I racconti di Satrampa Zeiros: “Pater Nunquam” di Alessandro Forlani

Ci sono luoghi dove si torna. Ma, sopratutto, ci sono luoghi dove si “ritorna”, anche dalla morte. Thanatolia – lo sappiamo – è famosa proprio per questo, nonchè per le peripezie di un certo Malqvist.Alcuni lo conosceranno come tombarolo, altri come avventuriero, altri ancora come gran figlio di… Ma non importa: un altro capitolo delle sue avventure è qui, vergato dalla penna intinta di sangue e necroinchiostro del nostro Alessandro Forlani!

Pater Nunquam

un’avventura di Malqvist di Thanatolia

 

«Alla padrona di quelli lì ci piace farlo con gli animali.»

«È un mondo libero. Però noialtri…»

«… però animali morti. Il problema è che un filosofo del cazzo anni or sono ha convinto la padrona di quelli lì che l’uomo è un animale. Anzi: che è il peggiore. Quindi adesso alla padrona di quelli lì ci piace farlo con i cristiani.»

«… però i cristiani morti.»

«Tocca a noi, se l’hai capito.»

«Potrebbe uccidere e scoparsi i suoi.»

«Li vuole ruvidi. Li vuole maschi.»

«Quelli lì sono bei tori», dovette ammettere Malqvist: con il grugno e con l’orgoglio che gli dolevano di bastonate.

«Sì, ma… zac!», rise il compare: e lui si buttò depresso in un angolo della cella, ché gli rodeva di averle prese da una banda di castrati. Soprattutto era evidente che non fosse messo bene: perché era incatenato.

Perché gli eunuchi erano tutti parecchio grossi.

Non aveva la sua scure.

Perché la Tizia voleva fare di loro due carne fredda da letto. E se già non gli garbava di chiavarsi una cicciona figuriamoci il pensiero di chiavarsela da morto.

Perché aveva accettato quell’ingaggio da puttane?!

Ficcò incazzato le mani in tasca e la risposta la trovò lì: perché in queste, come al solito, non c’è uno spicciolo di astragalo.

Era noto questo fatto che le signore di Handelbab pagassero bei soldi per ciularsi i tombaroli: le bagnava il loro odore di assassinio e di sepolcro. Va’ a capirle, pensò Malqvist. C’era anche chi pagava per farlo in tomba con i ghoul che ti guardavano; e c’era anche chi pagava quell’incisore – Pinkman, che è famoso – per acqueforti su questo tema da incorniciare nella toilette. Conosceva dei colleghi che a depredare, ormai, non ci andavano più da un pezzo: ma avevano la attrezzatura e l’attrezzo da tombaroli, si atteggiavano a tombaroli, si intortavano le belle dame con qualche aneddoto da tombaroli e campavano alla grande di scopate d’alto bordo. Le clienti volevano le si insultasse, sbattendole, ma in gergo da tombaroli: come fai però a non ridere sputando a una «che bara rotta che sei»?

Mi occorrono i quattrini, però: e questo e un fatto, pensò quel giorno sotto lo scroscio di pioggia grigia sulla porta di un ostello da cui lo avevano cacciato via – non pagava vitto e alloggio da… da quanto tempo? È dalla morte del vecchio Auròtene – gli sembrò di ricordare – che gli antiquari della città non organizzano spedizioni. E inghiottito l’amor proprio – che comunque non ti sfama – si era dato a una maitresse di tombaroli che lo aveva presentato a Donna Heléna Von Liebenmädchen.

Era una pallida vacca grassa con una zazzera di oro unto, perché aveva i capelli grassi; il lungo abito in velluto nero che più che lungo gli parve… grasso. Non esistevano vestiti grassi: quello sì, se addosso a lei. L’unico termine che a guardarla gli venne in mente era grasso; solo grasso. Negli occhi azzurri le si leggeva quella obesa libidine; brillava tutta di anelli grassi, bracciali grassi, di collane e pietre pingui. Lui tremò: non ce la faccio; ma anche la sua paga sarebbe stata parecchio grassa.

Te ne vai tra una mezz’ora. Poi dimentichi. Coraggio.

