Un nuovo autore, Alberto Della Rossa, debutta nella nostra rubrica di racconti, e lo fa con una storia breve dalle sinistre venature grimdark. Il suo titolo è
Cuore di Cane
Kiril si mise a sedere sul bordo del letto. Con una mano, alla cieca, cercò a terra la vecchia pipa carica di tabacco bruciato e puzzolente. Non poteva permettersi nulla di meglio.
Lanciò un’occhiata al corpo nudo della puttana che da qualche giorno gli teneva compagnia. La donna ancora piacente aveva superato la cinquantina, come lui, del resto. Se a incantarla non fosse intervenuto il suo fascino da tagliagole, non avrebbe potuto permettersi nemmeno lei.
O forse è solo pietà per un vecchio mercenario, pensò con una certa amarezza.
Da dietro le pareti sottili arrivavano i soliti rumori da bordello. Risate, gridolini di piacere recitati ad arte, grugniti simili a quelli di un verro che ruzzola nel fango.
Si alzò, si diresse verso il camino acceso e gettò un paio di ciocchi sulle braci. Una voluta bianca si alzò verso la canna. Legna umida, come qualsiasi cosa in quella fetida città dimenticata dagli Dei. Raccolse un rametto dal fuoco e lo accostò al tabacco, che si accese con una nube di fumo bluastro e cattivo, da far bruciare gli occhi.
«Puah! Questo tabacco è una merda!» grugnì, senza smettere di fumare.
Un movimento dal letto richiamò la sua attenzione. Svjeta si reggeva su un gomito, i capelli scarmigliati, e lo fissava.
«Be’?» le chiese.
Lei non disse nulla. Con una mano fece scivolare il lenzuolo quel tanto che bastava per scoprire il seno pesante.
Forse c’erano posti umidi in cui era più piacevole stare.
Guardava il soffitto, perso nel gomitolo nero dei suoi pensieri. Era stufo. Stufo di lavoretti occasionali, di poche monete di rame raggranellate come bravo per qualche contrabbandiere o per proteggere qualche magazzino sul fiume. Lui, che solo quindici anni prima frequentava la più rinomata taverna della capitale.
La sua lama era ben pagata allora, e quando non lavorava come guardia per qualche nobile dalle carni flaccide, saccheggiava templi pagani in terre straniere, dai quali usciva con le mani sporche di sangue e cariche d’oro. Era facile la vita, quand’era giovane. Solo lame, vino e donne belle e sinuose come la Dea Serpente.
Ora il vino era acido, le puttane vecchie e stanche e al posto dell’oro era rimasta a malapena qualche monetina, quando andava di lusso.
Svjeta gli passò una mano sul braccio nodoso e sui muscoli duri come una vecchia gomena bagnata.
«Sei bello», gli mormorò.
«Non prendermi per il culo, non ho bisogno della pietà di una puttana».
Lo schiaffo arrivò con la rapidità di un serpente.
Rimase impietrito mentre lei si alzava, coperta solo dal lenzuolo.
«Se non ti va bene la pietà di una puttana allora vai a farti fottere, vecchio caprone. Cerca attenzioni da un’altra parte, dubito che troverai un briciolo di affetto».
La donna aveva gli occhi lucidi.
Qualcosa di simile al rimorso gli bruciò nel petto, ancor più della guancia. Era proprio messo bene, se le parole di Svjeta riuscivano a colpirlo così.
«Mh» mormorò, «Scu-»
Non fece in tempo a finire la frase, che l’attenzione di entrambi venne richiamata dagli schiamazzi che provenivano dalla strada.
L’istinto prevalse sulla ragione, forse in cerca di uno sfogo per i pensieri, il rimorso e il malumore. Afferrò il candelabro di peltro sul tavolo e uscì dalla porta nudo come un verme.
Fuori l’aria era fredda e umida. Sentì sotto i piedi le assi di legno bagnate dalla condensa serale e si sporse dal ballatoio che dava sul retro. Quattro ragazzi tormentavano un vecchio e il suo cane, che rimediava altrettanti calci nel tentativo di difendere in qualche modo il padrone. Era una bestia spelacchiata, che aveva visto tempi migliori. I denti gialli schioccavano e azzannavano l’aria più per intimidire che per offendere. Gli occhi carichi di paura roteavano e mostravano il bianco, incapaci di fissarsi su un bersaglio solo.
