I Racconti di Satrampa Zeiros: “Il castello del Vuoto” di Samuele Baricchi

Oggi, per i Racconti di Satrampa Zeiros, Samuele Baricchi ci regala una storia dove protagonista è la più classica delle quest, ambientata nel più tetro dei manieri, colmo di pericoli ancestrali. Fatevi coraggio e seguite i suoi passi all’interno de

 

Il castello del Vuoto

 

Sentivo solo il rumore della pioggia e dei miei passi. Essi riecheggiavano attraverso l’ampio salone d’entrata di quell’antico castello, abitato unicamente dalla vegetazione e da ricordi di epoche lontane. Queste si dispiegavano davanti ai miei occhi attraverso gli affreschi e le statue, amputate e mozzate dalle vecchie battaglie.

Il peso della mia armatura era sopportabile, giacché la mia spada era un oggetto a cui davo particolare fiducia. Il mio braccio era il mio unico credo, l’istinto la mia guida.

Non sapevo a cosa andavo incontro, nè se il compenso ne valesse la pena. L’unica informazione in mio possesso era il nome del luogo che, tradotto dalla lingua impronunciabile dei Re Serpenti, significava “Il Castello del Vuoto”. Nella lingua comune era chiamato “La Fortezza degli Uomini- Serpe”. Mentre camminavo nel buio e le luci del giorno si affievolivano dietro di me, dando inizio a un tramonto stupendo a cui non avrei potuto assistere, riflettevo.

Anni e anni di storia, di scoperte geografiche, di arti sempre più sviluppate e nuove, eppure per me l’unica cosa sensata era far coincidere il mio istinto con la mia spada. Nient’altro contava.

La mia strada portava verso quelle profondità della Fortezza che non si potevano prevedere, non vi erano mappe, non vi erano sentieri o percorsi prestabiliti.

Ero solo un mercenario, e mi stavo addentrando addentrando tra i meandri del Castello del Vuoto. Certamente ero uno tra i migliori delle terre dell’Ovest,  divenuto addirittura cavaliere, ma pur sempre un essere umano, sebbene armato con il meglio che la mia discreta paga potesse comprare. Sotto questo aspetto non potevo proprio lamentarmi.

Una sensazione di aria umida e stantia, rimasta lì per secoli, mi attanagliò le narici e l’umidità s’infilò al di sotto della cotta di maglia.

Aprii la porta di legno marcio con un calcio. Sussurri nelle tenebre mi accolsero con un abbraccio familiare. Intravidi  figure violacee nell’oscurità quasi totale, soltanto la fioca luce del pomeriggio inoltrato illuminava qualcosa da qualche grata situata a molti piedi d’altezza sopra di me. Più si avvicinavano, e più percepivo le mie energie andarsene, non quelle corporee, quelle mentali, quelle psichiche, quelle legate alle speranze e ai dubbi. Provavo una sensazione di sconfitta; mano a mano s’insinuava nella mia mente riuscivo a capirlo. Era una sensazione connessa a un dubbio che forse avevo già una volta varcate le immense colonne della Fortezza. Ne uscirò vivo? Ma, soprattutto, sono vivo? O lo sto facendo per sentirmi vivo, che è una cosa ben diversa dall’essere vivo?

E per sentirmi vivo avevo davvero bisogno di entrare nell’oscurità più profonda, nel cuore freddo e senza vita della tenebra?

Tutto fu creato dalla Notte Eterna, dall’Eterno Vuoto

Una voce non mia, stridula, sussurrante, distante, mi passò per la testa, come un pensiero a cui non si da molto peso.

Le figure fumose e violacee mi avevano ormai avvolto e mi stavano a loro modo cullando, ponendomi a terra e ripetendo di riposare. Riposa, riposa, rinuncia.

Qualcosa dentro di me si scosse violentemente. <<Rinunciare??>> dissi urlando. Impugnai la spada.

Argento. Perfetta contro i non morti. Con una spazzata e un affondo i tre spettri si dissolsero con un urlo proveniente da un mondo sotterraneo e putrido, umido e freddo. Mi guardai attorno e notai delle torce. Le accesi una ad una scagliando su di esse un incantesimo di fuoco.

