I Drakkar, band metal milanese attiva sulle scene da oltre vent’anni, appartengono a quella categoria di artisti resilienti che, pur non avendo arricchito a dismisura il portafogli con i loro album e pur non essendo diventati i nuovi Led Zeppelin, sono riusciti a portare avanti un discorso creativo ed esecutivo di qualità e sostanza indiscussa. Un discorso fatto di amore incondizionato, sudore, tecnica e competenza. I Drakkar sono tra i portabandiera di un modo di intendere la musica e l’arte creativa in generale, un tutt’uno con la propria crescita personale e con le proprie passioni. Al di là di mode, soldi facili o fama mediatica da talent show. Ho avuto il piacere di intervistare Dario Beretta, chitarrista, compositore e ad oggi unico membro rimasto della formazione originale.
-Ciao Dario, grazie per avere accettato di partecipare a questa piccola intervista.
Grazie a te per l’interessamento!
-Anche se meno noti al grande pubblico rispetto ad altri gruppi più blasonati, i Drakkar sono in giro dai tempi dei Rhapsody e dei Labyrinth e hanno suonato praticamente ovunque aprendo concerti anche di gente come Saxon e Hammerfall. In sostanza, correggimi se sbaglio, siete tra quelle band italiane che suonano metal con connotazioni fantasy epic da ben prima che quest’ultimo divenisse un genere inflazionato.
Abbiamo iniziato a metà anni ’90. In quel periodo, le sonorità classiche dell’heavy metal e le tematiche fantastiche erano state più o meno spazzate via dell’ondata grunge, erano considerate un anacronismo. Persino autori come Ronnie James Dio, in quegli anni, erano “costretti” ad abbandonare le metafore e le visioni per scrivere di tematiche sociali e/o personali. Solo poche band, prevalentemente tedesche (Blind Guardian su tutte), tenevano viva la connessione tra la musica heavy e gli scenari epici di Tolkien e dei suoi epigoni. È vero che c’era anche la scena black metal, ma era sostanzialmente diversa dal punto di vista musicale e, soprattutto, ancora concentrata sull’uso di scenari fantastici come forma di ribellione e di “rottura” nei confronti del cristianesimo, quindi una cosa molto diversa. Tuttavia, da lì a un paio d’anni, l’heavy metal epico avrebbe fatto il suo ritorno in pompa magna, con una scena molto vivace anche qui da noi.
Per me è sempre stato naturale legare quegli argomenti alla mia musica, essendo un avido consumatore di ogni cosa anche vagamente “nerd”, quindi la nostra non era una presa di posizione decisa a priori, ma proprio una questione di passione personale, che del resto non ci ha mai abbandonato.
-Al netto delle difficoltà che avete affrontato negli anni, quali sono stati i momenti più memorabili che hai vissuto con i Drakkar?
Sicuramente il Monsters of Rock del ’98 è da annoverare tra questi. Trovarsi ad aprire una kermesse del genere, con Deep Purple, Saxon, Uli Jon Roth, Overkill e tanti altri, per noi che fino a lì avevamo al massimo suonato nei pub, fu un momento indimenticabile.
In tempi più recenti, direi che più che un singolo momento mi verrebbe da citare tutte le manifestazioni di stima raccolte da parte di fan, altri musicisti, giornalisti… Credo che i nostri ultimi 3 album (e 2 EP) abbiano dimostrato che la band ha ancora molto da offrire a chi ama queste sonorità, e fa piacere toccarlo con mano.
-Come ti sembra cambiata la scena in Italia rispetto a una ventina di anni fa? È più facile oggi presentare la propria proposta artistica grazie alle nuove tecnologie o è paradossalmente più difficile venire notati nella pletora di proposte presenti sul mercato?
Entrambe le cose, direi. Sicuramente il fatto che ora registrare un disco sia alla portata di tutti, dal punto di vista dei costi, ha fatto sì che se ne pubblichi una quantità smodata, molti dei quali sono sostanzialmente destinati a passare inosservati al di là della loro oggettiva qualità, proprio per via dell’enormità dell’offerta a fronte di una domanda tutt’altro che eccezionale – soprattutto in Italia. D’altro canto, però, questa stessa cosa è quella che permette a band underground come la nostra di ottenere una qualità di produzione assolutamente impensabile vent’anni fa, quando gli investimenti necessari per registrare un disco erano di gran lunga superiori.
-Alla stregua di tanti altri gruppi che trattano tematiche fantasy, anche i Drakkar nella loro carriera si sono cimentati in concept album, penso ad esempio ai dischi Gemini e When Lightning Strikes. Ritieni che in un certo tipo di musica sia fondamentale raccontare delle storie? Avere cioè dei testi che accompagnino gli ascoltatori all’interno di un vero e proprio viaggio?