Un argine dentro Kiril si ruppe. Forse era il litigio con Svjeta a muoverlo, o forse la vista del vecchio che si copriva dai calci con le braccia. Ma quella povera bestia fedele, arrabbiata e spaventata allo stesso tempo, gli faceva più male di quanto non volesse ammettere.
In un attimo era ai piedi della scalinata, alle spalle dei quattro. Un guaito del cane ruppe ogni freno. Afferrò la spalla del primo ragazzo e lo costrinse a voltarsi solo per vedere il bordo del candelabro calare sul setto nasale, che si ruppe con un rumore secco.
Il guappo urlò e alzò le mani al volto, prima di stramazzare sotto un altro colpo all’altezza della tempia.
I tre compari si girarono, interdetti alla vista dell’uomo nudo. Nonostante l’età, il corpo era ancora tonico e i muscoli, una volta gonfi, si muovevano come serpi aggrovigliate sotto la pelle segnata dalle cicatrici.
Il tempo si fermò per un solo lunghissimo istante e lo sguardo di Kiril incrociò quello del cane. Sollevò il candelabro storto, deformato dalla violenza dei due colpi, e lo lanciò in pieno petto al pendaglio da forca che gli stava davanti, proprio mentre il cane affondava i denti nella gamba dell’aguzzino che fino a pochi istanti prima lo prendeva a calci. All’impatto una costola si spezzò con un rumore secco. Kiril ne approfittò per farlo cadere bocconi con uno sberlone cattivo. Lo schiacciò a terra con un ginocchio e iniziò a tempestarlo di pugni secchi e precisi come martellate di un fabbro.
«Fermo, così lo ammazzi!»
L’urlo di Svjeta fece breccia nella furia di Kiril che, ancora tremante, indietreggiò di qualche metro, le mani rosse di sangue strette ai fianchi.
I restanti due raccolsero da terra i compagni privi di sensi e si dispersero nelle ombre del vicolo male illuminato. Il cane ringhiava davanti al corpo riverso a terra del proprio padrone.
Kiril era immobile, il piede per metà immerso nel rigagnolo fetido del canaletto di scolo, le mascelle ancora serrate per la rabbia. Il tocco della mano di Svjeta, che con delicatezza gli appoggiava una coperta sulle spalle, lo riportò alla realtà.
Un paio di prostitute erano accorse per controllare il vecchio, ma il cane restava piantato fra loro e il cumulo di stracci e non lasciava avvicinare nessuno.
«È Roman», disse qualcuno dal ballatoio, «riconosco quel sacco di pulci del suo cane».
«Ha le convulsioni» disse una delle due, «sarà in preda a una delle sue mattane. Stai lontana dal bastardo, morde».
«E lo lasciate lì?» chiese Svjeta. «Dobbiamo portarlo dentro».
«Perché non lo porti in camera tua? Puzza di piscio come una latrina», disse l’altra.
«Spostatevi, maledette troie».
Kiril si mosse in avanti con una smorfia di disgusto, seguito da Svjeta. Il cane si fece da parte senza smettere di ringhiare contro le figure sul ballatoio, che pian piano tornavano alle loro stanze.
Il vecchio tremava come in preda a una febbre grave. Gli stracci nei quali era avvolto l’avevano protetto dai calci e, a parte qualche brutto livido, non sembrava mostrare alcuna ferita. Le dita delle mani tuttavia erano cianotiche, così come i piedi. Il cane prese a leccarle, quasi volesse riscaldarle.
«Fuoco sacro», commentò Kiril. «Dobbiamo riportarlo a casa sua. Sai dove abita?»
«È una punizione degli Dei. Lui è lo scavafosse del cimitero meridionale, a sud delle mura».
«Quello dei poveracci e dei senzatetto?»
La donna annuì con un brivido, nonostante lo scialle di lana pesante che le avvolgeva le spalle.
Il vecchio prese a gemere e ad agitarsi.
«Il cuore, il cuore!» rantolò, mostrando le gengive dalle quali spuntavano pochi denti marci come tronchi in una torbiera. «Il Re non dorme più! Vuole anime per il suo cuore!»
Poi si acquietò in un mormorio indistinto, gli occhi persi nel vuoto.
Svjeta scosse la testa. «Gli Dei mandano il fuoco sacro ai peccatori. Lui tratta con i cadaveri, chissà quali porcherie…»
Kiril si girò e la fulminò con lo sguardo.
«Smettila di dire stronzate. Se il fuoco sacro fosse una punizione divina, questo bordello sarebbe tutto un tremito. Aiutami a metterlo in piedi».