Il Castello doveva essere molto antico. Colmo di ragnatele, nidi di corvi, ragni, antiche librerie ad un piano superiore che riuscivo a mala pena a scorgere, e poi altri artefatti dalla natura a me sconosciuta, probabilmente appartenuti a stregoni di altre epoche. Alla mia sinistra potevo scorgere una colonna e una parte di muro crollate, difficilmente valicabili. Optai per la scala rimasta intatta sfidando il tempo sulla mia destra.

Una decina di frecce, consecutive l’una all’ altra, mi sfiorarono il viso. Feci un balzo all’indietro, tirando su il gigantesco scudo per coprirmi dalla testa alle ginocchia. Aspettai la fine dell’attacco che intuii essere una trappola. La vista di un mattone per terra, più rialzato rispetto agli altri, mi dava ragione.

Mi parve una buona cosa, perchè voleva dire che ciò che mi era stato commissionato di cercare esisteva sul serio, e non mi avevano semplicemente mandato a morire come centinaia d’avventurieri e stranieri prima di me. Il capo clan del villaggio di Hestmeir era solito sbarazzarsi delle persone a lui scomode proponendogli un sacco di denari, e un tesoro leggendario e incommensurabile che avrebbero trovato all’interno della Fortezza degli Uomini-Serpe, evitando ovviamente di avvertirli sulle numerose trappole e sulla probabile, anzi, quasi sicura, presenza degli Uomini-Serpenti, ritenuti estinti, per lo meno quelli di natura più ostile. Continuai a camminare. Del resto non ero in cerca di qualcosa in particolare. Ciò che mi interessava risiedeva nell’avventura di esplorare per la prima volta un luogo luogo così antico. Inoltre ero attratto dalla sapienza degli Uomini-Serpe. Erano un popolo molto più antico del nostro, dal quale originavano, leggende, folklore. Era la mia curiosità a muovermi. Forse era  la voglia di conoscere qualcosa di nuovo che mi aveva sempre spinto all’avventura, la voglia di essere vivo e di esserci, di godersi il momento, pensai, continuando a camminare per i corridoi illuminati dalla torcia che tenevo nella sinistra, nella destra lo scudo. O forse erano tutte scuse che mi stavo raccontando per giustificare la pessima idea di aver affrontato quell’incarico.

Il Castello del Vuoto. Più mi addentravo tra le vecchie librerie, le stanze, gli archi gotici, le statue di gargoyle e i dipinti di antiche dinastie di Re-Serpenti vissute migliaia d’anni prima, l’aria si faceva pesante, piena di polvere, la luce più fioca. Mi tolsi l’elmo. Ci vedevo molto meglio.

E fu proprio appena dopo quel gesto che mi resi conto che dietro di me vi era un Uomo-Serpe, alto più o meno quanto me, indossava un’armatura d’acciaio, che copriva soltanto le parti vitali.

Impugnava la sua lancia a due mani, sussurrando qualcosa con la sua lingua biforcuta da rettile, e la scagliò dall’alto verso e il basso sopra di me, probabilmente per infilzare la mia malaugurata nuca che stava appena appena prendendo aria, sudatissima dalle scale, corridoi, anfratti e ancora scalinate in pietra che si sgretolavano negli angoli sotto al mio passo pesante in armatura.

Schivai a destra con una rotolata, picchiando la testa contro il muro a fianco a me, maledicendomi per essermi tolto l’elmo. Non badai al sangue che sgorgava dalla fronte e non mi permetteva di vedere al meglio dall’occhio destro, e impugnai spada e scudo. Mi difesi da un affondo, alzando lo scudo sopra il mio sterno. Contrattaccai sul fianco scoperto, il suo sinistro, con un fendente che andò a segno, ferendolo dall’attaccatura della coscia a quasi metà del busto. L’Uomo-Serpente abbassò gli occhi, mi guardò intensamente sollevando di colpo il capo.

Le pietre del Castello parvero allora cambiare, diventare più familiari. Io ero già stato in quel luogo, forse. Io avevo già vissuto lì.

