoietica o dalla letteratura di Ator l’invincibile si mostrano superiori.

Potevano certamente essere proposte meglio nel primo film le “citazioni” a Tolkien, Lovecraft, Perseo e Artù, ma qui vengono sostituite dall’elemento del “Nucleo Geometrico“, una sorta di bomba atomica alchemica,  che viene probabilmente aggiunto forzatamente in corso d’opera; non scoperto, ma rivelato da Ator come cosa già assodata quasi a fine film e l’effetto che produce non è affatto buono. Si suppone, (ipotizziamo) che Massaccesi con il “nucleo geometrico” abbia voluto citare il “sistema perimetrico dead hand”, ovvero l’arma di deterrenza fail-deadly di cui si vociferava la vigenza durante la Guerra Fredda e che fu poi iperbolizzata in Dottor Stranamore di Stanley Kubrik. Pur ammettendo il ricorso di “Strangeloviana memoria” voluto dal regista tale aggiunta risulta pretenziosa, disorganica e completamente slegata dalla storia nell’essere espressa e considerata dai protagonisti troppo tardi rispetto alla rilevanza che un fatto così grave avrebbe dovuto avere. La debolezza del film fa emergere purtroppo i difetti di consistenza del personaggio rimasti parzialmente sopiti nel “buon” esordio. Nel paragonare le due saghe lunghe del Massaccesi, potremmo dire che laddove Emanuelle Nera, sia riuscita bene ad essere una versione più torbida, trash, ambigua ed erotica di Angelica dei romanzi storico-sentimentali dei coniugi Golon, Ator non riesce a convincere affatto come versione più solare, moralista e paladinesca del Conan, sia quello dell’Howard che del Milius.

Il fenomeno del revisionismo postumo non è certo estraneo al mondo del cinema italiano, i due massimi esempi di questa pratica sono certamente i film con Totò diretti da registi come Camillo Mastrocinque, Carlo Ludovico Bragaglia o Mario Mattioli, snobbati e poi rivalutati, così come le pellicole di Lucio Fulci, prima demolite poi glorificate. Ator Il Guerriero di Ferro (1987) diretto da Alfonso Brescia, pur avendo anch’esso collezionato critiche mortifere, si intende,  è l’unico che ha beneficiato del revisionismo all’insegna del “non era poi così male”. Supponiamo che il motivo risieda principalmente nella buona fotografia, punto di forza del film, e nel fatto che tra tutti è quello che più si è distaccato da Conan il Barbaro. Beffardo tuttavia è che, proprio il film che maggiormente esce dalla strada battuta, sia probabilmente la peggior opera del ciclo, se non dell’intera corrente.  Certamente si può benissimo soprassedere sul fatto che i costumi sembrino scelti da un Arlecchino ubriaco, vista l’assoluta scarsità dei mezzi sul quale non è corretto infierire,  ma non si può ignorare una narrazione fumosa e poco chiara, con scene di transizione spiegate male e lasciate troppo all’intuito dello spettatore, aggravate talvolta da dialoghi sempre e ripetutamente troppo artefatti e sibillini. Il tutto è sintetizzabile nel raccontarvi un film che si apre con il rapimento del fratello gemello di Ator: Throgar, perpetrato dal personaggio negativo della storia, la Strega Fedra, amante del demonio: una sorta di anziana Ornella Vanoni isterica che gironzola per le varie scene insultando e augurando la morte a tutti. Dopo il rapimento, la strega viene giudicata all’interno di una grotta psichedelica in un processo che è presieduto dall’attraente sacerdotessa Deeva e dalle sue consorelle sacerdotesse che appaiono all’interno di uno “schermo” nella roccia e che ricordano in maniera sorprendente modelle dei poster di alta moda. Al finire della pena (18 anni nel sottosuolo) la malvagia Fedra appare al diciottesimo compleanno della principessa Johanna ove scaglierà una maledizione su colui che nel film viene chiamato re, ovvero una via di mezzo tra un boss malavitoso e un tizio che, all’ultimo momento, senza preoccuparsi troppo dei dettagli, decide di travestirsi da vescovo a carnevale. L’incantesimo sarà puramente scenico, dato che la strega riuscirà ad espugnare il castello reale con un colpo di mano fatto essenzialmente solo dalla sua creatura, Throgar, “il guerriero di ferro”, gemello di Ator che lei ha reso una sorta di automa privo di sentimenti e votato al combattimento. La principessa Johanna riesce a salvarsi e cerca di dirigersi nella cittadina costiera di Neiloff per adunare un esercito e riprendere il Regno di Dragworld dove ormai si è insediato un usurpatore al servizio di Fedra. La giovane cadrà in mani malvage ben prima di raggiungere Neiloff, ma sarà salvata da Ator, e con lui compirà una lunga avventura in vari territori, culminante nell’Isola del Tempio, luogo dove si tenterà il recupero del Magico Scrigno d’Oro. L’oggetto magico che Ator e Johanna cercheranno di recuperare seguirà la tradizione degli artefatti incantati puntualmente mantenuta nei vari film, in questo caso la componente sembrerebbe richiamare Esiodo e il Vaso di Pandora. Contrariamente alle altre due pellicole descritte, Ator il Guerriero di Ferro rinuncia sia al Subotai che alla Valeria di turno, sostituita dalla principessa Johanna che è compagna di viaggio dell’eroe per tutta l’avventura. La principessa, interpretata dalla slovena Savina Gersak, è un personaggio avaro di emozioni e si mostra inferiore ai livelli dei personaggi interpretati dalla brava Sabrina Siani, decisamente più espressiva e carismatica, per quanto questi siano una copia di Valeria. Alfonso Brescia omaggia i fan di Star Wars con l’evidente somiglianza di Throgar, sia nella presenza che nei poteri, a Darth Vader e con alcuni servi minori della strega che rimandano ai Javas. Il film purtroppo non riesce a coinvolgere neanche delle scene di azione. La sfida alla lancia tra Ator e Thorgar all’interno del castello è forse il duello più delirante mai visto in un prodotto da fiction. Non meno assurda è la scena del secondo salvataggio, dove Ator sottrae Johanna per il rotto della cuffia dalle grinfie dei mercenari al servizio di Fedra. Il combattimento finale con Fedra (invulnerabile alla spada), svoltosi in una sperduta rupe sul promontorio, termina nella modestia assoluta di una torcia presa da un bracere messo li non si sa come. Salvabili, oltre alla buona fotografia, sono le scene dell’uccisione del re e il combattimento finale e risolutivo tra Ator e Throgar.

