Achille e Gilgameš – di Daniele Granero

L’Iliade, nonostante porti il nome di una grande città, non tratta del suo destino: si può solo intuire che verrà distrutta e che la distruzione avrà da li a poco. Gli antefatti, cioè le tre dee, il pomo d’oro, Paride ed Elena, etc… verranno narrati in alcuni dei numerosi flashback dell’opera.

L’opera ci parla di Achille, il suo assoluto protagonista, lo splendido e dannato personaggio, al di sopra di tutti i mortali, nonostante in gran parte della vicenda se ne stia offeso nella propria tenda a rimuginare sulla requisizione della sua prigioniera Briseide: quasi tre quarti del testo lo vedono preso dalla sua “μῆνιν”, la prima parola dell’opera: l’ira.

Achille è un semidio, figlio di Teti, un ninfa e l’unica divinità greca ad essersi effettivamente sposata, con tanto di cerimonia ufficiale, con un mortale, Peleo. La madre lo affida ad un centauro, Chirone, che lo addestra lontano dalla civiltà, in mezzo alla natura selvaggia. Cercherà poi, senza successo, di nasconderlo, ancora bambino, ai sovrani achei, ben conscia del destino del figlio. È il condottiero greco che proviene dal punto più a nord dell’area micenea: Ftia, infatti, si trova in Tessaglia, quasi a simboleggiare il suo essere ai confini dell’umano. Che poi superi questi confini assumendo tratti divini o bestiali, anche se nel suo caso, “divino” e “bestiale” spesso si equivalgono, fa parte del suo mito.

Egli sa del suo destino di morte a Troia, eppure decide di prendere comunque parte alla guerra: non parteciperà al saccheggio della città perché già morto e perlomeno si risparmierà lo sdegno degli dei per l’orribile massacro che compiranno gli Achei. I suoi duelli con eroi senza tempo della tradizione greca come Ettore, l’amazzone Pentesilea, il Re de d’Etiopia e Persia Memnone, sono centrali non solo nell’Iliade, ma in molte altre opere più tarde del ciclo troiano. Pur dimostrando notevoli caratteristiche umane, come l’ira, l’arroganza, l’amore e la fraternità per i compagni, l’opera di Omero ci descrive un Achille che parla agli dei, i quali gli danno ascolto ogni volta: sua madre fa da tramite a Zeus, l’eroe veste armi divine forgiate da Efesto, possiede cavalli soprannaturali, combatte addirittura contro un fiume (lo Scamandro, che comunque è un dio sotto forma di fiume), per finire a sfidare apertamente gli dei stessi senza il timore o la riverenza che normalmente un mortale ha nei loro confronti:

«non puoi certo ammazzarmi, perché non sono mortale».

Gli disse molto irritato Achille dal piede veloce:

«Mi hai giocato, Saettatore (ndr:Apollo) (…)

Mi vendicherei di te se ne avessi la forza»[1]

Molte delle caratteristiche del personaggio e delle vicende a cui va incontro hanno influenze ben più lontane nel tempo e nello spazio delle leggende e delle storie che aedi greci come Omero usavano cantare di città in città, villaggio in villaggio: una delle influenze più famose individuate dagli storici è proprio quella con il più famoso eroe mesopotamico: Gilgameš.

Anche lo stesso Gilgameš è un semidio, figlio della dea Ninsun e di Lugalbanda, re di Uruk. Va molto vicino ad ottenere l’immortalità, l’unica cosa che gli manca per essere davvero un dio, senza però riuscire ad ottenerla. Achille è figlio di Teti e di Peleo, Re di Iolco. Entrambi semidei, entrambi Re ed entrambi compiono imprese eroiche.

Lugalbanda, il padre, non compare mai nell’opera, mentre la madre interviene negli stadi iniziali interpretando per il figlio alcuni sogni riguardanti l’amico e co-protagonista Enkidu. Ella intercederà per lui davanti a Šamaš, il dio del sole e della giustizia. Stessa cosa per Achille: il padre Peleo che, tra l’altro, è uno degli argonauti nell’opera omonima, è solo menzionato: sarà la madre a comparire dinnanzi al figlio quando lui la chiama, a intercedere presso Zeus e a dargli consigli e aiuti.

Quando Briseide viene presa da Agamennone Achille, offeso per il torto che gli ha appena arrecato il suo Re, si rivolge alla madre Teti, che intercede presso Zeus chiedendo al re dell’Olimpo di far perdere gli Achei fino a quando non chiederanno perdono a suo figlio. Nel dialogo tra i due, la madre ricorda al dio del tuono il triste destino del figlio, cioè quello di morire a Troia prima che la guerra finisca, per cercare di impietosire il signore degli dei. Stessa cosa avviene tra Ninsun ed il dio del Sole Šamaš: la madre di Gilgameš ha appena ricevuto la notizia della decisione del figlio di andare nella foresta dei cedri e, nonostante lei esprima il suo disappunto, lui è irremovibile. Ella chiede conto al dio del perché il cuore del figlio sia così instabile ed inquieto, tanto da farlo imbarcare in avventure così estreme e pericolose. In entrambe vediamo un profondo aspetto materno, più umano che divino. Ricordiamoci sempre che Teti aveva avvertito il figlio del destino che lo avrebbe colto in caso di partenza per Troia, ma aveva comunque accettato la sua decisione.