Vidi banchetti e festeggiamenti per uno sposalizio, vidi una cena sontuosa, con moltissimi invitati di diverse stirpi e razze provenienti da tutto l’Ovest e anche oltre, dalle Isole Azzurre, dai porti delle terre di Ferro, da Haalfingard, persino, la leggendaria landa degli elfi del Nord.

Potevo sentire il sapore della carne, il gusto della birra e del vino, dell’insalata amarognola mista al formaggio fuso e della macedonia condita con il miele e la panna. Sfiorai la mano della mia vicina commensale, che mi sorrise. La sua pelle era fredda. Anche la mia. Le sue pupille erano verticali, come quelle di un rettile. Guardai nella coppa d’acqua appena versata davanti a me e il muso di un Uomo-Serpe mi fissava, stupito, sconvolto. Poi capii.

Estrassi la spada dal fodero e gli tranciai di netto la testa. Uno schizzo di sangue, e poi il silenzio.

Stava cercando d’ipnotizzarmi con qualche stregoneria della sua stirpe, per convincermi di essere uno di loro. Ma per quali scopi? Sinceramente non m’interessava. Probabilmente era solo uno stratagemma atto a rendermi innocuo. Eppure un pensiero iniziò a martellarmi nella mente. E se gli stregoni degli Uomini-Serpe stessero…No, era meglio non pensarci.

Continuavo a camminare, era il momento di tirare fuori la borraccia e bere. Un sorso d’acqua e poi un altro, e poi un altro ancora. Non me ne concedevo di più.

Tra scalinate antiche e sentieri mai battuti Il Castello del Vuoto sembrava, nella sua struttura superficiale, avere un aspetto molto solenne e religioso. Una volta raggiunta una certa profondità, invece, l’ambiente mutava in qualcosa di più simile ad una catacomba labirintica. Ricordava le biblioteche dei monaci. Le vie smettevano di essere lastricate per diventare sempre più polverose. Erano cosparse di frammenti d’ossa di animali come topi, lepri, cinghiali, ma anche di ossa umane, teschi, per lo più. Non erano più ordinate e precise e il buio mi impediva di vedere più in là della strada.Mi addentrai nell’oscurità più totale con l’unica compagnia del suono dei miei passi e dello sfrigolio della della torcia. Ma no, c’era qualcos’altro. Tra i suoni e bisbigli della fortezza il clangore delle mie armi e dell’armatura risuonava assordante in quel silenzio così assoluto.

Ero troppo esposto. La mia stessa corazza era diventata un problema, un peso, un intralcio, mi avrebbero scoperto. E mi avrebbero trasformato in uno di loro.

Il pensiero mi venne come spontanea conclusione della catena sconclusionata di sensazioni e frasi che mi vorticavano in testa, colto probabilmente dalla suggestione del buio, dello sconosciuto, di quel posto, sempre più pesante, sempre più profondo e con meno aria, purezza. Mi sforzai di pensare ai miei antichi voti da cavaliere.

Il cielo ero terso e sereno e l’estate era nel pieno della sua vitalità. Bellissime sacerdotesse lasciavano cadere con grazia petali di rose sopra sopra di noi, mentre il maestro del nostro ordine ci riconosceva come cavalieri, posandoci la spada  prima su una spalla e poi sull’altra. Ricordo che guardavo l’orizzonte e mi sentivo vivo. Mi sentivo me stesso. 

E’ l’aria di questo posto che mi sta avvelenando, pensai.

Le mie dita assumevano l’aspetto di artigli da rettile, squamose, mani palmate. Non sapevo se la trasformazione fosse reale o se fosse solamente nella mia mente.

Quell’Uomo-Serpente mi aveva lanciato una maledizione. Presi la spada con la mano destra, lasciai cadere lo scudo. Mi tolsi l’armatura, rimanendo a torso nudo.

Puntai la lama contro la mia gola.Eppure…quel banchetto. Quella felicità. Quel sano senso di convivialità e vita. Mi rivestii e andai avanti. Sempre più giù, nella Fortezza degli Uomini-Serpe.