Picchiò avvilito con un battaglio sbalzato in oro al portone di un palazzo che grondava di opulenza. E sperò che la marchetta sarebbe stata altrettanto… grassa, insomma: si è capito. Appena in casa, quei senzapalle lo avevano subito buttato giù. Lo avevano messo sotto. E lo avevano rinchiuso in questa cella con un altro poveraccio che anche lui ci era cascato.

Donna Heléna gli aveva detto sottovoce all’orecchio «ti farò mmmorire», con la m e le due r che stillavano di voglia: non pensava alla lettera; la maitresse non mi ha avvertito. Ma ‘sto amico finalmente mi ha spiegato la faccenda, e – si incupì Malqvist – non mi va a genio per niente.

«Bisogna agire», si tirò su.

«La pietra è solida. La porta pure. Non c’è manco una finestra.»

«Hai un nome, tu?»

«Non te lo dico. Perché vada come vada non piace che si venga a sapere che ho rischiato la pelle per dare il cazzo a…»

«Hai ragione», disse Malqvist: si strinsero la mano; «tu non mi hai visto, non mi conosci.»

«Puoi contare su di me.»

Il giovanotto non gli sembrava il tipo che campa a lungo, ma intuì che se fosse andata male sarebbe morto da uomo onesto:

«Sono convinto che la signora si stia spogliando, si stia incipriando: non vorrà aspettarci a lungo, l’ho capito dal suo sguardo. I suoi castrati verranno a prenderci.»

«Siamo nudi.»

«Abbiamo queste»: Malqvist tese i ferri che gli legavano entrambi i polsi.

«Saranno armati.»

«Ma esiteranno. La stronza avrà lo sfizio di accopparci con le sue mani, e io credo che loro non le vogliano spiacere. Abbiamo scrupoli, noialtri?»

«Anzi.»

Tornarono gli eunuchi: ma in pochi, questa volta. Appena il primo varcò la soglia Malqvist lo ingarottò, gettò il cadavere addossò agli altri, saltò addosso al secondo, gli spezzò l’osso del collo e tenne il corpo davanti a sé: le daghe dei bastardi gli affondarono nel ventre. Bel tentativo, ma siete lenti. E noi siamo cattivi. Il giovane afferrò la spada corta del primo morto e stese il terzo eunuco su un tappeto di budella. Al quarto costò cara la cazzata di scappare: crollò a terra col gargarozzo segato e un ferro nella schiena.

«Dài, le chiavi», disse Malqvist: si liberarono dalle catene. Si infilarono alla cinta le quattro daghe dei morti, che non erano granché, ma sempre meglio che a mani vuote. E adesso che era armato, libero e ancora vivo pretese che il ragazzo gli spiegasse un po’ di più:

«Come sai degli appetiti di quella troia? Non sei venuto per soddisfarla, altrimenti li ignoreresti. A me lo hanno nascosto. Che ci fai, davvero, qui?»

«Ci sono stato già un’altra volta.»

«Ne hai, di stomaco.»

«… con mio fratello. Donna Heléna quando ha finito getta i cadaveri agli escrementi: il pensiero la eccita.»

«Quella vacca è malata.»

«C’è una botola apposta, nella stanza da letto. A mio fratello trafisse il cuore: non ebbe scampo, ma a me, però…», gli mostrò una cicatrice dall’ombelico alle costole.

«Ti ha squartato!»

«Non le è riuscito. Tuttavia non se n’è accorta.»

«E ti ha stuprato!»

«Ma sono vivo.»

«Ti sembra poco?»

«Son morto dentro.»

Lui guardò ammirato a quel lavoro di fil di ferro:

«Chi è il tuo sarto?»

«Mia cognata. Che ci ha raccolto tra quei liquami. Che mi ha rimesso la trippa in corpo e ha sepolto suo marito.»

Ci ha le palle,ˈsto ragazzo.

«E a te ti bollono i coglioni d’odio, eh?»

