Rhapsody – Power of the dragonflame

Langue in me l’eco infranto

al truce sguardo dell’angelo cieco

rovina in me l’antica rima

nel cuor del cigno ferito e morente…”

Lamento Eroico

Giro di boa del secondo millennio: mentre le aspettative per un futuro ricco di progresso si mescolavano alle paure per le nuove minacce affacciatesi alla vita di tutti i giorni e, insieme alla prosecuzione di celebri saghe sia in musica sia al cinema, si riscontrava ovunque un pot-pourrì di stili artistici miscelati in maniera sempre più audace alla ricerca di novità, come si presentarono all’appuntamento i Rhapsody?

Inizialmente lo fecero in sordina, con un ep chiamato Rain of a Thousand Flames. Una sorta di mini album in cui la storia delle Algalord Chronicles proseguiva introducendo un nuovo e devastante antagonista: la Regina dei morti. Una strega al servizio del dio Kron, riportata in questo mondo attraverso portali demoniaci dal Re nero Akron grazie al potere della Spada di Smeraldo. A questo personaggio i Rhapsody dedicarono la canzone Queen of the dark Horizons, una lunga suite basata sulla rivisitazione della colonna sonora del film Phenomena di Dario Argento. Alla guida di un esercito di demoni, Akron e la Regina dei morti sbaragliano la flotta dei re e distruggono le città di Elnor e Thorald.

Dal punto di vista narrativo poco altro da segnalare, mentre invece per tutta la durata dell’ep saltano agli occhi, o meglio alle orecchie, le numerose parti narrate (quasi invasive nel loro minutaggio complessivo) e soprattutto la vera novità in casa Rhapsody: la lingua italiana!

In piena coerenza con l’approccio “andare avanti guardando alla tradizione” la band propose con coraggio l’utilizzo dell’italico idioma all’interno di canzoni metal sinfoniche e aggressive, facendo storcere all’inizio il naso di chi faticava ad accettare una lingua differente dall’inglese e creando un momentaneo effetto di straniamento e imbarazzo nel sentire parole immediatamente riconoscibili. Come ad esempio nel coro di Tears of a Dying Angel: “fuoco pianto sangue cancro/ sacra lotta dura cruda”.

Le premesse dell’ep Rain of a Thousand Flames, inclusa la struttura più complessa e articolata delle suite, prepararono il terreno a un vero pezzo da novanta nella discografia del gruppo: quel Power of the Dragonflame di cui parliamo oggi.

 

 

Cominciamo subito con le informazioni compilative di prammatica: con il quarto album si registra la fuoriuscita dalla band del bassista Alessandro Lotta, sostituito in studio dal produttore Sascha Paeth, mentre la bella copertina è di nuovo opera del bravo Marc Klinnert. Il libretto si presenta alquanto ricco, sia di immagini sia di testi; e in effetti stavolta c’è parecchio da leggere per seguire le vicende narrate dal saggio Aresius.

Collegandoci con la fine dell’album Dawn of Victory, ritroviamo il Guerriero di Ghiaccio guarito dalle ferite e a capo di un esercito delle terre del sud, un’armata improvvisata dal gran consiglio di Algalord per contrastare le forze di Akron. Dopo tre lune, le due armate, quella degli uomini e quella dei mostri, si scontrano e il guerriero combatte contro Dargor in persona. Quest’ultimo, sconfitto, supplica il nemico di ucciderlo ma il protagonista, consapevole che Dargor è solo un prodotto degli insegnamenti malvagi di Vankar, decide di risparmiargli la vita.

Il signore dell’ombra, tuttavia, cresciuto nell’errata convinzione che il Guerriero di Ghiaccio abbia massacrato la sua famiglia, approfitta dell’opportunità per colpire a tradimento l’avversario che perde conoscenza in un fiume di sangue.