Sollevai una leva. Sentivo tornare le forze e la lucidità mentale. Si aprì un cancello, che dava su un ponte di pietra.

Improvvisamente dall’alto, non saprei dire di preciso da dove, probabilmente da dei cornicioni sopraelevati, piombarono su di me con un balzo due Uomini-Serpenti armati di sciabola e uno con lancia e scudo.

<<Non è molto leale>> dissi ad alta voce.

Quella fu la mossa più stupida che potessi fare. Non più tre, ma quattro, cinque, sei, sette, otto, non riuscivo più a contarli, Uomini-Serpe armati chi di scudo e sciabola, chi di lancia, chi di arco e frecce notarono la mia presenza e iniziarono ad avvicinarsi con passo diffidente a me. Non dev’essere nella natura di un rettile quella di attaccare senza aver prima studiato perfettamente la preda e il territorio di combattimento. Sempre se di combattimento si poteva parlare. Probabilmente mi avrebbero fatto a pezzi senza troppe cerimonie.

Cercai di radunare dentro di me tutta la calma possibile. Trassi un respiro profondo e mi concentrai su ciò che avevo appreso durante il mio addestramento e le battaglie passate. Cercai di focalizzarmi sulla sensazione di pace che si prova alla fine di un combattimento. La pace della vittoria. Al momento, comunque, la mia unica preoccupazione era sopravvivere. Di vincere non se ne parlava neppure. Cercai di eliminare il primo avversario con un colpo di spada inferto di sbieco. Non lo uccisi, ma rimase gravemente ferito. Riuscii a farmi strada sbilanciandone un altro con un colpo dello scudo per poi finirlo, una volta a terra, affondando la lama nelle sue viscere.

Schivai all’ultimo una freccia che stava per rendermi cieco da un occhio. Mi ricordai, così, di tenere lo scudo un po’ più sollevato. Mi accerchiarono, i bastardi.

Come un cane braccato continuavo a menar fendenti a caso, tenendo il più alto possibile lo scudo per ripararmi dalla pioggia di frecce. Rimasi immobile per un attimo. Un istante che ai miei avversari parve un’eternità. Il tempo parve fermarsi e ricorsi alla magia del fuoco. Trasmisi nella magia tutta la mia sicurezza e la quiete, raccogliendo immagini che richiamassero  l’essenza dell’orizzonte infinito. La mia mente cercò di raggiungere la profonda lontananza tra una costellazione e l’altra e tra universi senza un principio e una fine. Colsi la scintilla della stregoneria e la trasmisi come un fluido lungo tutto il corpo, fino ai palmi delle mani. Le posi a terra e si sentì il “clang” dei guanti di metallo. “Pyro!” Pronunciai, e attorno a me il terreno e gli Uomini-Serpe iniziarono a bruciare. Qualche secondo fu sufficiente a sterminarli. 

Non potevo farlo spesso, e mi serviva una notevole dose di coraggio e di energia per eseguire una magia già abbastanza avanzata come quella, ma era l’unico modo per cavarsela.

Mi sentivo svuotato, come dopo ogni incantesimo. Me ne avevano parlato, i maghi che praticavano da un po’ di anni. Dopo un po’ diventa qualcosa di subdolo. Ne vuoi sempre di più. Quella sensazione di potere e di controllo sugli elementi, quel senso di intima connessione con tutti i mondi e gli universi possibili creati e ancora da creare, finisce per possederti.

Mi guardai le mani. Di nuovo. Sembravano quelle di un Uomo-Serpente. Maledetto posto. Dovevo sbrigarmi a trovare quello per cui ero venuto e andarmene.

Il Teschio del Re-Serpente. Antica reliquia che serviva all’Arciduca della Chiesa dell’Ovest per dimostrare al mondo, ancora una volta, la supremazia ecclesiastica sul male.

Io ero il cavaliere al soldo più pazzo e più capace per svolgere tale compito.

Ovviamente sarei stato ricoperto d’oro, onori, donne, vino. E tutto quello che un uomo materiale desiderava. Ma io non ero un uomo di siffatta specie. L’Arciduca non sapeva che ero qui, in questo posto infernale, per rubare il Teschio del Re. Era la mia garanzia per la libertà.