Per quanto mi riguarda, sicuramente sì: credo che la musica “leggera” sia la naturale prosecuzione della musica dei bardi e cantastorie dell’antichità, e in questo senso ogni canzone ha una storia da raccontare, che parli di elfi, demoni o serate alcoliche! Ovviamente l’atmosfera creata dalla musica deve essere coerente con il tipo di storia. Poi può capitare di voler semplicemente esprimere emozioni o idee sulla realtà che ci circonda anche in modo più plateale e non metaforico, ma a mio parere anche quella è una forma, diversa ma sempre valida, di storytelling.
-In genere sei tu l’autore dei testi del gruppo. Hai dei numi tutelari di riferimento per quanto riguarda la letteratura? Autori che ti hanno ispirato e che ti ispirano tuttora?
Sicuramente i classici: Tolkien, Lovecraft, Edgar Allan Poe… e poi autori moderni, ma già entrati nella storia della letteratura di genere, come Michael Moorcock, Frank Herbert, Dan Simmons. Anche se devo dire che per me sono ugualmente importanti le ispirazioni fumettistiche: Jack Kirby, Alan Moore, Grant Morrison sono dei creatori di mondi assolutamente geniali. Chiuderei il cerchio citando anche la mia passione per il mondo di Star Trek, che non a caso fu creato da un pool di autori tra cui spiccavano nomi come Harlan Ellison, D.C. Fontana e Richard Matheson.
-Avete appena pubblicato un album, Chaos Lord, e non ho potuto fare a meno di notare che nel titolo è incluso appunto lo stemma del Chaos ideato da Moorcock: otto frecce che partono dal centro in otto direzioni differenti. Ci vuoi parlare di questa vostra ultima fatica?
Come dicevo prima, Michael Moorcock è una delle mie principali fonti di ispirazione. L’idea di inserire la stella a otto punte mi è venuta immediatamente, non appena deciso che Chaos Lord sarebbe stato il titolo dell’album. La copertina in realtà rappresenta un altro tipo di “Signore del Caos”, più ispirato a quelli di Warhammer 40k, a cui è legata la titletrack. Sul retro, però, compare anche Elric di Melniboné, protagonista della opener Lord of a Dying Race, perciò i conti tornano. Diciamo che mi piaceva l’idea di approfittare di questo legame concettuale tra i testi, che pur essendo legati a saghe diverse presentano entrambi una loro visione dell’idea del conflitto tra caos e ordine, per dare un titolo e un’immagine forte al disco. Musicalmente, si tratta di un lavoro di cui siamo molto orgogliosi. È un album maturo, in cui potenza e melodia si fondono in maniera a parer nostro vincente, e sta ottenendo finora ottimi riscontri, il che ci fa immensamente piacere.
-L’anno scorso avete fatto uscire un singolo, Falling Down, che tratta il tema della pandemia di Covid19, allontanandovi quindi dalle vostre tematiche abituali. In una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo, e più in generale considerando le varie problematiche che affliggono i popoli della terra, quale pensi possa essere il ruolo del fantastico? Ha una sua utilità?
Come dicevo prima, a volte si ha voglia di fare qualcosa di diverso, anche per non essere prigionieri, come artisti, di un cliché. Falling Down non parla specificamente della pandemia, più della necessità che abbiamo di evolverci come società, imparando ad ascoltare e non soltanto a parlare, e a ritrovare l’empatia, che è una cosa difficile da provare attraverso uno schermo. Ma ovviamente il legame tra il testo e il momento che stiamo vivendo è ben presente. Riguardo al ruolo del fantastico, io credo che le storie non siano mai state così “potenti” come sono ora. Si parla spesso di “narrazione” in relazione al modo in cui vengono riportate le notizie, o al modo in cui ci presentiamo agli occhi degli altri, come individui, come aziende, come comunità… Il nostro mondo è fatto di storie. Le storie ci danno motivazione, ci guidano, danno forma al nostro modo di pensare. Io ho sempre visto l’epica come una metafora della nostra vita quotidiana, che ci aiuta a viverla meglio.
-Bellissima considerazione! Per concludere, consigliaci un libro, magari poco conosciuto ma che tu ami particolarmente, e spiegaci il perché!
Per chi conosce l’inglese, segnalo volentieri una saga di fantascienza, un po’ lunga ma davvero ben realizzata, che è la Saga of Seven Suns di Kevin J. Anderson. Anderson è noto soprattutto per aver aiutato il figlio di Frank Herbert a portare avanti la saga di Dune, e per aver lavorato su molti franchise di successo (da Star Wars a X-Files). La Saga of Seven Suns è una sua creazione originale, e l’ho trovata un ottimo intrattenimento per gli amanti della space opera, con un “world building” di tutto rispetto.
-Grazie mille Dario, alla prossima e in bocca al lupo per il nuovo disco.
Grazie dell’interesse nei nostri confronti, spero che la nostra musica vi piaccia e possa farvi viaggiare un po’ in quei mondi avventurosi che tanto amiamo condividere!