«Sono tornato per vendicarmi. Quelli lì mi hanno beccato che mi infilavo da una finestra, m’hanno gettato a marcire qui finché lei deciderà…»

Malqvist pensò che adesso se ne sarebbero dovuti andare. Filare subito dal sotterraneo per uscire dalla casa. Di nascosto dagli eunuchi. Da quella orrenda puttana sadica. Ma era giusto come il cielo che quella storia finisse lì:

«Ti seguo, giovane.»

«È un labirinto: ci siamo persi.»

«Potrei avere sbagliato scala.»

«Potresti avere sbagliato tutto»: ché percorrevano quei corridoi da almeno un quarto d’ora.

«Siamo sotto il pianterreno.»

«Molto, sotto.»

«Una cantina.»

«Non vedo i tini, non vedo viveri: è una cantina davvero enorme. Ci sei già stato?»

«Qui sotto no. Mi sembrava che gli eunuchi…»

«Provenivano da là»: Malqvist gli indicò il lato opposto del tunnel, ma il ragazzo si intestardì a tentare un’altra scala:

«C’è un passaggio.»

«Scende ancora.»

«Da qualche parte dovrà sbucare.»

Fuochi azzurri di lanterna illuminavano il muro nero, i laterizi, le pietre grosse, il legname e la calce che si alternavano nel corridoio ad antiche porte cieche: le porte erano vecchie; ma i muri non lo sono… Malqvist sentì odore di malta ancora fresca, e olezzo di putredine dei peggio cimiteri:

«È un sotterraneo, lo ristrutturano, lo stanno ampliando, va bene, ma…dovrebbe essere una casa ricca, non è una tomba.»

«Sarà la cripta», il giovane si impallidì: quel fetore di sepolcro stava facendo ad entrambi male. Non si trattava di vermi e ossa:

«A Thanatolia? Sei matto, figlio? Nel continente della Non-Morte ti tieni in casa i parenti morti? È da stupidi, è vietato. C’è nell’aria…»

«Magia nera!», sboccò l’altro.

«Ma va là.»

Nella penombra, davanti a loro, notò qualcosa che si muoveva. Un ché di molle però terroso che strideva e gorgogliava.

«Dovete uccidermi», la voce li gelò.

Proveniva da là in fondo. L’ultima porta del corridoio.

La lastra rossa di terracotta.

E c’era un uomo, impastato dentro.

Le carni gocciolavano in umori disgustosi nei pori della creta scavati dagli insetti; lo scheletro era polvere tra la sporcizia del pavimento. La testa – che era viva, il volto magro di un uomo anziano – gemeva sofferente in un reticolo di fil di rame: che gli incideva la pelle pallida di pentacoli e di croci. Lo stipite era giallo di molte pagine di libri a stampa di parole altisonanti quali HOMINIS VIRTVTE.

«Dovete uccidermi. Vi prego. Uccidermi.»

Lui inghiottì il terrore, lo schifo, la pietà; puntò la daga a questa nuova diavoleria tra quelle che aveva visto in una vita da tombarolo. Al ragazzo gli ci volle qualche conato di più; tra i denti gli restarono un «mamma» e qualche dio.

«Dovete uccidermi. Vi prego. Uccidermi.»

«Ti servo subito», rispose lui.

«Sai chi… era?», disse il giovane, «Fermo!»

«Un abominio.»

«Dovete uccidermi.»

«Non vedi i libri?»

«Non li so leggere.»

«Il suo filosofo. Di Donna Heléna.»

«Che l’ha convinta a scoparsi i morti?»

«Proprio lui. Mi sa di sì.»

«E allora perché è punito a questo modo?»

«Dovete uccidermi.»

«E come ha fatto?!», il giovane rabbrividì, «è un incantesimo. Da maghi veri

«E daje. È un trucco.»

«Sono io!», gridò rabbiosa la cosa: la terracotta fremette viva, pulsò. Le vesciche nelle carni eruttarono di pus, e rovesciarono larve e blatte in grumi neri sul pavimento. Una crepa aprì a metà la faccia livida e folle:

«Anche i morti hanno un seme per il ventre di una strega! Generati in un gemito! Il suo coito mostruoso! Le ho suggerito piaceri nuovi, ma le restavano i vecchi frutti! Non osavo immaginare! Mi ha costretto a custodirli!»