La continuità con il disco precedente è evidente anche nei toni aggressivi delle composizioni, eseguite con un piglio estremamente energico e incattivito. In particolare i riff di chitarra di Turilli graffiano come non mai e il batterista Holzwarth picchia le pelli con furia assassina. Rimarchevole anche la produzione, pulitissima, ben bilanciata e incisiva.

La classica intro sinfonica, In Tenebris, stavolta ha un vero e proprio testo: si tratta dell’invocazione diabolica per l’apertura dei portali tra il mondo degli uomini e quello dei demoni. Il tripudio di cori culmina in un crescendo che esplode nella furente Kightrider of Doom, uno dei pezzi più metallici fin qui composti dai nostri e gradito ospite fisso nelle scalette dei concerti. Oltre alla velocità e al ritornello incalzante, la canzone si fa notare per una rapida alternanza di frasi in italiano integrate perfettamente con le strofe cantate in inglese. Si alza ufficialmente il sipario sul quarto e ultimo capitolo della Emerald Sword Saga.

Senza il tempo di rifiatare la chitarra si fa ancora più battagliera, e così i ritmi, nella successiva Power of the Dragonflame. La voce di Fabio diventa ruvida (appena un assaggio di quanto avverrà più avanti), la “pacca” della batteria è devastante ma il tutto si apre in un ritornello quanto mai luminoso e glorioso ad alleggerire i toni incattiviti del brano. Sotto agli altri strumenti l’onnipresente ed evocativo tappeto di tastiere di Staropoli, che in questa occasione si concede anche un bell’assolo per quanto di breve durata.

E si arriva al pezzo che rappresentò una mezza svolta nel repertorio dei Rhapsody e che dalla sua apparizione è diventato un must per ogni aficionado: The March of the Swordmaster. Il flauto di Manuel Staropoli introduce quella che in un primo momento sembra essere una ballata medievale ma che poi si trasforma in un mid tempo; anzi, nel mid tempo per antonomasia.

I Rhapsody svelano tutta la loro predilezione per una band fondamentale per l’epic metal quale i Manowar. Lo stile maggiormente battagliero e sporco di Fabio Lione al microfono avvicina di parecchio l’identità dei due gruppi (al punto che i Manowar, in particolare Joey DeMaio, giocheranno un ruolo importante, nel bene e nel male, nel futuro degli stessi Rhapsody), tanto che in certi momenti l’omaggio diventa davvero sfacciato. Nelle liriche viene raccontata la marcia dell’esercito del sud agli ordini del guerriero di ghiaccio, che con parole di incitamento prepara gli uomini ad affrontare gli orrori scaturiti dalle profondità degli abissi quando i portali sono stati aperti da Akron.

Ma la vera novità, il coup de theatre che lasciò spiazzati i fans fu When Demons Awake.

Di nuovo un preludio che sembra canonico, voci femminili e pianoforte che rimandano ai già ascoltati omaggi ai Goblin… poi all’improvviso un riff di chitarra distorto e particolarmente maligno. La velocità prende il sopravvento fino a che Lione irrompe con uno screaming selvaggio e sorprendente, risultando irriconoscibile e nondimeno efficacissimo. La battaglia tra i due eserciti esplode, in una tempesta di corpi mutilati e creature demoniache. La parte strumentale dopo il coro diventa una parentesi per dar modo ai musicisti di esibire la loro tecnica, a partire dai duelli tra tastiera e chitarra supportati da una sezione ritmica precisissima e non banale. Cambi di tempo e un altro coro cantato in italiano prima che la canzone ritorni sui binari feroci dell’inizio e si concluda con un ritornello in pieno stile Rhapsody. Una cavalcata che alzò l’asticella dell’aggressività del gruppo e ne allargò i confini musicali, come del resto capiterà altre volte nel corso di questo stesso album. L’esperimento risultò talmente riuscito che per anni i membri del gruppo ipotizzarono la realizzazione di un disco, provvisoriamente intitolato Rhapsody in Black, che avrebbe dovuto essere tutto su queste coordinate. Il progetto non vide mai la luce.