Gilgameš ha una forza straordinaria ed un aspetto molto più bello degli uomini comuni, ma la cosa più particolare è il suo carattere: orgoglioso, impulsivo e prepotente. Shamat, la donna di Enkidu, lo definisce come hadi-ū a amēlu, che, reso in lingua corrente significa “maniaco-depressivo”. Piange quando non riesce a battere Enkidu nella lotta; ignora i consigli degli anziani di Uruk prima della spedizione nella foresta dei cedri, salvo poi per pregare Šamaš prima dello scontro contro Humbaba, il mostro guardiano della foresta; assale senza motivo il barcaiolo Ur-Shanabi, l’unico che era riuscito a navigare nelle acque della morte. Achille è caratterialmente simile: mantiene il “muso” per gran parte della vicenda, piangendo dalla madre come un bambino viziato. La madre, da buona madre che ha viziato il figlio, non può che prendere le sue parti. Un semidio infantile ed una dea molto umana e poco divina. Ovviamente anche l’aspetto di Achille è degno della sua divinità: egli è il più bello ed il più perfetto di tutti gli Achei ed i lunghi capelli biondi lo distinguono dai più scuri compagni d’arme.

Abbiamo il motivo dell’amico fraterno/compagno di avventure: Gilgameš – Enkidu ed Achille – Patroclo. Entrambi gli amici moriranno nel corso delle rispettive storie ed i protagonisti ne saranno devastati. Entrambi organizzeranno funerali di diversi giorni, decanteranno lamentazioni tipiche della loro epoca e della loro terra, ed infine partiranno per un ulteriore impresa eroica o di espiazione: Achille giura di uccidere Ettore e tutti coloro che si frappongono tra lui e la vittima (molti troiani ne faranno le spese), Gilgameš inizia una sorta di pellegrinaggio per incontrare Ut-napištim, l’unico uomo immortale nonché il sopravvissuto del diluvio.

Patroclo non ha la stessa importanza di Enkidu nella trama, ma la sua morte scatena la furia di Achille, che si estrania momentaneamente dalla dimensione umana. Questo stato “bestiale” durerà ancora dopo la morte di Ettore, proprio con il trattamento inumano che il semi-dio riserva al corpo del troiano: già solo le battute del film Troy, prima che il duello abbia inizio, rendono l’idea. Questo stato bestiale finirà solo dopo il dialogo tra Priamo e Achille, quando quest’ultimo deciderà di restituire il corpo di Ettore al padre in modo da fargli avere le meritate esequie. Enkidu è ufficialmente un “servo” di Gilgameš, anche se spesso, tra di loro, si rivolgono la parola con “amico mio”. Patroclo è anche lui subordinato al suo comandante ed è descritto come θερἀπων – “therapon”, scudiero, cioè colui che guida il carro di Achille; quando invece dialogano tra loro si considerano (quasi) alla pari, come i due mesopotamici. In questi momenti Patroclo è chiamato “φὶλος ἑταὶρος” – philos hetairos, “compagno fraterno” che non è un termine di poco conto: i “compagni” nel mondo greco erano i guerrieri più vicini ai Re (la stessa “guardia d’onore” a cavallo di Alessandro Magno era composta da hetaroi, tra cui il famoso Efestione e Seleuco, uno dei futuri diadochi).

Le lamentazioni funebri e la disperazione di entrambi sono un importante fil-rouge tra i due. Appena Achille si rende conto della morte di Patroclo, impulsivamente, si auto-umilia: si copre il capo di cenere e polvere sporcandosi di proposito anche la faccia e gli abiti; si strappa persino i capelli.

Stessa cosa Gilgameš nella tavoletta VIII:

si strappa e getta via i suoi capelli;

si strappa e getta via i gioielli come se fossero un tabù

Più avanti, parlando al corpo di Enkidu dice:

e io trascurerò il mio aspetto dopo la tua morte

con indosso soltanto una pelle di leone vagherò nella steppa

Il vagare nella steppa, per la concezione mesopotamica era lo “stato di natura” dell’umanità prima della civilizzazione. All’inizio del poema leggiamo di Enkidu che corre con gli animali della steppa. Achille, invece di correre con una pelle di leone, decide lui di essere come i leoni e di sbranare a suon di lancia e spada ogni troiano fino alla morte di Ettore.

Achille è distrutto anche se gli achei, che stavano perdendo, gli chiedono perdono e lo implorano di ritornare, proprio come richiesto da Teti a Zeus:

                        «Figlio mio perché piangi? Quale dolore t’è entrato nel cuore? (…)»

A lei con un gemito profondo, diceva Achille dal piede veloce

«Madre mia, questo certo l’Olimpo l’ha fatto per me[2];

ma che gioia me ne viene, se è morto il mio compagno,

Patroclo, che fra tutti i compagni più mi era caro,

come la mia stessa vita!»