Pesava pochissimo, sembrava fatto di carta e puzzava come chi non vede l’acqua da molto tempo. Kiril storse la bocca per l’odore.
«Ci servirà un mulo, o dovrai portarlo sulle spalle», commentò la donna.
«Tanto non pesa nulla. Vammi a prendere vestiti e stivali, lo riportiamo a casa».
Varcarono la pesante porta di rovere della città sotto lo sguardo incurante della guardia, impegnata a esplorarsi il naso e ad appuntare i trofei sulla casacca lurida. Il sole si levava a est, immerso per metà tra i vapori verdastri della palude che abbracciava le mura.
Kiril si chiese per l’ennesima volta cosa cazzo ci facesse in quella fetida città.
All’estremità del fazzoletto di terra solida su cui sorgeva il cimitero, sotto a un albero spoglio che allungava i rami verso l’alto nella inutile speranza di guadagnarsi un pezzetto di cielo, c’era una piccola casupola addossata a una catasta di legname. Poco più in là, asfittici ciuffi di segale crescevano in mezzo a pietre tombali spezzate e ricoperte di licheni. Tumuli e lapidi sembravano addobbi deviati gettati a caso in mezzo alle stoppie.
Svjeta si strinse nella mantella.
«Che luogo orribile».
Ricevette un solo grugnito in risposta, dopodiché si affrettò dietro a Kiril, che procedeva verso la stamberga a passi ben distesi, col vecchio buttato in spalla come un sacco di patate. Il cane lo seguiva come un’ombra.
La porta era aperta, e l’interno era un delirio di assi, bare in costruzione e attrezzi da lavoro. Strati e strati di trucioli sulla terra umida avevano formato una sorta di pavimento cedevole ma compatto. In un angolo, vicino a una vecchia stufa di ghisa, lenzuola gialle di sporcizia coprivano un vecchio letto male in arnese. Sul bordo del secchio pieno di acqua piovana si era fermata una lumaca, che muoveva i peduncoli incuriosita.
Kiril stese il vecchio sul giaciglio e gli posò una mano sulla fronte.
«Scotta».
La puttana stava in piedi, piantata in mezzo alla stanza come un chiodo, le mani sui fianchi e la zeppa degli zoccoli di legno affondata nei trucioli. Le labbra disegnavano un’espressione disgustata.
«Questo posto fa schifo».
Le rivolse un’occhiataccia.
«Anche l’ingresso del bordello, ma ci lavori ugualmente».
«E ci torno pure, se non la smetti di fare lo stronzo».
Kiril stava per perdere la pazienza.
«Ascoltami. Non me ne frega un cazzo se il posto ti fa…»
Con un verso indefinibile, il vecchio si alzò seduto come una molla che scappa dal meccanismo e si irrigidì, duro come il legno nero dei regni del sud, gli occhi sbarrati e acquosi fissi su quelli di Kiril. Con la mano cianotica gli serrò il polso in una stretta ferrea.
«Il suo cuore», urlò, lanciando sputazzi di saliva fetida in giro «il suo cuore!».
Gli si avvicinò a pochissimi centimetri dal volto e sussurrò: «Il cuore del Re dei Sepolcri è d’oro massiccio!» prima di crollare di nuovo in stato catatonico.
Kiril si voltò con uno sguardo interrogativo.
Svjeta indietreggiò un paio di passi, pallida come uno straccio. Gli occhi tradivano la stessa paura irrazionale che Kiril aveva visto mille volte negli occhi di chi teme di perdere la propria anima, oltre alla vita.
«Ne sai qualcosa?» chiese Kiril.
La donna annuì.
«Vecchie storie che si raccontano riguardo ai tumuli nelle paludi. Si dice che siano infestati dagli spiriti dei morti» mormorò con gli occhi bassi.
«Nient’altro?” incalzò Kiril con voce minacciosa.
Svjeta alzò lo sguardo. Aveva le lacrime agli occhi.
«Perché hai paura, Svjeta?»
Gli sembrava una bambina di cinque anni, spaventata com’era.
Lei scosse la testa.
«Non farmelo ripetere. Perché hai paura?»
«Perché sono tanti quelli che partono per depredare i morti, e nessuno torna mai», mormorò.
«Quindi ci sono delle tombe ancora intatte?»
