Rhapsody – Dawn of victory

Ancelot smiles at the knights’ epic cry

Thanks to the old and their emeral sword

The kingdom is now hailing the triumph over Dargor

and he the man from Loregard he stands in front of all… of all!”

 

“Ancelot sorride all’epico grido dei cavalieri

Grazie agli anziani e alla loro spada di smeraldo

Il regno ora saluta il trionfo su Dargor

e lui l’uomo che viene da Loregard lui sta di fronte a tutti… a tutti!”

 

Triumph for my Magic Steel

 

Per una sorta di regola non scritta, nella musica si è sempre sostenuto, chissà poi perché, che per una band il terzo album sia quello della consacrazione definitiva o della irrimediabile consegna alla categorie “minori”.

I Rhapsody, dopo aver dato alle stampe due dischi che avevano fatto loro bruciare le tappe quanto a popolarità e gradimento, nel 1999 uscirono con il fatidico numero tre: Dawn of Victory.

L’anno precedente il chitarrista Luca Turilli aveva esordito inaspettatamente da solista con il buon Kings of the Nordic Twilight, mentre il cantante Lione aveva riunito le forze con l’ex compare Olaf Thorsen per fondare i Vision Divine; entrambi gli esperimenti erano andati molto bene e non avevano fatto altro che alimentare le aspettative per il terzo capitolo della Emerald Sword Saga. Neanche a farlo apposta, più le aspettative sono alte più il rischio di rimanere in qualche misura delusi è dietro l’angolo. E in effetti, per chi scrive e non solo, al tempo Dawn of Victory segnò un parziale raffreddamento dell’entusiasmo che aveva accompagnato il gruppo triestino fino a quel punto. Ma andiamo con ordine…

Dopo le polemiche che erano circolate attorno all’effettiva esistenza fisica di un batterista, i Rhapsody arruolarono il tedesco Alex Holzwarth, già in forze nei Sieges Even, che completò finalmente una formazione in grado di calcare le assi dei palchi in giro per il mondo. E la nuova attitudine “in your face” del gruppo, come si suol dire, si rifletté sia nella musica del disco, che risultò scevra di buona parte degli arrangiamenti orchestrali che avevano fatto la fortuna del precedente Symphony of Enchanted Lands, sia nella sua copertina, stavolta ad opera di Marc Klinnert, decisamente più aggressiva e meno fiabesca, la quale ritrae il prode Guerriero di Ghiaccio mentre brandisce un’ascia e la Spada di Smeraldo e fa a pezzi un gruppo di demoni.

In questo terzo capitolo l’immaginario fantastico di riferimento di Turilli & Co. diviene più ricco e specifico e la trama acquisisce uno spazio maggiore, a partire dalle pagine occupate nel libretto allegato, con l’esposizione di avvenimenti più dettagliati inseriti in un contesto meglio descritto.

La storia risulta essere una sorta di specchio capovolto rispetto al continuo crescendo dei primi due episodi della saga. Qui si comincia subito all’apice dell’epicità e del trionfo, una vera e propria alba della vittoria: il Guerriero di Ghiaccio torna ad Ancelot e sbaraglia le orde nemiche grazie alla potente spada che è riuscito a recuperare. Lui e Arwald, il difensore della città, riescono a sconfiggere il generale dell’armata nera, Dargor, personaggio che viene presentato per la prima volta e che ricoprirà un ruolo centrale nell’evolversi della trama. Nonostante la vittoria, tuttavia, la principessa di Ancelot, Airin, viene rapita durante l’assedio e condotta ad Hargor, il cuore delle Terre Oscure, insieme ad altri dodici cavalieri fatti prigionieri. In cambio della loro restituzione Akron chiede nientepopodimeno che la mitica Spada di Smeraldo. I due eroi, riluttanti, si recano ad Hargor sperando di salvare la vita dei compagni e della principessa, solo per scoprire che in realtà i cavalieri sono già stati smembrati e impalati.

Dopo un feroce combattimento, Arwald e il guerriero di Loregard, vengono catturati e torturati per diversi giorni. Al culmine delle torture, all’interno di una caverna, assistono impotenti allo stupro e al brutale assassinio di Airin durante un rituale oscuro attraverso il quale Akron ingrandisce i propri poteri. Sarà a questo punto che Dargor, pur essendo stato educato dal mago malvagio Vankar e pur essendo fedele al culto del male, condannerà questo scempio e si allontanerà dalla caverna, prendendo di fatto le distanze sia fisicamente sia ideologicamente dal mondo dei demoni.

Airin viene immersa in una pozza di acido chiamato Sgral (!) e la stessa sorte tocca ad Arwald. Questi però, in un gesto disperato, riuscirà, prima di morire disciolto, a schizzare con lo Sgral le catene del Guerriero di Ghiaccio, che potrà così fuggire e tornare alla Foresta degli Unicorni, dopo una lunga e disperata fuga.

Da notare, con un sorriso o con fastidio a seconda dei casi, i ripetitivi commenti “drammatici” con i quali Aresius, il narratore delle cronache, infarcisce i suoi scritti mentre racconta la storia. In un tripudio di “oh my God… yes, my dear friends… too tragic…” ecc. il saggio menestrello offre una sua partecipazione patetica alle vicende e fornisce una sorta di esortazione morale, per tutti suoi ascoltatori, a scegliere le forze del bene e della giustizia, cosa che avvicina le Algalord Chronicles ai libri per ragazzi nelle collane di letteratura fantasy più spiccia. Lo stesso Aresius fa capolino nelle foto del libretto, con una maschera che i meno generosi potrebbero azzardarsi a definire imbarazzante, in un tentativo da parte dei Rhapsody, forse, di acquisire una mascotte simile a Eddie degli Iron Maiden. Cosa che poi non ebbe seguito.

