Recensioni: “L’Italia dei Barbari” di Claudio Azzara

Dettagli

Titolo:L’Italia dei barbari
Autore: Claudio Azzara
Editore: Il Mulino
Collana: Universale paperbacks Il Mulino
Anno edizione: 2002
Pagine:152

Sinossi

Con questo libro, Claudio Azzara offre un’immagine sintetica dei secoli ‘barbarici’ dell’Italia, ossia di quel periodo che va dalla crisi dell’impero romano nel corso del quinto secolo all’assoggettamento dei longobardi da parte dei franchi di Carlo Magno alla fine dell’ottavo. È il periodo dei regni barbarici: degli ostrogoti di Teodorico prima, e dalla fine del sesto secolo dei longobardi. Il volume espone gli avvenimenti, discute le conseguenze politiche, sociali ed economiche del successivo insediamento delle due popolazioni sul territorio italiano, e mostra come la ricerca storica e archeologica più recente finisca per correggere l’immagine tenebrosa e tragica di quei secoli.

Commento


Il barbaro è una delle figure più usate e abusate nella letteratura fantasy, in particolare nello Sword and Sorcery, perciò, ogni tanto, non è male cogliere l’occasione di spulciare nella saggistica storica per conoscere meglio i popoli che di volta in volta, a seconda dei punti di vista, sono stati definiti barbari.
Lo erano già i Persiani per Eschilo, quando scrisse l’omonima tragedia all’indomani della battaglia di Salamina, che aveva visto le forze greche trionfare sul nemico invasore; lo sono stati i goti per il popolo romano, che dalla battaglia di Adrianopoli nel 378 d.C. in poi si insediarono stabilmente nei territori dell’impero, e successivamente i longobardi che conquistarono gran parte della penisola.
L’interessante libro di Azzara ripercorre le invasioni barbariche a partire proprio dai goti,passando per il regno di Teoderico dal 493 al 526 d.C., fino alla caduta del regno longobardo.
E fin da subito si nota l’impronta dell’autore, il quale ha voluto ripercorrere non solo le vicende
storiche, ma anche, e forse soprattutto, la diversa lettura che ne è stata data nel corso del tempo dagli studiosi, dai letterati e dalle persone comuni. È bene ricordare infatti che l’immaginario collettivo ha spesso riunito insieme sotto il comune denominatore della parola “barbaro” individui appartenuti in realtà a popoli e a tribù tra loro diversissime, che il più delle volte mostravano gli uni contro le altre un livello di ostilità superiore a quello riservato allo stesso impero romano. Basti pensare, ad esempio, che i goti chiesero rifugio al di là del Danubio perché incalzati da un altro popolo barbaro che stava alle loro spalle: gli unni.