Le lacrime adesso scendevano e il kajal colava in lunghe strisce nere lungo le rughe d’espressione. Per un attimo Kiril provò qualcosa di simile alla tenerezza.
«Non lo so. Mio fratello parlava sempre dello spettro di un Re».
«Tuo fratello?»
Svjeta tirò su col naso.
«Non è mai tornato».
Il silenzio pesava come una coperta bagnata.
Svjeta si sedette al suo fianco, sul bordo del letto. Il cane le appoggiò il muso sul ginocchio scoperto, in cerca di una carezza.
«Non andare, ti prego. Mi piaci, mi trovo bene con te. Puoi stare da me, io lavoro, non c’è bisogno che…»
Kiril fermò le suppliche col gesto di una mano.
«Smettila. Se c’è dell’oro andrò a prendermelo, spettro o no».
Non aggiunse altro. Guardò Svjeta uscire dalla baracca con le spalle incurvate, scosse dai singhiozzi.
Non poteva nemmeno immaginare di vivere alle spalle di una donna. In quei pochi giorni aveva approfittato della situazione e si era attaccato come una zecca alle tette di una capra. Diventare il pappone della sua donna sarebbe stato troppo.
Forse era l’ultima occasione di tornare ai fasti di un tempo, non poteva sprecarla.
Magari, se fosse sopravvissuto, sarebbe tornato da lei.
Al suo fianco, il vecchio delirava e il cane lo guardava devoto.
L’indomani mattina, di buon’ora, si inoltrò nella palude. Il sole si intuiva appena dietro la nebbia color mostarda e dai legni e le piante marcescenti si levavano rigurgiti putridi. A ogni passo gli stivali affondavano con un risucchio malato e dopo nemmeno un quarto d’ora era già madido di sudore. Per fortuna non si era curato di indossare nulla di più pesante di un farsetto di cuoio bollito. L’unico fardello che aveva era la vecchia spada piena di tacche, segni e macchie, ma dal filo ancora letale, un sacco vuoto, una vanga e qualche provvista. Non aveva alcuna intenzione di restare fuori più di una giornata.
Arrancava immerso nei propri ricordi. Non pensava al bottino, né a cosa ne avrebbe fatto dopo. Non lo faceva da giovane, non l’avrebbe fatto ora. La memoria era uno scrigno di esperienze, di combattimenti, di situazioni di vita e di morte dalle quali aveva sempre fatto ritorno. Sarebbe stato così anche stavolta, o almeno si sforzava di crederci. Con ogni probabilità poi, pensava, non troverò che fango e qualche osso.
Il sole era allo zenith quando vide i primi tumuli. Le canne palustri avevano lasciato spazio al cardo e al brugo e il terreno, seppur ancora umido, era abbastanza solido da non trasformare più ogni passo in un’agonia. Centinaia di tombe formavano rilievi alti al massimo un paio di metri e lastre di calcare spezzato aprivano fessure dalle quali era possibile scorgere vecchie ossa masticate dagli animali. Il sepolcreto si estendeva a vista d’occhio. Ci avrebbe messo tutta la giornata.
«Bene», disse a voce alta, «cominciamo dal fondo. Magari c’è qualcosa di intatto».
Le ore passarono veloci. Sentiva le spalle pesanti, aveva scoperchiato un paio di dozzine di sepolture e curiosato in altrettante. Nel sacco erano finite alcune spille di bronzo verdi per il tempo, un paio di bracciali di rame macchiato, qualche ninnolo di avorio e di ambra. Il bottino più prezioso lo portava al dito, un vecchio anello di argento ammaccato con una scritta in un alfabeto che non conosceva. Al massimo poteva cavarci qualche moneta al mercato, giusto per campare un paio di settimane.
Guardò ad ovest e tese la mano verso il sole alto poco più di un palmo sopra l’orizzonte. Mancava meno di un’ora al tramonto e non aveva trovato ancora nulla che valesse la pena del viaggio.
«Vecchio idiota» mugugnò, «Adesso dovrai passare la notte in mezzo alle ossa.»
Salì su un monticello alto una decina di metri rispetto al terreno circostante. L’aveva puntato proprio per le sue dimensioni, illudendosi di trovare un corredo più ricco degli altri, e si era trovato a rimestare nelle ossa polverose senza trovare alcunché. Ma, ora che aveva raggiunto la cima, un ghigno di soddisfazione si dipinse sul suo volto.