La seguente Agony is my Name prosegue all’incirca in linea con quanto sentito fin qui e non lascia tempo all’ascoltatore di rifiatare, a eccezione di brevi intermezzi di clavicembalo che rimandano al disco di debutto, Legendary Tales.

Tornando alla storia: dopo l’attacco vigliacco di Dargor, il protagonista si risveglia e scopre di essere ancora una volta prigioniero. Quel che è peggio, scopre che l’armata del sud è stata distrutta e che, come lui, altre migliaia di combattenti sono stati catturati. Ogni speranza di salvezza sembra ormai svanita. Difatti, nel giro di poco tempo, Algalord cade e la sua popolazione viene massacrata, lasciando solo un cumulo di sangue e pietra.

Ed è qui che i Rhapsody consegnano alla storia una delle loro intuizioni migliori e più riuscite, quella Lamento Eroico che, nel suo piccolo, è diventata un tributo alla canzone melodica italiana e all’identità metallica della penisola anche a livello internazionale.

La poliedricità di Fabio Lione non è mai stata così evidente come in questo disco; negli anni il cantante ha dato prova di aver voglia di migliorarsi continuamente e non si è mai risparmiato quanto a passione ed entusiasmo. Ne è prova la sua performance quasi operistica su Lamento Eroico in cui, con il suo inconfondibile vibrato, presta la sua voce al guerriero di ghiaccio, facendo eco ai suoi dolori, alle sue paure e al suo senso di amarezza per la sconfitta. Bellissimo anche l’arrangiamento, con le tastiere di Staropoli assolute protagoniste e i cori magniloquenti a supportare e chiudere uno dei momenti più alti della carriera dei Rhapsody.

Segue la relativamente più canonica Steelgods of the Last Apocalypse: veloce, sinfonica, con parecchi cambi di tempo, riesce a unire i vecchi Rhapsody, più melodici e ariosi, con i nuovi, più aggressivi e taglienti. Nel testo i soldati umani assistono impotenti alla distruzione di Algalord, mentre aspettano disperati il miracolo di cui parla l’antica profezia. Notevoli e piacevoli come sempre gli assoli di Turilli e Staropoli che dialogano e duellano tra loro con grande sinergia.

Stesso dicasi per The Pride of the Tyrant, che ripesca un pizzico dell’aria più “galvanizzante” dei primi album e in cui il protagonista cerca di far ragionare Dargor e di fargli abbandonare la via del male. Cori epici a gogo, ritmiche serrate e assoli a profusione.

A questo punto delle cronache siamo al culmine dell’orrore: il Guerriero di ghiaccio viene pubblicamente mutilato da Akron, il quale taglia all’eroe entrambe le gambe (ebbene sì, i toni della storia diventano sempre più crudi man mano che essa prosegue) prima di calarlo lentamente nelle paludi di Acheros per farlo mangiare vivo dai serpenti. Ma proprio quando tutto sembra perduto, in accordo con le profezie contenute nel libro magico, un evento improvviso colpisce come un fulmine a ciel sereno: Dargor, nauseato dalla crudeltà del suo signore e ancora scosso dal nobile gesto del guerriero, uccide a tradimento la Regina dei morti e si lancia contro Akron invocando il potere dei gargoyles.

Il Re nero, tuttavia, dopo un primo momento di smarrimento, reagisce e scaglia un demone contro Dargor, il quale si accascia ferito. Akron inveisce contro il suo ex pupillo, asserendo che si aspettava una sua ribellione in quanto egli non possiede il suo stesso sangue. In un ultimo slancio di energia Dargor si getta addosso al suo signore e lo fa cadere vicino all’agonizzante Guerriero di ghiaccio. L’eroe, con le sue ultime forze, ruba la Spada di Smeraldo ad Akron e lo colpisce al volto, dopodiché gli si aggrappa stretto e ordina a Dargor di calare la piattaforma di legno dove i due si trovano nelle torbide acque mortali sotto di loro. Grazie alla forza della Spada il guerriero riesce a tenere immobilizzato Akron e, mentre entrambi affondano per sempre nella palude, ringrazia Dargor per essersi redento.