«Che cosa dice?!»

«Filosofia.»

La cosa era furiosa, si decompose, si liquefò, il teschio candido ancora urlante rotolò tra i loro piedi. La rete in rame di segni magici si disfece in fili rossi, e la parete di carne e ossa e di terra crollò con un boato, un rantolo e uno schiocco.

Malqvist si coprì il naso da quella nube di polvere, veleno, gas necrotici e grezza malvagità:

«Non respirare!», gridò al ragazzo: che però tossiva sangue, e quella specie di muco azzurro che si diceva che fosse l’anima.

Era un effetto degli incantesimi, per i coglioni che ci credevano.

Lo tirò verso di sé, e entrarono in quella stanza che si apriva dall’altra parte. Le urla del filosofo si spensero al soffitto: non si trattava però di un’eco; quella voce era cosciente, e maledisse e imprecò alla «strega!» fino a perdersi in un soffio.

Un ambiente in penombra.

E una specie di grata.

Di pannello o zanzariera a fori piccoli e regolari.

Malqvist ne aveva visti in camera di Valentina nel bordello dove lei di solito lo riceveva, quando lui aveva i soldi. Ma anche in camera di Miriam, Nicoletta e delle altre. Di tante altre che poi per forza restava al verde e restava casto.

Di intercapedine o guardaroba. Da toilette. Ma da signora.

Da quei fori penetrava la luce calda e normale di una lampada a olio profumata al crisantemo, che aiutava a sopportare il puzzo strano di quella sala.

Da una serie di campane ricoperte di teli neri esalava un puzzo chimico e di latte andato a male. Malqvist sotto i teli udì qualcosa che respirava; qualcosa di addormentato; innocuo, però orrendo. Un istinto lo avvertì di non scoprire e di non guardare.

«Stammi dietro, giovane», ordinò. Puntò alla grata: «di là si esce, però prudenza. Non dobbiamo far rumore e non devi toccare niente.»

Troppo tardi.

Udì il fruscio: la seta scura su quei cristalli. Il capitombolo del pivello e il suo gemito inorridito.

Le campane erano culle di ripugnanti neonati morti, nei cui occhi scintillava una vigile coscienza. Erano cuccioli, più che bambini: vitelli, cani, puledri e porci; agnelli gracili dal volto umano e code attorcigliate tra le gambe dei neonati. Piccole mani di un solo dito con lo zoccolo incarnito; peli irti, folti e neri su quelle carni aggrinzite e marce.

Erano morti, diosanto, morti: ma chiamavano la mamma; e bagnavano le culle di fiotti scuri di sangue.

Malqvist rifiutò di immaginare con quale ferro un’ostetrica crudele avesse loro scavato il ventre – il cordone ombelicale era stato reciso; la ferita era mostruosa, doveva averli spaccati in due. Ed ebbe una visione di mani pallide e ischeletrite che bollivano il budello in un paiolo da fattucchiera.

Che cos’è che mi impressiona? Non mi sconfinfera: a che assomiglia?

Scacciò il pensiero. Sentì dei passi.

Dalla stanza all’altro lato della grata udirono un eunuco gridare «li ho trovati!»; accorsero altri grugni e rimossero il pannello.

«E va bene», ruggì Malqvist: calciò le culle sul pavimento, e l’orribile groviglio di creature sofferenti strisciò urlando nel passaggio e travolse gli assalitori.

Lui afferrò il giovane per il bavero del giaco, gli indicò quei lumi a olio che illuminavano il corridoio:

«Brucia tutto.»

«Quei… bambini…»

«Tutto, ho detto.»

Il ragazzo gli obbedì, spaccò a terra una lampada, un’altra, un’altra ancora: il fuoco appiccò a tutto. Le fiamme invigorirono al contatto coi sieri gialli che stagnavano odorosi sul fondo delle culle; e crepitarono sulle carni di quegli esseri penosi. Non provarono dolore: continuarono a strisciare. E gli eunuchi arretrarono all’orrore e la putrescenza delle bestie e dei neonati in una lingua di carne sola; di zanne e zoccoli, di pelo e mani, di cani che latravano implorando «voglio pappa» e putti cadaverici che urlavano e nitrivano. Il bordo della grata crollò ridotto in tizzoni neri, il passaggio si allargò.

