Film Sword And Sorcery Generalisti
Non abbiamo voluto prenderci la libertà di inserire il film di Michele Massimo Tarantini, Sangraal – La Spada di fuoco (1982) , nel ciclo di Ator dato che è considerato indipendente dalle “carte ufficiali”. Tuttavia la storia si apre con una enfatica narrazione dove si descrive esplicitamente che Ator, re della Terra delle Pianure, ha raggiunto una gloria e una fama tali da essere invidiato e odiato perfino dal malvagio Demone Infernale. Ed è così che Kroghar, adoratore del demone, radunerà l’esercito delle Terre del Freddo per … – immagino questa parte vi ricorderà qualcosa – … attaccare la Terra delle Pianure portando a compimento il solito saccheggio-sterminio scatenante e uccidendo anche lo stesso buon Re Ator. Suo figlio però, Sangraal, (interpretato dal rivale “iconico” di O’Keffe, Pietro Torrisi) viene portato in salvo da una balia sulle montagne insieme ai pochi superstiti sino a che egli non sarà cresciuto e potrà ridare speranza ai pochi rimasti del suo popolo.
Immagino vi stiate aspettando che Sangraal, diventato grande, guiderà i superstiti contro Kroghar per riconquistare la Terra delle Pianure e restaurare la legittima monarchia: …non andrà affatto così. Egli migrerà infatti oltre le montagne, lasciandosi alle spalle la sua terra per cercare quello che Zampa di Giaguaro in Apocalypto chiamerebbe un “nuovo inizio”. Ma vi consiglio di non abituarvi, questo sarà l’unico elemento sorprendente del film.
Alla guida del suo malridotto popolo Sangraal attraverserà una arida landa dove molti morranno di stenti sino a che giungerà finalmente nella più accogliente Terra dei Pastori e qui avrà un’opportunità. Prima ancora di stanziarsi, i superstiti delle pianure incapperanno in un attacco da parte dei fanatici sacerdoti della Dea Rani sull’indifeso villaggio della Tribù dei Pastori, l’intervento di Sangraal e di alcuni suoi compagni sarà decisivo e salvifico. Il Capotribù, grato, proporrà a Sangraal di far confluire il suo clan nella tribù per formare un unico popolo, ma questo solenne patto di amicizia a reciproco beneficio sarà effimero, e terminerà all’immediata e devastante ritorsione inflitta dal capoclan Nantuk, portatore d’una definitiva risoluzione di sterminio. L’avvenimento è aggravato dal fatto che avverrà sotto gli occhi di Sangraal che, catturato e crocifisso come Conan in Nascerà una strega assisterà sotto costrizione anche l’uccisione della moglie, la bella guerriera Lenne, Interpretata dalla sconosciuta – ora come allora – Margareta Rance, del tutto somigliante a Sabrina Siani e Sandhal Begman, nonchè la prima “Valeride” a morire quasi all’inizio.
Sangraal sarà liberato grazie all’unica superstite Ati, la figlia del capotribù e al solito “simil-Subotai-orientale-esule-dalle-terre-lontane” proprio come Griba e Thong; personaggio la cui pronuncia del nome vi suonerà come il rintocco di una campana ripetitiva di tanti epigoni che abbiamo conosciuto: Huang, anche se, dobbiamo ammetterlo, il nome di “Thong” di Ator 2 sarebbe stato ancor meglio per questa battuta.
Sangraal affronterà con Ati e Huang un’avventura del tutto simile a quelle vissute dal padre (Ator) nei film di Massaccesi, che lo vedrà alle prese con la tribù degli Uomini-Scimmia e con numerosi incontri-scontri con i barbari del clan di Nantuk. Riuscirà al fine a raggiungere il monte dove risiede il saggio Rudac che gli indicherà la via da seguire, indirizzandolo al ritrovamento dell’Arca dei Cavalieri Templari, contenente l’oggetto sacro che nella storia rappresenterà il coronamento del percorso di sofferenza e purificazione che renderà Sangraal degno della vittoria.
A prescindere dal fatto che possa sembrare poco entusiasmante l’uso d’un elemento così millenario e “full-middle age” come quello dei Templari in un’antichità di “stampo howardiano”, bisogna dire anche che il dettaglio scelto in sè è del tutto inadatto per rappresentare l’eroismo cavalleresco e la sacralità templare, vale a dire la balestra. Si può certamente comprendere la voglia di non ricorrere alla solita spada magica di stampo arturiano ma risulta altrettanto inopportuno l’uso d’un arma tattica come la balestra, del tutto collettiva e poco individuale, destinata all’anti-assedio o all’avanzamento dietro i grandi Scudi Pavesi, assolutamente opposta all’eroismo individuale cavalleresco-eroico. Perfino Sangraal stesso, dopo essere riuscito ad aprire l’ Arca dei Templari a seguito del complicato duello psicologico con lo spirito dell’arca (interpretato da Sabrina Siani), sembra non essere entusiasta del ritrovamento. Eccetto nella scena finale dove l’eroe farà uso della balestra per uccidere la Dea Rani, l’oggetto magico, nelle sue mani sembrerà sempre un impicciante e zavorrante “rimommolo” che egli userà nei modi più disparati – come scudo o arma contundente – eccetto quello consono; dando quasi l’impressione che se l’arma sacra si fosse rotta;… “ops!…”, non sarebbe stato poi questo gran dramma.