Il sole iniziava l’amplesso finale con l’orizzonte, avvolto in drappi di vapori densi. I raggi radenti si srotolavano sulla brughiera e disegnavano ombre a ogni avvallamento del terreno, allineati in trame concentriche troppo geometriche per essere casuali. I canali e le depressioni convergevano verso un rilievo basso, anonimo, privo di alcun segno distintivo, distante poco meno di un miglio.
Kiril stiracchiò i muscoli indolenziti. Forse la giornata aveva ancora qualcosa da offrire, dopotutto.
Quasi senza accorgersene si trovò a fischiettare una vecchia ballata da osteria e a godere degli ultimi raggi di sole che gli battevano sulle spalle. Le ombre sempre più lunghe si allungavano come tentacoli verso il piccolo tumulo. Più si avvicinava, più la breve allegria che l’aveva animato sembrava spegnersi come una candela ormai priva di sego da bruciare, e la melodia che solo pochissimi minuti prima usciva vivace dalle sue labbra si era trasformata in un sibilo basso e stonato, pieno di tonalità minori, distorto da un sentimento di minaccia.
Forse gli occhi gli facevano brutti scherzi, ma aveva l’impressione che l’oscurità del crepuscolo rotolasse densa tra i cippi e appiattisse ogni dettaglio in un sudario scuro.
Del fischio era rimasto solo un respiro nervoso, stretto tra i denti, accompagnato da sguardi inquieti alle aperture nere dei sepolcri rotti dal tempo, dai quali occhieggiavano ossa scheggiate vecchie di generazioni.
Si guardò attorno. Il sole si era tuffato dietro la brughiera e aveva lasciato il posto a un cielo violaceo nel quale si addensavano nuvole basse tinte di nero. Sul terreno, riccioli di bruma che strisciavano tra le pietre e i cespugli di erica.
Non aveva più punti di riferimento, i monticelli sembravano ripetersi all’infinito e le ombre che dovevano guidarlo avevano lasciato il posto a una penombra uniforme.
Merda. Mi sono perso.
Come se non bastasse, il canto lugubre di un caprimulgo rimbalzava nell’oscurità.
Kiril si guardò attorno. La lastra di uno dei tumuli più vicini giaceva rotta a terra, e l’apertura era sufficientemente larga per passare la notte con le gambe distese; con un fuoco acceso all’apertura avrebbe potuto passare la notte senza patire troppo il freddo e al sicuro da eventuali branchi di lupi di palude. Raccolse alcuni arbusti secchi dalle vicinanze e approntò il focolare, nel quale gettò senza troppi complimenti ciò che rimaneva di un vecchio sarcofago, ossa comprese.
Il calore e la luce delle fiamme mitigarono un poco il senso di inquietudine che lo opprimeva, ma non riuscirono certo a scacciare il malumore per aver perso di vista il centro del disegno. Non aveva nessuna voglia di fermarsi un giorno intero per vedere nuovamente il fenomeno, ammesso che l’indomani il sole riuscisse a bucare le nuvole basse che minacciavano l’intera volta celeste.
I pensieri si rincorrevano come un branco di cani affamati, altrettanto feroci e cattivi.
Stupido vecchio. Un tempo non avresti perso un’occasione simile, latrava uno dei cani.
Una volta non ti dovevi abbassare a depredare qualche sudario cencioso, ringhiava un altro.
Non sei migliore di queste ossa che ti circondano, ululavano in branco.
Con un gesto di stizza si alzò in piedi e per poco non batté la testa contro la bassa volta. Uscì all’esterno con la pipa serrata tra i denti, tirando rabbiosamente boccate di fumo amaro, e salì in cima al rilievo più vicino. La frustrazione era incontenibile. Voleva fare a pezzi il cielo, tirare giù gli Dei uno ad uno dalle loro regge celesti, prenderli a pugni e violentare le loro ancelle e lo avrebbe fatto, oh, se lo avrebbe fatto.
Stava per urlare a pieni polmoni la sua sfida, ma rimase a bocca aperta.
Poco distante, dalle fessure di un montarozzo basso e privo di alcun segno distintivo, una luce dorata pulsava come il lento battito di una bestia sotterranea.
Corse a raccogliere le sue cose, inciampando nel fuoco che bruciava le ossa. Incrociò per un attimo lo sguardo vuoto di un vecchio teschio. Le fiamme ne riempivano le orbite e lo consumavano con furia incandescente.
