Dettagli
Titolo: “La morte viola”
Autore: Gustav Meyrink
Editore: Il Palindromo
Collana: I tre sedili deserti
Pagine: 328
Prezzo: 23,00 Euro
Sinossi
Sintesi d’influenze letterarie e di uno sconfinato bagaglio sapienziale (religioni e filosofie orientali, alchimia ed esoterismo), in questa raccolta di novelle brevi e intense, magnificamente sintonizzate con gli esasperati ritmi contemporanei, Meyrink incrocia gotico e satira, grottesco e orrore, elementi saldati con perizia da un’ironia a volte gioiosa, a volte amara, smascherando le meschinità della classe media e l’ottusità di quella dominante: accademici, militari e burocrati.
Il suo sguardo indagatore attraversa una lente d’ingrandimento privilegiata: quella della letteratura fantastica. Acuto osservatore del proprio tempo, Gustav Meyrink nei racconti de La morte viola scandaglia ansie, luoghi comuni e contraddizioni della borghesia mitteleuropea a cavallo tra Ottocento e Novecento. Un volume raccomandato agli appassionati, ma pensato anche per quanti desiderano muovere i primi passi verso l’opera dello scrittore-occultista per eccellenza, rappresentandone un campione accessibile ed esaustivo.
Commento
Se proprio non vogliamo credere a Tritemio, non diffidiamo tuttavia anche di Artefio.
E’ noto infatti che certe Arti, in guisa di femmes fatales, seducono e consumano senza frutto fin troppi incauti che le corteggiano in maniera impropria. E’ però altrettanto vero che dovrebbe essere il buon senso a imporre di dubitare di chi, con artati bisbigli, millanta di essere in procinto di svelare a noi – proprio a noi! – il gran Segreto. Chi è ingannato, insomma, spesso coltiva sue ragioni farsi ingannare. Con le dovute eccezioni.
Probabilmente, nell’ultimo secolo nessuno quanto Meyrink è si è spinto tanto avanti nel gioco di specchi, ammiccando per disorientare, occultando per rivelare. Sfaccettata e cangiante, La morte viola pare quasi una raccolta di foglie su cui la Sibilla abbia scritto i suoi oracoli, lo stilo intinto nell’inchiostro di una satira mordace. Si sogghigna, ma di chi? Degli ingannati o degli ingannatori? Ogni racconto – faccia di un solido dalle infinite facce – offre una risposta diversa, ricoperta ora dei panni della novella nera, ora di quelli del bozzetto scapigliato, come pure della storia gotica, o dell’orrore satanico alla Huysmans.
C’è, in questa varietà, anche l’impronta di un soffocante affastellarsi di atmosfere reali.
Sulla Mitteleuropa di Meyrink – da Praga a Vienna, dalla Germania alle appendici tumultuanti dei domini asburgici – che, pur entrata nel XX secolo non ha ancora dismesso gli abiti fin de siècle, gravano i cascami di una società sclerotizzata. Un sedimento ormai calcificato che le storie – originariamente uscite sul Simplicissimus – e che tanta importanza avranno per l’avvio della carriera letteraria meyrinkiana – mettono alla berlina proprio mostrandolo impreparato all’imprevista irruzione non tanto del soprannaturale o dello spaventoso, quanto del semplice indefinito, che né spirito borghese, nè velleità prussiano né tantomeno positivismo riescono a inquadrare senza scadere nel farsesco.
Se tuttavia in molti casi Meyrink seduce tramite il ricorso a immagini estetizzanti, portando allo spasimo clichè decadenti rivisitati in chiave mistery o quasi Grand Guignol – rivelandosi pari in questo a un Poe sardonico – è dove egli gioca con i richiami esoterici che la penna morde di più. Non importa se gli accenni sono al sapere di bramini indiani (L’opale, La sfera nera) o di altre esotiche plaghe raggiunte dalle insegne coloniali, oppure se provengono dalla più familiare tradizione alchemica: sembra quasi di vederli sobbalzare – con le platoniche fronti ben aggrottate – certi “iniziati”, scandalizzati dal vedere le loro reliquie utilizzate per una burla nera. Chi si crede di essere, questo Meyrink, per osare riderci sopra? E se invece “sa” perché non tace? Ma, in verità, sommamente antididascalico, Meyrink rivela di più proprio quando la riga termina, e sorrisi e rughe si sbriciolano di fronte al mistero di cui si era fin lì scherzato. Il grottesco e il satirico come mezzo, dunque. Lo stravagante e il pauroso come crogiuolo tramite cui distillare – con stile ora solenne ora svagato – una miscela di emozioni da cui estrarre in purezza l’elisir dell’inquietudine spirituale, non meramente “esoterica”.
Non sorprende, giunti a questo punto, come i racconti de La morte viola siano risultati spesso quasi negletti – nella produzione meyrinkiana – rispetto ai romanzi.
L’approccio ibrido, specie sulle distanze più brevi, è realmente disorientante, e chi volesse solo (o per forza) concentrarsi sulla connessione fra spunto fantastico e riferimento al magico, veleggerebbe verso interpretazioni affascinanti quanto errate. Proprio perché conscio della loro natura di “veicoli semiotici per immagini”, Meyrink affida alle sue storie il compito di agire su un piano che non può prescindere dalla confezione letteraria. La sobrietà che predomina nella costruzione narrativa, infatti, appare come il necessario contraltare grazie al quale ottenere – sfrondato di ogni retorica – un effetto affine al “perturbante” hoffmaniano, che spezza i ricorrenti afflati umoristici col dubbio che la storia nasconda una morale esattamente contraria a quel che si pensa.
Il volume edito in questi giorni dall’editore Il Palindromo, introdotto da Andrea Scarabelli e arricchito da un corposissimo saggio di Gianfranco de Turris, offre finalmente una raccolta come La morte viola in una veste non solo acconcia, ma ampliata e debitamente rivista, in cui ogni coordinata del lavoro meyrinkiano è annotata e seguita fino agli incroci più arditi. Una pietra di paragone per qualunque nuova edizione dedicata allo scrittore viennese, oltre che spunto per un plauso al marchio palermitano che – in collane come I tre sedili deserti – sta via via rimettendo in luce tasselli fondamentali della letteratura fantastica come non si faceva da lustri.