Prima di avere la meglio sulla Dea malvagia, interpretata da Xiomara Rodriguez, (presente nel film di Verdone In viaggio con papà), Sangraal dovrà affrontare un lungo e sofferto combattimento con Nantuk; un “Thulsa-doomiano” perennemente succube, vessato e umiliato dalla Dea Rani che è di fatto la sua “Mistress”. Una volta sconfitti Nantuk e la Dea, il figlio di Ator si consolerà delle morti dell’amata moglie Lenne e del caro amico Huang fuggendo sulle ali dell’amore con Ati, e, chi lo sa:… magari forse anche proseguendo la dinastia di Ator da qualche parte.
La pellicola è pesantemente castigata da un’estetica decisamente scarna e da una percezione nella trama che nella base creativa è nè più nè meno che un “compitino” , peggiorato però da elementi inadatti e distonici come i sopracitati dell’arca e della balestra. Si è apportata la rinuncia degli archetipi dell’amazzone combattente (uccisa ad inizio film) e della “fanciulla in pericolo” sostituite con una donna dall’animo buono e dal temperamento prudente e furbo, Ati, figlia del capotribù dei pastori, un personaggio privo di acuti ma che – bisogna ammetterlo – ha ragion d’essere, paradossalmente premiabile per il suo modo realistico di essere anonima. Si è cercato inoltre di variare il muto combattente “Thong”, una macchina da guerra efficacissima e priva di psicologia, ricercando in Huang un personaggio ancor più simile a Subotai, allegrotto e con la battuta pronta. Esso risulta tuttavia macchiettistico, somigliando – anche se adulto – più a Shorty di Indiana Jones e il Tempio Maledetto che all’Hykraniano di Conan il Barbaro. Torna in mente sia il carisma di Griba in Ator l’invincibile sia l’eleganza e l’empatia di Subotai , tanto per fare un “esempio qualsiasi”, nella bellissima scena dialogata con discorsi teologici con Conan, basta questo rapido pensiero per rendersi conto che Huang (come d’altronde anche Thong) sia un personaggio destinato ad arrivare poco lontano nella strada dei ricordi.
Opportuno è sottolineare che il film diretto da Franco Prosperi , Gunan il Guerriero (sempre con Pietro Torrisi protagonista), uscito lo stesso anno (1982), presenta un impianto dei nomi propri identico a quello di Sangraal – La Spada di Fuoco, seppur distribuiti diversamente tra personaggi buoni e malvagi, lasciando adito al sospetto che i due film siano diversamente adattati da un soggetto comune di partenza. Ci si rende conto sin dall’inizio della narrazione che, nell’osservare l’ennesimo attacco-sterminio-saccheggio ad opera del Capotribù Nuriak contro la Tribù dei Socmen, il cui re è chiamato Nantuk (come il personaggio negativo principale di Sangraal) le due pellicole scaturiscano da una matrice in comune rintracciabile anche in macroscopiche somiglianze tra vari personaggi. I gemelli Gunan e Zukhan, vengono salvati dalla nutrice e allevati dalle amazzoni che faranno di loro due esperti guerrieri. Piacevole è il richiamo iliadico che ritrae Zukhan spacciarsi per suo fratello Gunan e perire trafitto da Nuriak.
Amaro il destino di Zukhan che viene punito per aver voluto vendicare il buon re Nantuk “rubando” l’impresa al più meritevole Gunan che lo aveva superato nelle prove in cui le Amazzoni li avevano giudicati. Sarà certamente consolatorio per il povero Patroclo sapere che morire per mano di Ettore è una sorte più generosa perfino di sopravvivere (se così fosse accaduto) alla mano di Nuriak, ben più sleale, meschino e partigiano al torto rispetto al principe troiano. Dopo la morte di Zukhan, per il quale Gunan nutriva si grande rivalità, ma anche grande affetto, si scatenerà la furia di un guerriero che, tra tutti quelli degli Sword & Sorcery italiani ; Ator, Sigfried, Sangraal, Thor, sarà il più simile a Conan. Da notare infatti che Torrisi in questo film non ha il solito aspetto eraclideo da peplum, mantenuto perfino nell’ambientazione norrena de Il Trono di Fuoco, ove vi era maggior ragione di abbandonarlo, ma sfoggia il capello lungo e caratteristiche psicologiche simili al cimmero. Del tutto collaterale è il fatto che Gunan, nel voler somigliare a Conan, riesca più a rendersi simile in maniera predittiva ad uno steroidato Antonio Conte (attuale allenatore dell’Inter).