Un brivido gli corse lungo la schiena. Era una sensazione conosciuta, provata ogni qual volta era andato a rubare in qualche tempio. Aveva profanato sepolcri, ucciso sacerdoti, saccheggiato reliquiari, e tutte le volte quella sensazione era lì, ad avvertirlo che prima o poi avrebbe pagato. Ma i morti non avevano bisogno di ricchezze, e le effigi di quelle divinità esotiche erano così distanti e aliene da sembrare mute.
Scrollò le spalle, quasi il presagio non fosse altro che un corvo molesto sui vestiti cenciosi di uno spaventapasseri, e si concentrò sul luminoso alone carico di promesse.
Strinse l’elsa macchiata di sudore e si avvicinò al tumulo a testa bassa.
L’apertura, di poco più larga delle sue spalle, lo attendeva accogliente come il sesso imbellettato di una prostituta dei regni del sud. Al parossismo dell’eccitazione si gettò all’interno, dimentico di qualsiasi prudenza appresa in una vita di avventure.
Le rozze scale di pietra scendevano per una decina di metri e terminavano in un’ampia stanza circolare rivestita di arenaria, portata lì da chissà dove. Il pozzo centrale vomitava una calda luce metallica che illuminava le nicchie lungo la circonferenza, occupate da decine di cadaveri ricoperti di fasce e vesti tarlate sulla carne tesa e rinsecchita. La pelle era scura per lo scorrere del tempo, ma non abbastanza per nascondere le ombre bluastre dei tatuaggi, raffiguranti bestie mitiche nell’atto di azzannare possenti cervi, in un gioco di abbracci mortali.
La luce vibrò al suono di una nota sottile, un tintinnio antico e profondamente sbagliato.
Si girò verso l’entrata, nell’inutile speranza che il passaggio fosse ancora libero. Le due mummie che occupavano l’ingresso lo fissavano con le orbite vuote.
I morti si alzavano dai loro giacigli di pietra con movimenti legnosi, flettendo i legamenti secchi che schioccavano come sterpaglie nel fuoco. Erano lenti, ma più di quanti potesse gestirne da solo.
Reagì come una bestia all’angolo, con ferocia e determinazione. La nicchia vuota al di là del pozzo rappresentava la sua unica salvezza: una rientranza profonda poco più di un metro, larga a sufficienza da permettergli di manovrare la spada e di fronteggiare al massimo un paio di avversari alla volta. Si fece largo falciando ginocchia e spezzando ossa. Non li fermava, ma almeno li costringeva a strisciare.
Ansimava. La ragione cercava di mantenere il controllo sulla disperazione che ululava e premeva per prendere il sopravvento. Sanguinava da alcune lacerazioni inferte da unghie sottili e spezzate, taglienti come vetri rotti, ma con uno sforzo e una torsione finale riuscì a guadagnare posto nella nicchia. La roccia alle sue spalle offriva il conforto della protezione e la certezza di essere in trappola. Davanti a sé i cadaveri si accalcavano senza fretta, con l’ostinazione di chi nulla sente e nulla prova.
Il braccio gli doleva per lo sforzo di abbattere, lacerare e ammassare i corpi ai suoi piedi. Si trovò a rompere braccia e teschi a calci, in un balletto scoordinato per la stanchezza. Il sudore bruciava sui graffi e sulle ferite poco profonde.
La vibrazione salì alla soglia del fastidio. Sopra il pozzo fluttuava una figura diafana, avvolta da vesti traslucide mosse da un vento inesistente.
Al centro del petto pulsava una luce dorata così intensa da ferire gli occhi.
I colpi erano ormai deboli e rimbalzavano inefficaci sulle ossa. La spada cadde, inutile, e mani secche e ruvide lo strattonarono a terra.
In ginocchio, sommerso dai corpi, attendeva la fine.
La vibrazione crebbe e il tintinnio si infranse, interrotto da un rumore terreno e familiare.
Un latrato.
Pochi istanti prima di perdere i sensi, gli parve di scorgere un cane saltare a fauci spalancate verso lo spettro.
La luce morì, e venne il buio.
Una lingua umida e calda penetrò l’oblio, seguita dal puzzo di putrefazione dell’alito canino. Dall’ingresso penetrava la debole luce del giorno. I corpi mummificati e smembrati giacevano ovunque, senza vita.
Nonostante il dolore, le ferite e il mal di testa infernale, non poté fare a meno di sorridere.
Davanti a lui, scodinzolava il cane del vecchio.
Tra le zanne ingiallite, reggeva un cuore d’oro massiccio.