L’avrei consegnato a qualche mia conoscenza che mi avrebbe garantito un passaggio in nave verso Enderlind, la Terra Libera. Non esistevano imperi, ecclesiastici, solo reami giovanissimi simili a tribù che vivevano per lo più spartendosi il territorio vastissimo. Erano selvaggi, e con usanze basate su credenze popolari. Superstizioni, le definirebbe la Chiesa dell’Ovest. Il popolo dell’Est, composto per lo più da pirati, era l’unica eccezione alla natura pacifica degli abitanti delle terre di Enderlind. Ancora più a oriente, invece, si narrava di una terra abitata da semidèi che combattevano al fianco degli eserciti degli uomini. La mia speranza era che a Enderlind avrei potuto cambiare nome, mestiere, vita. Non sarei più stato un cavaliere al soldo di importanti personaggi dell’Ovest, ma avrei potuto godere dei profumi, dei gusti, dei paesaggi e delle sensazioni di quei luoghi per me sconosciuti. Sicuramente mi aspettavo che sarebbero stati diversi dalla Fortezza del Re-Serpente. Se la Terra Libera mi faceva pensare alla vitalità, alle gioie del cielo stellato e al calore del sole, il posto in cui mi trovavo non poteva farmi venire alla mente altro che cose maledette, putride, memorie piene di rancore e di antica, fredda, vendetta.

Avrei avuto il coraggio di andare ancora sotto?

Una scala a chiocciola portava verso il portone di una sala.

Mi tolsi l’elmo. Non si vedeva quasi nulla.

Scesi giù per la scalinata, solo il suono dei miei passi a farmi da compagno. Nemmeno la luce della torcia, persa chissà dove, era più mia alleata. Giunsi, camminando e respirando lentamente, davanti a un portone in legno massiccio, intarsiato con immagini di serpenti, spade, battaglie, cavallerie, uomini a terra, uomini in carica. Era raccontata una storia su quel portone. Una voce leggera, ma ferma si insinuò nella mia mente. Mosse la mia mano.

<<Non avere timore>> mi disse. <<Passa la mano sopra il bassorilievo>>

Lo feci, lentamente.

<<Chi sei?>> chiesi <<Questo posto mi ha fatto impazzire>>

<<Sono la Donna-Serpe che hai ucciso prima>>

Feci un salto. Ero decisamente impazzito.

<<Quella che hai…decapitato>>

Iniziai a respirare rumorosamente, affannosamente, l’aria iniziava a mancarmi.

<<Stai calmo. Sono solo ciò che rimane dell’essenza del guerriero che hai ucciso prima. Noi vaghiamo per questo posto, in questa fortezza, in quel che ne rimane, le nostre anime, se vuoi chiamarle così. Prima o poi c’impossesseremo di qualche altro corpo…se tu non vuoi farmi avere il tuo>>

<<Prima hai tentato un incantesimo di possessione?>>

<<Certo>> rise sommessamente <<Noi della stirpe degli Uomini-Serpe eravamo molto bravi nella magia, quel tipo di magia che poi la Chiesa dell’Ovest ha definito oscura, nera, chiamala come vuoi>>

<<Ma un corpo ce l’avevi già>>

<<Stava invecchiando, ahimè>>

<<…..rettili>>. Dissi ad alta voce.

Nessuno mi rispose.

Rimasi solo con il silenzio, non so per quanto tempo.

Mi svegliai, forse. O non avevo mai dormito. Non saprei dirlo con certezza.

Ero nello stanzone dove si trovava la porta gigantesca con sopra il bassorilievo. Ricordavo di aver passato la mano sopra il bassorilievo più volte, ma non era successo niente.

Poi come un’onda gigantesca i ricordi mi travolsero.

Due eserciti si erano scontrati, secoli e secoli fa. Il primo, quello degli Uomini-Serpe, aveva perso, dopo la battaglia di Hinnfield. Passando la mano sulle figure intarsiate nel legno potevo percepire la loro sofferenza, il sangue che colorava i fiumi, i figli perduti, i villaggi bruciati, le vite spezzate. Gli eserciti dei regni degli uomini uniti in un’unica confederazione detta Confederazione Grigia, per via del colore argenteo delle loro armature, erano superiori di numero, nettamente.