L’opera di prosperi è priva di pretese, povera dal punto di vista estetico e fila in un lineare anonimato. Nei combattimenti viene spesso utilizzato il rallentatore per accrescere il tono epico delle gesta e delle irruzioni spada in mano di Gunan, rischiando però d’essere un po’ noiose e ripetitive nella parte centro-finale del film.
Gunan il Guerriero ha due elementi che tuttavia è doveroso portare alla luce. Il primo è quello di aver alazato al massimo i toni “Sword” e portato al minimo quelli “Sorcery”, il secondo è quello invece di aver anticipato l’emento dei gemelli ripreso nel film di Ruggero Deodato del 1985, Barbaryans & co. Riguardo al primo elemento si potrebbe osservare un riflesso di continuità in due pellicole con velleità finalizzate all’interpretazione protostorica, dotate di una atmosfera diversa da tutti quelli sino ad ora trattati: Thor il Conquistatore (1982) di Tonini Ricci e Ironmaster – La Guerra del Ferro (1983) del più noto Umberto Lenzi. Sulla pellicola di Lenzi, pur non escludendo in futuro una trattazione a riguardo, abbiamo deciso di non soffermarci essendo questa nient’affatto Sword and Sorcery nè tantomeno Fantasy, ma semplicemente un film di interpretazione protostorica che pone come fatto significativo e spartiacque la scoperta del ferro. Il film di Lenzi più che riferirsi a Conan il Barbaro mostra qualche somiglianza con La Guerra del Fuoco (1981), di Jean-Jacques Annaud, anche se in quest’ultimo l’elemento focale è il fuoco. Anche Thor il Conquistatore appartiene, come il film di Lenzi, ad una concezione ad interpretazione protostorica che utilizza come pietra miliare di sfondo alle avventure, invece che la scoperta del ferro, quella dell’agricoltura e della domesticazione equina, fregiandosi d’una imprevista somiglianza e precursione con il buonissimo film 10.000 a.c. di Roland Emmerich (2008).
Nonostante anche Thor il Conquistatore sia pesantemente penalizzato da uno scarsissimo margine di spesa, si rivela un film con nascosti aspetti interessanti. Non mancano certamente delle ingenuità e dei pacchiani inestetismi, ma la pellicola ha il merito di esprimere una sintesi ben bilanciata tra film d’interpretazione protostorica, Fantasy Classico e Sword and Sorcery. L’opera di Tonino Ricci si scopre una gradevole variazione dei registri dopo aver visionato in successione (dopo tutto l’ambito di Ator) Sangraal – La Spada di Fuoco e Gunan il Guerriero che faticano decisamente troppo a prendere le distanze da Ator. Il protagonista, Thor, è un personaggio di scarsa caratterizzazione, si colloca come punto di sintesi tra Conan il Barbaro, Tarzan delle Scimmie e Kull di Valusia, ma decisamente più brutale, rozzo e animalesco dei tre che, insomma;… già da loro conto non sono certo dei sommelier di un ristorante stellato. Thor il Conquistatore è figlio di Knut l’Uccisore, il quale passa però ad essere “l’ucciso” (insieme alla moglie e madre del protagonista) dal crudele Gnut, un capoclan di una comunità guerriera seminomade e proto-civilizzata. Thor sarà tratto in salvo da Etna, uno stregone in grado di lanciare incantesimi e trasformarsi in Gufo. Etna è un personaggio meta-narrativo e crepuscolare, che, in virtù di una contrastante diversità con tutti gli altri elementi del film, sembra simboleggiare un mondo fantastico che fu e “che ora non è più”, un residuo rimasto innaturalmente in vita solo per permettere ad un predestinato di sopravvivere in un mondo quasi primitivo (se non fosse per lo sviluppo metallico) e basato sulla violenza. Il topos della spada magica (che dopo l’uccisione di Knut, si trasformerà in seprente rimanendo nascosta vicino al menhir sacro) sembra in realtà funzionale soltanto a tracciare un legame triangolare tra Thor, il padre Knut e il dio Tesha, ma è d’importanza relativa rispetto alle componenti del “Seme d’oro” (Il grano e quindi lo sviluppo agricolo) e quello della domesticazione del cavallo. Tuttavia la magica spada di Tesha e il cavallo addomesticato saranno fondamentali per distruggere il clan semi-nomade e proto-tribale di Gnut e procureranno la pace necessaria perchè si possa coltivare il “seme d’oro” e quindi iniziare una vita stanziale e agricola. Il termine della visione lascia la piacevole sensazione d’aver fruito, nonostante tutto, d’un film intelligente e con doti nascoste “sotto traccia”, che potevano fiorire meglio con un impianto meno povero di risorse.