Il libro si apre con il celebre sacco di Roma del 410 ad opera del capo goto Alarico e con le pesanti conseguenze che questo ebbe sulla psiche dei romani, anche dal punto di vista delle polemiche tra i cittadini cattolici, ormai la maggioranza, e quelli invece ancora pagani. Dopodiché l’autore fa un salto indietro nel tempo e analizza la situazione a partire dal secolo precedente; in particolar modo esamina il concetto di limes, vale a dire il confine tra il mondo civilizzato e quello barbaro. Come lostesso Azzara precisa: “La secca contrapposizione tra due blocchi monolitici e opposti, la Romanitas e la barbaries, era essenzialmente il frutto di un’elaborazione culturale e ideologica. Nella realtà, come le ricerche più recenti consentono di apprezzare sempre meglio, ciascuno dei
due insiemi risulta esser stato assai articolato, e più complesse figurano anche le reciproche
relazioni.” (cit.)
In questo senso basta ricordare l’enorme importanza che gli stessi barbari ebbero all’interno delle fila dell’esercito romano, anche in posizioni di comando.
È estremamente interessante leggere come il limes, inteso inizialmente come una demarcazione prettamente geografica, avesse cambiato natura col passare dei decenni. Dapprima spostandosi di latitudine: una volta che la demarcazione renano-danubiana era stata ormai travalicata dalle orde,
limes geografico diventarono le Alpi, poi la pianura padana. Successivamente, quando il sacco di Roma aveva reso evidente l’insufficienza di qualsiasi barriera fisica, limes divennero non più i luoghi, bensì i generali vittoriosi che di volta in volta riuscivano a respingere gli assalti dei barbari.
Infine “al tramonto dell’impero occidentale” (cit.) il limes si incarnò negli uomini di chiesa, i vescovi in particolare, visti come gli unici in grado di difendere i valori più alti del gregge romano che era stato loro affidato. In effetti la mancanza di una progressione prettamente temporale del libro, che invece esplora nei diversi paragrafi temi che si dipanano avanti e indietro nel tempo, porta a una maggiore difficoltà nel seguire le vicende storiografiche, con la ripetuta esposizione di alcuni fatti che si ripropongono  di volta in volta a seconda che l’argomento in questione sia la complicata situazione sociale, economica, bellica o politica dell’impero. La lettura può risultare appesantita anche da un lessico e  da una struttura dei periodi di stampo accademico, che poco concede alla fluidità.
Certo la complessità della materia rende necessari i diversi approfondimenti e in particolare Azzara evidenzia le contraddizioni in seno alla società di allora: prima fra tutte quella riguardante il fatto che la minaccia barbara venne a lungo sottovalutata e messa in secondo piano rispetto agli sforzi bellici che venivano invece principalmente rivolti alla Persia.
Lo stesso concetto romano di una risoluzione bellica intesa come unica strada perseguibile per
concludere con successo la questione barbara si rivelò a posteriori, di fatto, fallimentare, alla luce invece della necessità di avere una maggiore integrazione fra i popoli. Integrazione resa
fondamentale anche dalla stretta dipendenza che ormai l’esercito romano aveva nei confronti dei barbari, che utilizzava nelle proprie file come foederati, vale a dire reparti che combattevano ai
comandi dei rispettivi capi tribù in cambio di denaro o del diritto di risiedere in alcuni territori
dell’impero.
Per dare un’idea della cosa: “l’armata con cui… Ezio mosse contro Attila in Gallia era composta da
una minoranza di romani, affiancati da visigoti, alani, burgundi, franchi salii e ripuari, sarmati,
sassoni e altri laeti.” (cit.)
Al contrario, i divari culturali che separavano i due mondi vennero accentuati attraverso il divieto per qualsiasi barbaro del conubium, vale a dire il diritto di sposare i cittadini romani. Nemmeno la  Chiesa si adoperò per una massiccia opera di evangelizzazione dei pagani, e quando il vescovo Ulfila tradusse la bibbia per i goti, né risultò una conversione di questi non al cattolicesimo, bensì  alla fede ariana, considerata eretica e fonte di ulteriore divisione.



Con il susseguirsi degli eventi, tra cui l’ascesa e caduta del generale Ezio, l’invasione degli unni di Attila e soprattutto il breve interregno del capo barbaro Odoacre (che dopo la deposizione di
Romolo Augustolo segnò formalmente la fine dell’impero romano d’occidente) si arriva a quella cheforse è la figura più interessante tra quelle affrontate nel libro: Teoderico.
Il re degli ostrogoti venne inviato in Italia dallo stesso imperatore dell’impero romano d’oriente, Zenone, per sconfiggere proprio Odoacre. E dopo una prima parte di regno teodericiano, che fu di fatto una collaborazione con le istituzioni romane, il sovrano ostrogoto, devoto all’arianesimo, entrò in seguito in contrasto con la chiesa cattolica, al punto da far arrestare lo stesso papa Giovanni I, che trovò la morte in carcere.
La violenza compiuta contro il papa Giovanni I si accompagnava agli assassinii di Simmaco e di
Boezio, alle accuse di tradimento mosse al ceto senatorio e alle confische delle chiese cattoliche
nel rendere evidente una secca svolta della politica teodericiana… frutto del fallimento di un
assetto dall’equilibrio sempre precario… e che venne invece dipinta nelle testimonianze coeve… nei
termini di una sorta di crisi improvvisa di follia, o perfino di possessione diabolica.” (cit.)
La fama di Teoderico fu tramandata dalle saghe del nord Europa, dove divenne noto come Diderik af Bern e fu protagonista di innumerevoli battaglie, addirittura contro giganti e draghi!
Diventò quindi un simbolico personaggio di fantasia, che poco aveva a che spartire con l’originale, in opere letterarie che rielaboravano sia le sue imprese sia le vicende reali di epoche più tarde.
Nella tradizione cattolico-romana, invece, “Teoderico e gli altri re degli ostrogoti divennero una
sorta di emblema del re barbaro eretico e persecutore, nemico della cattolicità e dei valori romani.
(cit.)