«All’assalto», disse Malqvist.

Infilzarono tre eunuchi, le creature si fermarono a divorarne i cadaveri. Incrociarono le spade con due porci più veloci.

Uno gli toccò la coscia destra con la lama: «mica male!», lui ammise; lo sgozzò con un fendente, si abbassò a schiavare il colpo di un altro e scattò a bucargli l’inguine e segargli l’intestino. Il ragazzo era un talento, a coltellate nei reni: buttò a terra due nemici agli appetiti dei mostriciattoli. Ne restavano altri tre, e quello grosso era armato d’ascia; Malqvist gli andò addosso con l’acquolina alla bocca:

«Quella è mia!»

Parò un calante, schivò di lato una bella botta che fece a pezzi i marmi rossi del pavimento. Arretrò ed espose il collo: l’altro – scemo – ci cascò: levò la scure a spaccarli il cranio e gli offrì la pancia nuda. La sua daga ringraziò.

Il giovanotto sudava freddo col culo al muro sotto il ferro più esperto di un avversario pericoloso: lui raccolse l’ascia dallo schifo e la poltiglia e aprì la schiena del senzapalle con un colpo dato bene:

«Questa sì, che è un’arma vera!», calciò affanculo quei coltellini, «ce n’era un altro.»

«Ma mi è sfuggito», ammise il giovane con il fiatone.

Le fiamme morsicavano il mobilio e le pareti di quello che sembrava un lussuoso salottino. Una porta era aperta su un salone illuminato, su uno scalone di statue e stucchi che saliva ai piani alti.

«Siamo in casa», disse Malqvist, «e donna Heléna ci sta aspettando. Ci lasceremo soltanto il fuoco, dietro.»

«E loro?»

«Sono in pace.»

Ascoltarono i lamenti dei bambini nell’incendio, e salirono le scale più affamati d’omicidio.

La grande porta di legno candido e oro era quella di un boudoir per vacche ricche e viziose:

«La stanza è quella?», si incupì Malqvist.

Il ragazzo annuì.

«Da quella botola ci cadrà lei, tra poco, nella merda. E questa è una promessa, giovane. Ci aprite?»

L’unico eunuco sopravvissuto strinse la spada molto poco convinto, si nascose tra le donne silenziose sulla soglia: quattro carciofe di mezza età con una tunica di lana nera, un berretto triangolare e un tamburello di pelle chiara.

Nei labbri inferiori, tagliati e deformati, ostentavano dischi d’osso che assomigliavano a sezioni di crani umani; che lo sono, invece, inghiottì lui: ne aveva rotti e già visti troppi per confondersi su un teschio. Alla cintola allacciavano dei coltelli di ossidiana che non lo avrebbero impensierito, quei tamburi però sì.

Non gli risposero.

Vuol dire “no”.

Prese il giovane da parte con la faccia sconsolata, come dicesse che si arrendevano, che se ne andavano, che «va bene, abbiamo perso». All’eunuco tornò colore e strafottenza sul volto, ma le befane non respirarono: sono allegre, lui tremò.

«Cos’è, vuoi prendermi per il culo?»

«Senti, ragazzo», lui sussurrò, «strappati un lembo della camicia, del fazzoletto… di quel che è. Lo appallottoli, ci sputi, te lo infili nelle orecchie. Fallo e basta, fallo in fretta.»

«E a cosa serve?»

A questo, serve: le quattro donne percossero i tamburelli, e loro si piegarono a una fitta di dolore.

«So riconoscere un necromante. E conosco i loro scherzi.»

Malqvist pianse sangue, soffrì di un’epistassi, e coltellate di magia nera lo trafissero in tutto il corpo. Grazie ai tappi quel primo colpo fu sopportabile – ma il giovane era steso con gli occhi rovesciati – ora imprecò forte contro il crescendo di note oscure. Partì una costola: vabbè, ne ho altre; gli prese un crampo, ma restò in piedi. Sentì il sale nella coscia ferita e il male si insinuò nei suoi pensieri più profondi. Nelle colpe, nei ricordi, nei rimorsi e nei rimpianti; nell’infanzia, nel futuro e nel suo essere un debosciato. Pensò a qualcosa di bello e sano per resistere in quel buio: che cos’è bello, che cos’è sano?