L’ anno successivo all’uscita di Thor il Conquistatore il filone sword and sorcery ritorna a scenari più famigliari e meno basati sull’interpretazione protostorica, e nel 1983 ritroviamo Il Trono di Fuoco, film che sfodera la “consueta artiglieria pesante” reclutando di nuovo l’ormai affezionatissimo “Pietrone” Torrisi e la bella Sabrina Siani, che anche stavolta, farebbe dire a Gandalf Il Grigio la stessa frase usata per la cotta di maglia in Mithril di Bilbo :…
” supera da sola il valore di tutto il film se non dell’intera corrente cinematografica sword and sorcery italiana”
La storia esprime i toni più classici possibili e affida la sua alimentazione fondale a liberissime e edulcoratissime ispirazioni verso i lati più pop e profani del medioevo e del mondo norreno, mentre le parti dirette e organiche (trama e personaggi) sono quelle più abituali alla corrente, vale a dire un eroe predestinato contro l’usurpatore passando per la consueta strada di mezzo; una avventura variegata di prove, che divampa nel temuto incontro della spada con la magia. L’opera, nell’essere del tutto priva di pretese e non portando nessun elemento inconsueto a tuttò ciò che si era visto e che si vedrà più avanti, si mostra visivamente migliore ai film precedenti, compresi quelli dove vi era sempre il Torrisi protagonista: Gunan e Sangraal. Tra scene più scoppientati, quasi sempre inclini a risoluzioni a fil di spada e qualche segmento più soporifero si esplicita qualche parentela, seppur ridotta e non restitutiva della stessa fattura, con i Cappa e Spada cinematografici italiani ancor più che con i Peplum, i quali, insieme a Conan il Barbaro di J. Milius sono la seconda grande sorgente d’ispirazione di questa serie di film.
Il trono di Fuoco sembra infatti non sottrarsi a quel tocco di conviviale romanticismo che fa tornare in mente alcuni piacevoli Cappa e Spada; come l’ottimo film del 1956, il Cavaliere della Spada Nera. La linea della trama segue tappe ormai consolidate in uno scenario che ritrae quello che sembra un medioevo inventato e che strizza l’occhio al mondo norreno. Capiremo però verso la zona centro-finale del film che in realtà, nel sentir nominare esplicitamente i nomi di Thor , Odino e Satana, il rimando al mondo storico è ben più che un ammiccamento all’interno di un “secondary world”.
Non è certamente disprezzabile l’elemento del “Trono Maledetto” che condanna ad una “morte fiammante” coloro che sono indegni di sedervisi. La componente, anche se introvertita e metaforica, come d’altronde nelle opere di George Martin – che di “troni maledetti” ne sa qualcosa – suggerisce un istintivo richiamo alla Saga degli Atridi e risulta un buon modo di seguire il ripetuto registro dei rimandi mitologici. Meno pregio è invece nella venatura sincretica che Franco Prosperi ha inserito nella storia che per tre quarti ha utilizzato nomi di luoghi e vicende inventate, per poi sfoggiare a più di metà film i nomi di Satana, Odino e Thor. Tale scelta sembra figlia di una certa indolente voglia di estendere l’interesse ad un pubblico più generalista e lascia un po’ di amaro in bocca, ripetendo nelle stesse modalità l’ingenuità del “Nucleo Geometrico” in Ator 2. Nonostante tutto Il Trono di Fuoco si rivela, probabilmente anche per demeriti degli altri, una delle pellicole più guardabili della corrente, degna di essere paragonata a quella contemporanea diretta da un nome decisamente sacro nel mondo dei B-Movie di culto; Lucio Fulci , autore di un contributo a questo genere intitolato Conquest (1983).
Non sarebbe corretto evitare di premettere che il solo portare a compimento un film come Conquest, penalizzato da un budget bassissimo, corrisponda ad un atto meritevole. Allo stesso modo, nel riconoscersi come estimatori del regista di uno dei più grandi film di genere italiani (Quella Villa Accanto al Cimitero 1981), e con esso molti altri cult, è impossibile non riconoscere come le buone cose espresse da questa pellicola vengano sostanzialmente gettate alle ortiche da alcune scelte, come quella d’una improvvisa e inspiegabile fretta negli sviluppi finali e da una tendenza – nel bene e nel male – a lasciare molti dettagli insoluti e destinati alla libera interpretazione. La storia narra di Ilias, interpretato da un giovanissimo e poco convincente Andrea Occhipinti, giovane principe e arciere proveniente da una misteriosa terra civilizzata. Egli intraprende un viaggio di conoscenza di stampo simil-sciamanico, destinato a portarlo “oltre il grande mare”, poichè è tradizione del suo popolo conoscere il bene e il male e quindi operare una scelta netta prima di regnare. Una volta sbarcato, il nobile guerriero avrà subito l’opportunità di qualificare la sua natura di futuro re nel decidere se ignorare la tirannia della regina Ocron e vivere la sua vita, magari tornando a casa, o compiere la scelta di combatterla e rischiare di morire in quella terra dimenticata.