E la musica?

L’album si apre con il suono isolato di alcune gocce di sangue che cadono in un pozzo, mentre la voce di Jay Lansford solleva virtualmente il sipario. La solita intro di prammatica, Lux Triumphans, entra con un incedere pomposo e solenne, tra orchestrazioni e cori operistici, per lasciare presto il passo al vero pezzo da novanta del disco: l’omonima Dawn of Victory. Se esistesse una definizione per adrenalina pompata a mille attraverso i padiglioni auricolari porterebbe senza dubbio il nome di questa canzone. Il riff di chitarra veloce e arrembante di Turilli, gli archi sintetizzati delle tastiere di Staropoli, la voce potente di Fabio e, soprattutto, la batteria terremotante di Holzwarth (vero e proprio asso nella manica tirato fuori dal gruppo) ci conducono dritti filati a uno dei ritornelli più memorabili della storia della band. Difficile non immaginarsi su un campo di battaglia (di quelle belle, quelle che esistono solo nella fantasia) mentre si impugna una spada scintillante e si grida a squarciagola per incitare i propri compagni. Cantarla dal vivo insieme a centinaia di altre persone è un’emozione che vale la pena di essere provata!

Già dalla seguente Triumph for my Magic Steel i ritmi rallentano un poco, pur non diminuendo l’enfasi epica; mentre con la successiva, The Village of Dwarves, un altro classico dal vivo dei Rhapsody, i nostri si concedono un momento di pura danza medievaleggiante, dove i suoni di cornamusa di Staropoli, i tamburelli e i cori gioiosi da festa la fanno da padrone. Fanno capolino anche i flauti di Manuel Staropoli. Con questa canzone si conclude la prima parte dell’album, quella più “positiva”; da qui in poi sarà una continua ed inesorabile discesa verso la tragedia (parlo della storia).

Dargor, Shadowlord of the Black Mountain, oltre ad avere un titolo lunghissimo, è la canzone che presenta il suddetto personaggio e riporta il disco su coordinate più veloci; consente anche di notare come, almeno dal punto di vista degli arrangiamenti, la proposta musicale dei nostri si sia fin qui semplificata rispetto alle composizioni barocche del passato, con una riduzione anche della durata degli assoli di chitarra e tastiera.

Con The Bloody Rage of the Titans i Rhapsody tentano al contrario di orchestrare qualcosa di più complesso, con una struttura che alterna parti lente a parti veloci e dove ritornano i temi, tanto cari al gruppo, sia della natura incontaminata sia della furia dei giusti contro i soprusi dei malvagi. Tuttavia il pezzo, nel suo insieme, risulta insolitamente pesante da digerire.

E si arriva così all’altra briscola del disco, quella Holy Thunderforce che già era stata presentata come singolo. Lo stesso Holzwarth ha più volte dichiarato che questa è la canzone dei Rhapsody che preferisce suonare, e basta sentire quello che fa con doppia cassa e rullante durante l’attacco del riff che precede la strofa per capire il perché. Con un andamento spezzato, che richiama quasi il mondo del rock&roll, Fabio infila una serie di invettive contro l’infame Akron, per poi cavalcare insieme al coro e al resto della band in un ritornello veloce che subito lascia il passo alla strofa successiva. Rapida e incisiva come un proiettile, Holy Thunderforce inizia e finisce che quasi non ci se ne accorge, se non fosse per la sensazione di essere stati infilati per quattro minuti dentro un frullatore.

La ancor più breve strumentale Trolls in the Dark omaggia di nuovo Claudio Simonetti e i suoi Goblin, prima di consegnarci alle note di The Last Winged Unicorn, canzone che descrive la terribile fine della principessa Airin e che vede la presenza della bravissima soprano Constanze Backes e del solito Jay Lansford; rispetto agli altri brani questo, pur nella sua veemenza, è velato di malinconia e prepara il terreno per la scena finale: la morte di Arwald, il Signore del Fuoco, e le maledizioni che egli scaglia contro il Re Nero.

The Mighty Ride of the Firelord è per l’appunto la cavalcata conclusiva del disco, e si presenta con una struttura più complessa rispetto alle altre canzoni nonché con una durata nettamente superiore; tuttavia, nonostante un inizio assai promettente, non riesce a incidere quanto gli altri brani, né a coinvolgere al livello dell’omologa Symphony of Enchanted Lands, complice un ritornello eccessivamente dilatato e la mancanza di elementi che rappresentino una vera sorpresa a questo punto della discografia.

Dawn of Victory è quindi per certi versi un album di passaggio, che portò in seno ai Rhapsody il loro batterista definitivo e inserì le prime avvisaglie di un indurimento delle sonorità che avrebbe raggiunto il culmine con il capitolo successivo (quello sì, foriero di sorprese). Al netto di un andamento meno costante nella qualità della scaletta, la terza fatica del combo italiano ci consegnò due o tre delle canzoni più riuscite della band e la possibilità di vedere per la prima volta i musicisti suonare dal vivo.

From the holy sea of golden flames flies the last winged unicorn

With its magic breath of innocence rising to the crystal throne”

 

“Dal mare sacro delle fiamme d’oro vola l’ultimo unicorno alato

Con il suo magico respiro di innocenza sale al trono di cristallo”

 

The Last Winged Unicorn

 

 

Articolo di Alessandro Zurla

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