Cadde a terra, in posizione fetale, si succhiò il pollice, singhiozzò. Si tenne stretta la scure al petto come si stringono gli orsacchiotti. Il suono del tamburo lo strangolava di oscurità. L’eunuco, imbaldanzito, gli andò contro con un ghigno, leccò la spada, si godette il momento.

Lui riuscì soltanto a immaginare la propria lapide:

“QVI È SEPOLTO MALQVIST INCVLATO DA VN EVNVCO”

La barzelletta di tutta Handelbab.

Dei compari.

Questo no.

Schiantò il femore al bastardo.

Dio, che schiocco.

Disgustoso.

Questo è bello.

Questo, è sano.

Fa ancora male.

Ma un po’ di meno.

Strinse i denti, si alzò in piedi, i tamburi esitarono: i volti bianchi di quelle stronze si incrinarono di fifa. Lui li colorò dei fiotti rossi del castrato cui sorrise e gongolò di amputare gambe e braccia. Una befana lasciò cadere il suo strumento sul pavimento, quel coro nero cessò di colpo.

Malqvist le ebbe a fronte impotenti ed esterrefatte.

Quattro teste di puttana rotolarono sui marmi.

Calciò la porta:

«Signora Heléna?»

Un’altra vampa di magia nera lo schiacciò sul pavimento.

La necromante fluttuava nuda, luccicante di gioielli, sulle coperte grondanti sangue del suo letto a baldacchino. Le cosce pallide e il pube biondo erano sozze di emorragia, e i ciuffi radi di luce platino e ritti le irradiano dal volto in estatica follia. Un’altra donna vestita in nero con le ossa nelle labbra raccoglieva asciugamani ch’erano intrisi di parto, li ammucchiava in un bacile che puzzava di acqua rossa. Un’altra donna si affaticava a gettare nella botola degli escrementi il corpo nudo di un uomo morto con tatuaggi di due torce, e i molti nomi dei cimiteri di cui era veterano. Un’altra ancora teneva in braccio un bimbo morto ma vivo, con il cordone tranciato via e una ferita dall’ombelico al costato. Dalla cintura le pencolava un’affilata mostruosa roncola. Era ferma sulla soglia di una specie di ripostiglio, che sembrava stipato di quei miseri morti.

«Io ti voglio. Ti ho pagato», Donna Heléna lo riconobbe, «tocca a te farmi godere.»

Le tre ancelle abbandonarono quelle orride mansioni, lo afferrarono:

«Puttane!», Malqvist provò a lottare. Si sentì fiacco, si sentì vinto: quella bordata di oscurità era peggio dei tamburi. Lo trascinarono sul baldacchino che fumava di assassinio. Le lenzuola insanguinate lo appiccicarono, lo soffocarono; c’era odore di budella, c’era il tanfo del terrore.

La strega grassa gli stava sopra sospesa in aria con qualche trucco: la ancella con la roncola gli tagliò le braghe e il giaco, lo spogliò, lo tagliuzzò. E quella vacca si masturbava. Quando fu del tutto nudo, paralizzato tra le coperte, Donna Heléna si abbassò per godere del suo sesso.

Malqvist pensò accanito le peggio cose e le più di chiesa, le più tristi, le più vili: cercò di farselo restare moscio. Sarebbe morto – non manca molto – ma a questa troia non la soddisfo. La prima ancella passò la roncola alla padrona vogliosa; le altre due gli accarezzarono e leccarono l’uccello.

“QVI GIACE MALQVIST”, lui ripensò… ma non è mica una brutta morte.

«Sei mai venuto da morto, piccolo?», Donna Heléna gli soffiò, «È un godimento che i vivi ignorano, l’abbandono in un abisso. Anche i morti hanno un seme, per il ventre di una strega. Non mi ci vogliono nove mesi: solo quell’attimo di orgasmo e morte. Sarai padre, sei contento? E i miei bambini non li abbandono.»