Già dall’inizio Ilias sarà infatti attaccato dagli Uomini-Lupo e dai guerrieri di Ocron, ovvero i due clan che compongono l’elìte dei servi della regina e con i quali essa esercita la sua spietata tirannia su un popolo di pastori primitivi. Il civilizzato sarà salvato da Mace, un antieroe solitario a metà strada tra il Mad Max di George Miller e un Ranger di Dungeon and Dragons. La figura di Mace è apprezzabile, ben posta e funzionale a instillare in Ilias la “via di mezzo”, quella della neutralità naturale e quindi d’una seducente etica indipendente basata su due principi contrastanti ma ben sposabili all’altare del pragmatismo: il cinismo della sopravvivenza, espresso nell’ignorare gli esseri umani e quindi nell’ignavia di restare lontano dal male superiore della tirannia , contrappesato però ad una base etica riflessa sugli animali e sulla scelta di non fare del male se non a fine di sopravvivenza.
Il tutto però si sgretola, ad esempio, nella delirante scena in cui Mace, semplicemente per esercitarsi con quella “nuova arma portata dallo straniero” (l’arco da tiro) uccide un innocente ridacchiando subito dopo e lasciando Ilias inspiegabilmente indifferente. Seppur marginale già una scena del genere fa capire che quel poco di buono in grado di produrre la pellicola sarà assolutamente fagocitato da una mancanza di amore e cura per i dettagli e la solita patologica tendenza all’approssimazione, vero male di questi film, ancor più dei budget bassi. Inevitabile ripensare a racconti come La Fenice sulla Lama, Gemme di Gwalhur, Oltre il Fiume Nero e di come vengono trattati da Robert E. Howard i bilanciamenti morali. A tale pensiero l’assidua affermazione di paragone tra lo scrttore e questo genere di film appare come una volgare blasfemia, ma la cosa può benissimo essere estesa anche al povero e sempre massacrato buon vecchio Ator, banale quanto volete ma che mai avrebbe fatto uno scivolone del genere.
No, aspettare, cancellate tutto:…lo ha fatto Fulci, quindi va benissimo! Perchè c’è una cosa che bisogna imparare dai “cinemari”, tutto va benissimo se a farlo sono Tarantino, Fulci (di cui tra l’altro il sottoscritto è un estimatore) o altri pochi eletti. Abituatevi o non parlate di cinema.
Superato il trauma per la scena descritta si può rimettere “play” e quindi osservare la storia progredire verso vari accadimenti che metteranno a dura prova Ilias e Mace. Viene convogliato un interesse centrale per l’arco e le frecce, arma che rende Ilias una ossessione per Ocron che, pur di acciuffarlo arriva a sottomettersi all’enigmatico e stregonesco Zora, individuo dall’ignota natura sovrumana, ricoperto da una tunica rivestita da placche metalliche e da un Elmo. Il pentolame umanoide, oltre ad avere il potere di lanciare dardi magici e avvelenati, scatenerà contro i protagonisti numerose forze arcane: gli Zombie, contro i quali Mace avrà la meglio; le Creature della scogliera, che sarebbero riuscite a uccidere Mace se Ilias non fosse tornato a salvarlo; i mostri del sottosuolo; che sfortunatamente riusciranno a ghermire Ilias e decapitarlo, facendo passare l’eredita dell’impresa su Mace. Ci accorgeremo infatti di come ogni gruppo di creature affrontate dal duo dei protagonisti sarà corrispondente ad un evento significativo.
In questo segmento appena sintetizzato vi sono – bisogna ammettere – alcune parti apprezzabili. Prima di combattere contro le creature mostruose agli ordini di Zora, Ilias era stato colpito da un dardo avvelenato attraversando così una dolorosa degenza che si sarebbe conclusa con la morte se Mace, non fosse andato nella Valle Azzurra a recuperare un’erba miracolosa imbattendosi così negli Zombie contro i quali, non senza combattere strenuemente, avrà la meglio. Alla guarigione, Ilias, su consiglio di Mace decide di rifulgere il “Bene e il Male” e quindi soddisfare la sua coscienza neutrale, ritornando a casa.