Stessa cosa fa Gilgameš alla domanda di Siduri, la taverniera, che gli chiede il perché della sua disperazione nonostante sia proprio lui quello che ha ucciso il mostro Humbaba ed il Toro del Cielo.

«l’amico mio [che io amo sopra ogni cosa, che ha condiviso con me o]gni sorta di avventura

Enkidu [che io amo sopra ogni cosa, che ha co]ndiviso con me ogni sorta di avventura,

Ha seguito il destino dell’umanità. Per sei giorni e [sette notti io ho pianto su di lui]»

Achille dice poi alla madre che, non avendo più alcun motivo per vivere, accetta il suo destino in qualsiasi momento gli dèi vorranno senza cercare di sfuggire alla morte:

«Potessi morire subito, se non dovevo dare soccorso

Al mio compagno ucciso; è morto lontano dalla sua patria,

e non ebbe me a proteggerlo dalla sventura!

Ora non posso tornare nella mia terra patria,

e non sono stato d’aiuto a Patroclo, né agli altri compagni,

che in gran numero furono uccisi da Ettore divino»

Gilgameš afferma una cosa simile:

«E io non sono come lui? Non dovrò giacere pure io

E non alzarmi mai più per sempre?»

C’è, però, una sostanziale differenza: Patroclo e molti altri Mirmidoni sono morti a causa della diatriba tra Achille stesso e Agamennone, l’eroe qui si accorge della stupidità delle sue azioni, mentre Gilgameš, che non ha colpa per ciò che è successo, fa solo una riflessione sulla mortalità dell’uomo da cui nessuno può fuggire, nemmeno lui.

I lamenti funebri per Patroclo iniziano nella notte e sono recitati da tutti gli Achei:

Fra loro il Pelide apriva l’accorato compianto,

poggiando le mani sterminatrici sul petto del compagno,

 gemendo senza posa, come un leone con la criniera

cui nella densa foresta abbia rapito i cuccioli

un cacciatore di cervi; arriva tardi, e si dispera,

molte valli attraversano cercando le orme dell’uomo,

se mai lo trovasse; lo invade un rancore pungente,

così, gemendo accorato, si rivolgeva ai Mirmidoni

In Gilgameš non li abbiamo perché ci mancano le ultime trenta righe della tavoletta VII, proprio quelle successive alla morte di Enkidu. La tavoletta VIII inizia con il lamento di Gilgameš all’alba: è facile capire cosa sia successo durante la notte.

Per concludere, i corpi di Enkidu e Patroclo non vengono corrotti dalla decomposizione fino a quando i due eroi non avranno concluso il viaggio di espiazione uno e la vendetta contro Ettore l’altro. Per Gilgameš saranno la taverniera Siduri ed altri personaggi a tenerlo incorrotto, mentre di Patroclo se ne prenderà cura Teti.

Infine, Achille, la sera del duello contro Ettore, si addormenta, sogna Patroclo, tenta di abbracciarlo ma è un fantasma: se ne rende conto e ne è profondamente rattristato. Anche nell’Odissea avviene un fatto simile, tra Odisseo e la sua defunta madre: ella, però, riesce a spiegargli che la loro condizione è dovuta alla cremazione. Quando il corpo si dissolve tra le fiamme, l’anima immateriale si separa dal corpo. Ciò che Odisseo e Achille vedono sono le anime immateriali dei loro cari.

Nella Tavoletta XII di Gilgameš, l’eroe chiede al dio Enki di aprire un passaggio tra la terra e gli inferi in modo da far uscire il “fantasma” (utukku) di Enkidu. Il dio ottiene il permesso da Nergal, il sovrano degli inferi, e lo spettro fuoriesce “come vento”:

«Nergal, l’eroe eccelso, [ubbidì,]

e non appena egli ebbe aperto una fessura negli Inferi

lo spirito di Enkidu, come una folata di vento, uscì fuori dagli inferi»

Questo è solo un assaggio delle similitudini tra i due personaggi. Anche il colloquio tra Priamo e Achille si presta ad una comparazione con quello di Gilgameš e Ut-napištim. Non c’è dubbio che l’epopea del mesopotamico sia un po’ “capofila” del genere ed è vero che molti temi possono facilmente essere interscambiabili, basti pensare alle riflessioni che abbiamo visto sul comune destino di ogni essere umano, la morte. Queste similitudini tra un poema dell’VIII secolo, l’Iliade, e uno che circolava già invece dalla fine del III millennio non possono che darci l’idea che il mondo antico fosse tutt’altro che un cerchio chiuso, un luogo in cui le persone non circolassero.

Daniele Granero

[1] Iliade, XXII, 14-20.

[2] Far perdere gli Achei.

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