La conclusione della saga di Ator dal titolo Quest for the Mighty Sword (1990) è affidata di nuovo al regista principale, Aristide Massaccesi che si avvale anche del ritorno della sua vecchia conoscenza; la bella Laura Gemser, sia come attrice in una parte minore (Grimilde) sia come responsabile dei costumi. Considerando i mezzi assolutamente proibitivi il lavoro compiuto dalla Gemser è complessivamente buono ma purtroppo vanificato da una sceneggiatura debole e un impianto effettistico modesto, oltre che arrangiato al prendere a prestito elementi del film Horror Troll 2. Non potendo parlare di declino, non essendovi stata mai una vera ascesa, si può certamente dire che il film segna la fine, oltre che del Ciclo di Ator, anche della corrente complessiva degli Sword and Sorcery italiani, anche per un linguaggio registico diverso e più prettamente telesivivo, non più affine ai vecchi peplum degli anni 60 come sempre è stato sin dal primo Ator, bensì imparentato con una nuova generazione di film fantastici televisivi come la lunga saga di Fantaghirò di Lamberto Bava o Desideria (con Cristopher Lee e Anna Falchi). Quest for the Mighty Sword abbandona anche le indefinite antichità di stampo howardiano che il secondary world di Ator aveva utilizzato, ritraendo uno scenario fantasy più fiabesco e simile ad un medioevo liberamente ispirato al mondo germano-norreno.

La storia narra le vicende postume all’assassinio del buon Re Ator, padre del protagonista che porta lo stesso nome. A causa di una antica e ingiusta legge che prevedeva l’uccisione della vedova di re e l’esilio del principe, l’ormai ex regina, Sunn, è costretta a ricorrere al sotterfugio; ovvero pattuire con il Goblin di nome Grindle un rapporto sessuale in cambio dell’anonimato, custodia e protezione di “Ator Giovane”, prima di fuggire con la complicità dell’amazzone Dajanira; personaggio che dimostra quanto per il Massaccesi, quand’anche ci si trovi nel più norreno dei mondi, rinunciare ad una bella e robusta amazzone ellenica è infattibile, e noi stiamo al suo gioco e lo comprendiamo.