Si può osservare come Mace rappresenti – sotto certi aspetti – la destinazione del viaggio sciamanico di Ilias. Nell’uomo auto-definitosi “senza amici/amico solo degli animali” egli trova, per l’appunto, un amico che lo induce ad abbandonare la logica della scelta netta tra bene e male. Di fatto i due personaggi apportano reciprocamente un cambiamento delle proprie nature come se l’uno permeasse nell’altro e non sarà un caso infatti che alla fine sarà Mace, cospargendosi il corpo delle ceneri dell’ormai defunto Ilias, a “fare la scelta” di imbracciare l’arco e abbattersi contro la Tirannia.
Quando la voce degli scrupoli e del senso di colpa busseranno alla porta di Ilias durante il viaggio in barca egli tornerà indietro e troverà Mace prigioniero delle Creature della scogliera. Ilias le ucciderà usando per la prima volta le frecce magiche per poi recuperare Mace che crocifisso e gettato in mare sarà riportato in superficie dai Delfini. Le ultime creature da affrontare, i Mostri del sottosuolo, sono quelle che uccideranno Ilias e comporteranno il definitivo cambiamento di Mace, il quale porterà avanti la missione dell’amico. Sarà una sequenza breve quella degli sviluppi finali dove Mace attraverso le frecce magiche ucciderà Ocron e i suoi servi. Piuttosto sibillino, ma per certi versi poetico è il finale dove il cadavere di Ocron si trasforma in un lupo che poi correrà nel bosco insieme al cane che teneva compagnia alla malvagia regina nella sua “vita umana” . La trasformazione post-mortem di Ocron parrebbe suggerire il raggiungimento della pace congiungendosi con quello che potrebbe essere stato l’unico amico mai avuto: il suo cane, dato che anche Zora in ultimo la abbandonerà sparendo misteriosamente. Non troppo credibile è l’elemento dell’arco – vedendo dardi ed elmi di metallo in abbondanza – posto similmente a come Thor il Conquistatore e Ironmaster ponevano Il Cavallo, L’agricoltura e il Ferro, tuttavia la sua centralità decade quando l’arco si scopre magico, avverando la profezia accennata ad inizio film.
La storia sembra in fin dei conti far emergere una sua morale che è anzitutto fortemente naturalistica e incline a riconoscere negli animali una forma di benigna purezza indipendente dalle logiche del bene e del male. In secondo luogo, la psicologia di Conquest si basa sul fatto che, rifiutare una scelta netta tra bene e male non porta necessariamente ad una superiore “meta sciamanica” , bensì può condurre a sprofondare in uno stato che – se permettete – definirei non troppo lontano da un sottosuolo alla concezione del Dostoevskij , incompatibile con il grande valore dell’amicizia.
Occorre tuttavia aggiungere una riflessione personale che, spero perdonerete, senza la quale, questa analisi potrebbe risultare scollegata dalla realtà. Il film si rende appena guardabile solo nel valutare gli eventi accaduti secondo i loro attributi simbolici, cosa che uno spettatore non è necessariamente tenuto a fare. Senza tenere conto di tali elementi sarebbe facile ritenere – non a torto – sconclusionate le scene del finale o quella, ad esempio, del salvataggio compiuto dai delfini, simbolo di amicizia e protezione, che non fa altro che metaforizzare il continuo salvarsi la vita a vicenda tra Mace e Ilias. Lungi da noi pretendere opere troppo didascaliche ma, portare a compimento una storia eccessivamente introvertita nella sua comunicazione non può sempre usufruire dell’alibi del simbolo, poichè l’arte, quand’anche di raffinata rintracciabilità, per essere uno strumento e non un puerile esercizio, nutre sempre la profonda ricerca di una aggregazione di elettive affinità umane. Sarebbe quindi troppo facile disprezzare Ator o, ad esempio il Trono di Fuoco nel paragonarli al film di Fulci che non prende piena responsabilità delle sue scelte simboliche, lasciandole al caso e curandole ben poco nei dettagli. – Fine riflessione personale –
Gli effetti splatter e i trucchi vari che Fulci importa, quale suo marchio di fabbrica, dai suoi film horror non sembrano poi troppo adatti al film che è precedente di due anni alla pellicola che unanimemente è considerata “il filetto pregiato” di questa lunga “grigliata” composta – il più delle volte – da pezzi di carne o troppo crudi o tagliati male; stiamo parlando del “mitico” The Barbaryans & co. (1985)
Al discusso Ruggero Deodato viene assegnata la missione, non certo impossibile, di mettere a referto il film superiore a tutti gli altri della corrente, nonchè degno dell’alloro che questa corrente ha avuto come stimolo perenne: essere Il Conan il Barbaro italiano. Il regista di Cannibal Holocaust gioca la sua partita col vantaggio di un budget superiore a tutti quelli che lo hanno preceduto e che lo succederanno, speso per una scenografia più ricca, costumi sgargianti e colorati e – tanto per andarci sul sicuro – a non cercare l’erede di Schwarzenegger in un singolo volto, ma in due: i gemelli Peter e David Paul.