Con una lacrima che mi solcava il viso scoprii che non si limitarono alla battaglia di Hinnfield, ci furono altri cosiddetti scontri minori, che per lo più erano saccheggi e stermini di intere città e villaggi. Un genocidio. Ricordai il giorno in cui mi fecero cavaliere. Ricordai quell’aria pura. Ricordai che percepivo, nella Sala degli Eroi, gli spiriti e le essenze infinite della luce nella quale erano stati glorificati. E percepivo le loro anime in totale ed eterna quiete.

Impugnai la spada e iniziai a prendere a fendenti il portone. Dopo un po’ riuscii a farmi spazio tra i frammenti di legno semi distrutti a calci, e riuscii ad entrare nel salone.

Lo scheletro del Re-Serpente si trovava lì di fronte a me, nel mezzo della sala. Mi tirai indietro i capelli sudati, mi asciugai la fronte. Mi guardai attorno guardingo. In cerca di trappole, in cerca di possibili nemici. Nulla, a parte magari qualche marchingegno nascosto bene, e sicuramente letale.

Camminai lentamente, superando di granito dopo l’altro, pensando che magari la pressione…

Una freccia mi si conficcò nell’avambraccio destro.

Grugnii dal dolore, accasciandomi a terra per istinto e tirando su lo scudo con la sinistra, aspettandomene altre. Poi mi resi conto che ad averla scagliata era stato il Re-Serpente.

Lo scheletro aveva lanciato un dardo. Mi avvicinai, sempre con lo scudo alzato, il bracciosanguinante. La spada era troppo pesante da reggere, per cui mi risolsi a brandire un pugnale lungo. Eppure lo scheletro non accennava a reagire. L’arco era caduto per terra, in mezzo alle ragnatele. Gli tolsi lentamente la faretra. Lo scheletro si limitò a girare la testa e a guardarmi fisso negli occhi. Guardavo quelle cavità e le le loro orribili fattezze da rettile. Al loro interno credetti di scorgere qualcosa. <<Avvicinati>> mi disse.

Il mio occhio destro era sempre più vicino al suo, ma la cosa potevo scorgerla in entrambi gli occhi vuoti.

Occhi vuoti…

<<Avvicinati>>

<<Il Vuoto!>> trasalii e mi allontanai di scatto, con un balzo all’indietro.

<<Volevi trascinarmi nel Vuoto!!>>

<<Dove la mia e le anime della mia gente sono rinchiuse>> gracchiò lo scheletro.

<<E impossessarti del mio corpo>>

<<No, stupido>> lo scheletro rise, un suono sgradevole e stridulo <<La tua anima da guerriero mi fa molto comodo per la mia rinascita, il ritorno del Re-Serpente, tramite l’anima del cavaliere mercenario più impavido e coraggioso di tutte le terre dell’Ovest>>

Il Re-Serpente mi indicò.

<<Io esistevo prima ancora che le stesse terre dell’Ovest emersero dagli oceani di ghiaccio. Tu non sai e mai saprai cosa ho visto e cosa so, a meno che, cavaliere, non vieni con me, dentro di me, e tu saprai tutto, ogni cosa. Non avrai più bisogno di Enderlind, tu sarai Enderlind, la creerai, ne creerai infinite in infiniti universi…>>

Impugnai la spada la conficcai nella bocca del Re-Serpente. Mi guardò con aria prima interrogativa, poi piena d’odio. Tirai indietro la lama e con una sferzata laterale lo tagliai a metà, distruggendone le ossa e i resti. Con un balzo scavalcai il trono e feci per distruggere il teschio. Poi mi ricordai del perchè ero giunto fin lì.

Presi il teschio e lo misi in una sacca. Mi restava di cercare un modo per uscire da quel posto.

Mesi dopo il vento mi accarezzava i capelli e il viso, il blu del mare si confondeva con il blu del cielo.

Enderlind, la Terra Libera, era lì di fronte a me

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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