Con una rapida carrellata di eventi e personaggi Azzara conclude il capitolo relativo ai goti, il cui regno terminò con la riconquista dell’Italia da parte del generale Narsete (che uccise gli ultimi re goti Totila e Teia) per volontà dell’imperatore d’oriente Giustiniano, deciso a rimuovere il dominio ostrogoto in Italia. La guerra tuttavia lasciò la penisola in uno stato di prostrazione, che di fatto la rese facile terreno di conquista per un altro popolo venuto dal nord: i longobardi.
Nel 569 giunse la gens Langobardorum, sotto il comando di re Alboino, in un numero superiore ai centomila individui, che a loro volta lasciavano la Pannonia sotto il controllo dei loro rivali, gli avari.
I longobardi incontrarono una moderata resistenza sul suolo italico e ben presto si stabilirono in quasi tutto il centro-settentrione. Erano organizzati in bande, ciascuna sotto il controllo di un dux (duca), un capo aristocratico. Proprio la forza di questa classe nobiliare finì per creare non pochi problemi ai vari re longobardi, causandone anche l’assassinio in più di un’occasione, come successe allo stesso Alboino.
In un quadro politico quantomai complesso si evince che, per quasi due secoli, l’Italia fu divisa tra alcune aree sotto il controllo imperiale (principalmente il meridione, Roma e Ravenna) e altre sotto il dominio longobardo, in un precario equilibrio di poteri e in un continuo “gioco” di alleanze con altri popoli, come ad esempio i franchi.



La memoria sedimentata nelle fonti circa l’invasione dell’Italia ad opera dei longobardi evoca
un’immagine di barbara ferocia, di furia devastatrice e di radicale eversione degli assetti della
tarda romanità, incomparabile con i toni con cui era stato accolto e rappresentato l’arrivo degli
ostrogoti ottant’anni prima.” (cit.)
In questo caso Azzara fa notare come, nella percezione della gente dell’epoca, esistessero barbari e barbari. I longobardi risultavano come un popolo ancora più estraneo ai costumi civilizzati romani, meno conosciuti dei goti e ancora più selvaggi.
È interessante l’analisi che l’autore fa del lento processo di fusione tra i due popoli, nonostante tutte le separazioni volutamente imposte dai reciproci gruppi e nonostante le ostilità, a riprova di quanto una prolungata convivenza porti inevitabilmente a delle “contaminazioni”; al punto che, nel corso  del VII secolo, i longobardi abbandonarono l’arianesimo per convertirsi al cattolicesimo.
Gli stessi re, per consolidare il proprio potere al di sopra dell’aristocrazia, iniziarono a rifarsi ai
modelli ideologici romano-cristiani nel tentativo di dare una maggiore unità al loro regno.
Interessanti sono anche le analisi di carattere archeologico riguardo i corredi funerari e la
ridefinizione degli spazi urbani.



La risoluzione definitiva della lotta/convivenza con la gens langobardorum, che nel secolo VIII
aveva notevolmente consolidato il proprio potere grazie all’opera del re Liutprando e del re Astolfo, avvenne con l’intervento di Carlo Magno, re dei franchi, il quale rispose all’appello del papa Adriano I. Rotto il legame di parentela con il re Desiderio, di cui aveva sposato la figlia, scese nella penisola e sconfisse i longobardi, la cui aristocrazia si dimostrò ancora una volta disunita,
divenendone il nuovo re e annettendoli al regno franco.
Sulla fine del regno dei longobardi Azzara spende diverse righe, riassumendo i vari fattori e
circostanze che concorsero a tale esito. Dopodiché, nell’ultimo capitolo, ripercorre brevemente le vicende fin qui riassunte e sottolinea come l’influenza longobarda si sia protratta ancora per molto tempo.In conclusione “L’Italia dei barbari” è un buon condensato di quella parte turbolenta di storia che hatraghettato la penisola dall’epoca tardoantica all’altomedioevo e offre un intrigante approfondimento della figura, troppo genericamente additata, del “barbaro” e del modo in cui questa abbia interagito  con una popolazione per molti versi più ricca e sofisticata. Come detto la struttura del libro è poco lineare, così come lo stile accademico risulta quantomeno desueto in alcuni punti e la sua comprensibile mancanza di calore partecipativo limita il coinvolgimento da parte del lettore.
Tuttavia l’esito è funzionale e non sgradevole.
Rimane una lettura stimolante per ripassare alcune lezioni di scuola ormai da tempo dimenticate e per scoprire da quali accadimenti storici la letteratura abbia spesso attinto.


articolo di Alessandro Zurla

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