Non si può negare che Deodato alla fine sia riuscito nell’obiettivo; quantomeno quello di dar vita ad un film che è stato considerato dalla critica italiana, americana e inglese il migliore in assoluto tra tutti, che ha eclissato in un mondo di nebbia sia Ator sia tutti i “Conanidi” con il volto del “Pietrone” Torrisi, ma con un dettaglio: La pellicola sembra solo parzialmente incline allo Sword and Sorcery, mostrandosi in realtà più parentabile con un classico Fantasy fiabesco e avventuroso alla Legend o La Storia Fantastica. Una larghissima venatura dell’opera è pregna di ritmi e tattiche da commedia, sorretta da personaggi come Ismene, che potrebbe essere trasportabile nelle spiagge californiane di Summer School (1987) senza subire traumi, o come il Signore della Polvere, interpretato da Micheal Berrymen (Già con Wes Craven in Le Colline hanno gli Occhi) che vincerebbe una gara di smorfie facciali anche con Franco Franchi; e infine gli stessi due gemelloni dai muscoli incipriati, che, pur simpaticissimi e riusciti, ben poco si accostano ad una tipologia eroica genericamente degna del “Miglior Sword and Sorcery italiano”. Se Conan il Barbaro di Milius è rappresentabile nei Manowar, loro potrebbero al massimo essere i Molly Hatchett o Joe Lamont . La parte drammatica del film è invece rappresentata dall’arco della regina Canary, intrappolata nella gabbia dorata d’un amore tossico, quello di Kadar, il villain del film, ribollente d’un sentimento ambiguo non dissimile da quello di Lord of Darkness per Lili in Legend.
La storia che scaturisce dal lavoro di Deodato si rende apprezzabile nella robustezza dei suoi elementi. L’antefatto che racconta la storia del rubino e della Tribù dei Ragnicks offre già un buon livello di coinvolgimento. Il delinearsi delle vicende mostra il percorso dei due simpatici barbari gemelli Gore e Kutchek ; dalla loro schiavitù simile a quella di Conan sino alle variegate avventure “in party”, forte dell’ aggiuntivo elemento di quello che renderà il duo dei gemelli uno stabile trio; la graziosa Ismene. Il film lucida bene la sua forbice, formata da una lama drammatica, che è quella sopracitata dell’impotenza della regina Canary , e dall’altra, quella della commedia brillante, che vive nell’impianto dei dialoghi e nei vari intervalli e siparietti comici. L’allungo tagliente della forbice però è la ricca parte avventurosa che si alterna tra sortite furtive e vari combattimenti, quando più seri e quando più rissaioli alla Bud Spencer e Terence Hill, intervallati da belle cavalcate in prati e boschi. Lascia però l’amaro in bocca la sfida importante “quasi finale” con il drago che, risulta tremendamente sbrigativa per l’importanza che rivestiva nella trama, per poi concludersi con la “camminata” dentro lo stomaco del mostro come fosse la balena di Pinocchio nel vecchio film di Luigi Comencini. I due guerrieri gemelli non troveranno tuttavia Nino Manfredi, ma la bella e perfida China, strega che impensieriva perfino il potere di Kadar, ormai morta e con il rubino magico di cui si era impadronita pronto per essere preso dai due eroi. Anche il combattimento finale con Kadar si rivela assolutamente non all’altezza del tenore complessivo del film. Azzeccare le due scene di combattimento sensibili avrebbe senza dubbio portato Barbaryans verso una seria pretesa internazionale che, nel più amaro peccato sfuma. Nel voler stabilire una concretezza definitiva, non si vuol essere troppo ingenerosi – avendo esposto secondo fallibili e personali criteri i punti di forza e debolezza dell’opera – nel dire che più che un vincitore, Barbaryans è un “ladro di vittoria”. Non si può ignorare tuttavia la superiorità visiva del lavoro di Deodato che riesce a sviluppare ciò che la trama proponeva e a completarlo in maniera compiuta e solida, cosa assai rara in questa corrente che abbiamo trattato oggi.