Gli leccò un pentacolo sul petto e brandì l’orrenda roncola a colpire per ucciderlo.

Ma gettò il ferro.

Restò allibita.

Guardò alla porta e gemette.

La foia nera le si spense negli occhi azzurri in lacrime di ombretto e un amore doloroso.

Il ragazzo arrancò dentro la stanza ancora scosso di convulsioni, e stordito e allucinato dalla voce dei tamburi. Alle sue spalle bagliori arancio, scricchiolii dal pianterreno: era l’incendio che lo incalzava e aggrediva già le scale.

Ma resta in piedi.

Ma disarmato.

«Perdio pivello, che cazzo fai?!»

Lui si scoprì il ventre sulla lunga cicatrice: troppo simile a quella dei neonati deformi e dei figli di cadavere imprigionati nei sotterranei.

«Uno lo abbandonasti, mamma, la prima volta: quando smettesti con gli animali per divertirti con le persone.»

«… io non sapevo», lei balbettò, «era diverso che con le bestie… il rituale era diverso, si correvano dei rischi… poi, però…»

«Ci hai preso gusto. E questo è orribile, mamma: orribile.»

«Ma sei tornato! Ma tu sei mio!»

Malqvist tirò il fiato, si alzò seduto sul materasso. Donna Heléna era sconvolta e carponi su di lui, del tutto spenta della sua luce stregata e nuda, grassa e inerme sulle viscide lenzuola.

Le tre ancelle si guardarono spaventate e confuse, e si scambiarono un cenno complice adocchiando il ripostiglio. Si defilarono quatte quatte:

«Non ci provate», si infiammò lui.

Il furore e le energie gli ritornarono all’improvviso: gettò a terra la cicciona e diede addosso alle tre ruffiane. Non si picchiano le donne, ma alle streghe dàgli eccome; le schiantò a terra di calci e pugni finché non smisero di respirare, quasi.

Poi aprì la botola per il pozzo degli escrementi.

E ascoltò i loro singhiozzi di annegate nella merda.

A Donna Heléna non importò: era stregata dal proprio figlio; era malata di una perversa maternità che cementava chissà da quando tra le pareti di quella casa.

Abbracciò il giovane:

«Il mio bambino!»

Che in qualche modo, benché non-morto, nel mondo fuori si è fatto uomo.

Malqvist si preoccupò del fumo nero e dell’odore che salivano dal basso e che invasero la stanza. Lo scalone crepitava nella furia delle fiamme. Si strinse addosso gli stracci che gli restavano e guardò il fuoco che avanzava nell’anticamera. Si guardò attorno, imprecò:

«Che rogna!»

Gli sembrò tutto dorato, tutto argento, pietre, seta: doveva scegliere se arricchirsi o, più probabile, finire arrosto.

Mi resta un’ascia. Le mie mutande. Ho la pelle, e non è poco.

Da quella parte però non esco.

La finestra? Troppo in alto.

Guardò alla botola.

Pensò alla pozza.

La merda è soffice, se cadi bene.

Si avvolse di lenzuola inumidite di sangue fresco, si vuotò addosso la bacinella con l’acqua torbida di…

Non ci pensare.

«Andiamo, giovane!»

Il ragazzo gli sorrise. Ma non si sciolse da quell’amplesso; dall’amore di sua madre che gli piangeva abbracciata stretta. Lui gli vide spegnersi nelle liquide pupille una vita-ma-non-vita che non aveva vissuto mai. E odiò i necromanti una volta di più.

«Era solo una storia.»

«Non mi avresti creduto.»

«Non c’è un fratello.»

«Ne ho tanti, qui.»

«Tua madre è pazza.»

«È alla resa dei conti.»

Una trave del soffitto crollò arsa tra loro due.

«Addio, compagno», Malqvist lo salutò.

Scivolò fino i liquami in un vicolo su un lato del palazzo.

Quante volte ho pensato che la vita è una merda?!; rise forte: cazzo, è vero!

La città vociò di allarmi spaventata dall’incendio. Sono ridotto da fare schifo; ma non avrebbero badato a lui.

 

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