“Ator giovane” crescerà sotto un tutoraggio, quello del Goblin, che non sarà più allegro di quello della perfida matrigna per Cenerentola mentre sullo sfondo, il viscido principe Gunther salirà immeritevolmente sul trono, proseguendo la lunga tradizione degli usurpatori con una coda ormai chilometrica come quella dei “malvagi shakespeariani”. Sarà la magica e misteriosa Nefele che informerà Ator che sua madre è stata maledetta per aver avuto rapporti con un Goblin e che lui è destinato, non meno di Aragorn con Narsil, aggiungiamo noi, a riforgiare la Magica Spada Rotta e brandirla. Questo renderà Ator desideroso di riscossa e pressante verso il suo perfido “tutore” Goblin nel richiedergli la spada del padre. Ad un’umiliazione di troppo il figlio del re defunto vedrà bene di riforgiare la spada rotta ed eliminare finalmente Grindle.

Sin dal primissimo Ator l’invincibile del 1982 eravamo abituati a vedere presentato l’eroe come figlio del Dio Thorn, con la conseguente deduzione che  quest’ultimo potesse essere una figura divina non troppo lontana da Thor o Odino, in antitesi con le varie divinità oscure come il Grande Antico (Ragno Gigante del primo film), Il Dio Serpente (Ator 2) o Rani, la Dea del fuoco infernale (Sangraal e La Spada di Fuoco, film collegato ad Ator). Spendere il nome di Thorn che finalmente si rivela nei primissimi istanti del film, ma come Goblin semidivino e stregone nonchè assassino di “Ator Padre” è una soluzione che appare incolta, totalmente slegata dai precedenti film e rappresentativa della criticità grave e ricorrente, ancor più di quella del basso costo,  ovvero una tendenza all’improvvisazione e all’approssimazione che sarà una costante nemesi per questo gruppo di opere italiane.

Una volta libero Ator andrà alla ricerca di Nefele per avere altre informazioni e raggiunta la palude avvisterà Dajanira, ma solo pochi istanti prima di vederla sparire. In compenso riapparirà Nefele che gli fornirà le informazioni definitive, comprese quelle riguardanti l’amazzone che è stata imprigionata dal Dio del Fuoco per aver protestato contro il suo mancato intervento nell’uccisione di “Ator padre” ad opera di Thorn. Sulla base delle decisive rivelazioni di Nefele, Ator si spingerà alla ricerca del tesoro che servirà a liberare Dajanira, ma non prima dello scontro con i due guardiani al servizio del Dio del Fuoco: Il Guerriero meccanico a due teste e il Drago.

Già dall’antefatto dell’uccisione di “Ator Padre” da parte di Thorn, riscoperto come Goblin, il film crea pessimi presupposti che il buon lavoro scenografico e costumistico non riesce a controbilanciare. Le scene di azione sono insoddisfacenti nella più larga percentuale dei casi, come dimostra il combattimento con il guerriero meccanico  e con il Drago. Le due prove principali a cui Ator è chiamato verrano liquidate in una maniera troppo sbrigativa, causata certamente anche dalle ristrettezze effettistiche che non hanno permesso ad Aristide Massaccesi di realizzare combattimenti complessi.

Dopo la sconfitta dei due esseri e la liberazione di Dajanira, il “Dungeon del Dio del Fuoco” crollerà dietro le spalle del guerriero e dell’amazzone in fuga che si ritroveranno poi in una locanda in compagnia di manigoldi intenti a giocare d’azzardo e maltrattare una prostituta. Ator interverrà per difenderla picchiandoli, con il risultato di essere cacciato dalla locanda insieme alle due donne. Qui si scoprirà che la prostituta è sua madre.

Ebbene si , il figlio di uno dei grandi Ator, per ritrovare sua madre doveva essere cacciato dal “buttafuori”. Ma durante il ritorno a casa , raggiunta la palude, Ator incontrerà il Giovanni Senza Terra della situazione,   (sebbene molto più perverso di quest’ultimo) il torbido e maniacale principe Gunther che, essendo rifiutato dalla moglie (a sua volta rifiutata da Ator) rapisce la povera Dajanira per uno “scambio di coppia volante”.

Quindi nel ripeterci: Ebbene si (e due) , dopo aver sconfitto il Drago e il Golem a due teste, Ator dovrà ottenere la pace finale solo dopo aver incontrato un buttafuori e uno scambista di coppia. Egli dovrà di nuovo liberare la sfortunata amazzone e una volta eliminati con la sua poderosa spada un paio di sgherri e lo sgradevole Gunther (che finirà in una pozza di gesso) fuggirà dal castello, un tempo sede del regno del padre, mentre le risate del Goblin Thorn echeggiano nei corridoi. Il finale da adito a sviluppi che mai ci saranno e non si conosceranno le sorti del Trono. Ma immagino che reclamare questo dettaglio sia pretendere troppo. Lo sviluppo finale fiacca ulteriormente una pellicola già debole soprattutto al delinarsi della psicologia del principe Gunther.

Fine prima parte

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