Conclusioni
Prima di giungere alla definitiva conclusione e rispondere alla domanda posta nelle fasi introduttive è opportuno compensare questa panoramica, svoltasi essenzialmente a braccio d’opinione, con un dato di carattere giornalistico che è alla base di ogni considerazione. Eduard Sarlui, socio di Aristide Massaccesi reagì in maniera fulminea al successo di Conan il Barbaro di John Milius del 1981 che, infatti, fu tra i 25 film più visti in Italia nella stagione 1981/82. Da questo fatto furono mobilitate un po’ di risorse e invogliati alcuni registi a “battere il ferro quando era caldo”. La pellicola di Milius e “l’ispirazione revival” dei Peplum anni ’60 sono state le uniche alimentazioni creative a cui si è attinto come da un pozzo senza fondo per rifornire dieci anni, ovvero il tempo di durata di questa corrente di film, di soggetti e film. La corrente dei film italiani Sword & Sorcery è stata sostanzialmente soppressa nell’essere accorpata dalla stampa generalista nel genere Peplum. Se la scelta è comprensibile per ovvie somiglianze estetiche, risulta tuttavia concettualmente erronea e significativa nel comunicare quanto poco sia stato considerato il fattore “Sword and Sorcery” che di fatto si è tradotto in realtà più come “Conan il Barbaro all’Italiana con qualche pezzo di Ercole con Steve Reeves quando ci sta bene”. Non proprio la stessa cosa, direte voi, forse se il fenomeno fosse riuscito alla maniera giusta oggi avremmo usato la dicitura “Spaghetti Hyborian”. Analizzando in questa chiave risulta impossibile non notare come, nell’arco dei dieci anni circa, ben sette pellicole siano state girate tra il 1982 e il 1983. Questo certamente risponde alla parte mancante degli insoluti verso la domanda iniziale che trova già nella costante dei budget da fame una grossa parte della risposta. Ma riprendiamo da dove avevamo lasciato:
Cosa è andato storto?
Sperando di non sembrare un po’ troppo retorici, quel 30% della risposta mancante è colmabile nel riconoscere una fondamentale mancanza “di amore” di fondo e di interesse per il genere fantasy e per lo specifico della Sword and Sorcery. Il fatto che l’unica fonte di ispirazione sia stato il film di Milius e che bisognava sfruttarne il suo successo italiano ha comportato una naturalissima conseguenza dei fatti: film estremamente poveri di idee, quasi sempre frettolosi e stiracchiati all’inversomile nei soggetti e nelle trame, beffati ulteriormente dal fatto che quando si è cercato di fare qualcosa di nuovo, paradossalmente, si è fatto anche di peggio. Al contrario nel film di Milius troviamo un genuino interesse per Robert E. Howard e il Ciclo di Conan , con riferimenti di prima mano all’autore e ad altre fonti di ispirazione in arricchimento capillarmente ricercate, attitudine ben lontana dalle citazioni e dai topoi sfibrati e devitalizzati che avvengono a partire da Ator l’Invincibile, sempre percolati attraverso autoreferenziali stereotipi cinematografici (cosa che avviene anche a livelli più alti, bisogna dire) e mai tratti direttamente dalle vive e guizzanti fonti letterarie. Anche Conan di John Milius ha avuto degli apripista cinematografici, come la Spada di Hok (1980) o il più arturiano Dragonslayer, con il risultato tuttavia di essergli indiscutibilmente superiore. Se invece, mettendo da parte un attimo la precursione di Milius, identificassimo in Ercole al Centro della Terra (1961) il perfetto proto-sword and sorcery italiano, al contrario, l’Ercole di Mario Bava spazzerebbe via Ator, Gunan,Sangraal, Sigfried, Ilias anche con una mano sola e sigaretta nell’altra. Le critiche negative piovute dopo hanno paradossalmente avuto recrudescenze anche tra gli stessi insider. Fu infatti lo stesso Massaccesi a dipingere il povero Miles O’Keffe come “un po’ un cagnaccio” e un “Incapace di cambiare espressione”. Non siamo abituati a dare voti nè a voler essere maestri, non avendo, per quanto riguarda il sottoscritto, nessuna scienza per giudicare un film diversamente da qualsiasi altro tra voi amici lettori. Visto che però di riflessioni, ciancie e chiacchiere se ne sono fatte tante, abbiamo voluto restituirvi un piccolo elenco finale corredato da concreti voti senza alcuna pretesa, includendo anche i film che abbiamo deciso di escludere dalla panoramica perchè ritenuti inorganici alla corrente.
—
1982 – Ator l’invincibile : 6
1982 – Gunan il guerriero: 4,5
1982 – Sangraal, la spada di fuoco: 4
1982 – Thor il conquistatore: 6
1982 – She: 6
1983 – Conquest 5,5
1983 – Il Trono di Fuoco: 6 –
1983 – Ironmaster – La guerra del ferro: 4
1984 – Ator 2 – L’invincibile Orion: 3
1985 – The Barbarians 6,5
1987 – Ator il guerriero di ferro 3
1990 – Quest for the Mighty Sword: 4