Come nelle migliori tradizioni di dei ex machina, i gargoyles invocati dal signore dell’ombra arrivano in volo dalla lontana Hargor e combattono contro i demoni degli abissi. I soldati prigionieri, improvvisamente galvanizzati, riprendono le armi e lottano fino all’ultimo sangue contro gli invasori. Lo stesso Aresius sconfigge in un duello magico il perfido stregone Vankar. Infine l’esercito infernale viene battuto una volta per tutte. I gargoyles raccolgono tutti demoni rimasti e li portano in volo fino ai portali tra le due dimensioni e, dopo averli ributtati al di là, si trasformano nuovamente in guardiani di pietra, posti a sorveglianza eterna dei portali per impedire che possano aprirsi di nuovo.

Le ultime vicende della storia, in particolare l’arrivo dei gargoyles, sono narrate nella conclusiva suite Gargoyles, Angels of Darkness. L’ambiziosa composizione, di oltre diciannove minuti (!), è suddivisa in tre movimenti ben distinti.

Il primo, Angeli di Pietra Mistica, rappresenta il nucleo vero e proprio della canzone ed è introdotto da un caldo arpeggio di chitarra classica suonato per l’occasione da Sascha Paeth prima e Johannes Monno dopo. L’insolito preludio spezza la continua tensione accumulata con i brani precedenti e dà l’impressione di trovarsi nell’occhio del ciclone, in un momento di calma assoluta prima dell’assalto finale. Il gusto “spagnoleggiante” dell’intro viene sostituito con naturalezza da un altro mid tempo incisivo e drammatico, perfetto per raccontare durante le strofe il dilemma interiore di Dargor; la canzone sfocia poi nel ritornello con l’invocazione dei summenzionati gargoyles, dove fa nuovamente la sua comparsa l’idioma italico. La band si prende tutto il tempo necessario per affrontare il brano finale, concedendosi un lungo interludio strumentale che riprende l’intro ma, stavolta, affiancando alla chitarra lo splendido pianoforte di Staropoli, che danza con eleganza tra le note in una sorta di balletto classico/sudamericano. L’italiano appare un’ultima volta in un altro coro epicheggiante e Fabio si cimenta ancora col canto lirico per qualche breve passaggio, convincendo meno in questa occasione.

Si passa poi al secondo breve movimento, interamente strumentale, Warlords’ Last Challenge, questa volta tutto sulle spalle del virtuosismo chitarristico di Turilli.

Si arriva così velocemente al terzo movimento, …And the legend Ends…, dove ritorna la voce di Jay Lansford a offrire su un piatto d’argento la chiusura al sempre giganteggiante Fabio. In un lungo e pomposo (in senso buono) riepilogo, il cantante rievoca i capitoli fondamentali della storia attraverso i titoli delle canzoni chiave degli album passati. In una marcia trionfale riappare quasi a sorpresa il ritornello del primo movimento, impreziosito da un coro a canone e da una voce femminile solista che richiama nuovamente Phenomena di Dario Argento. Jay Lansford si inserisce per raccontare gli ultimi atti della storia, finché la sua voce viene affiancata solo dal suono del vento, per poi essere sostituita da una ripresa del tema iniziale In Tenebris, in una chiusura circolare che simboleggia l’attraversamento del portale da parte dei demoni e lascia una sensazione tutt’altro che rassicurante in merito ai possibili sviluppi futuri del mondo delle Enchanted Lands.

In conclusione, Aresius si congeda dagli ascoltatori commemorando la memoria del suo defunto amico, il guerriero delle terre del nord, e chiedendosi cosa ne sia stato di Dargor, sparito dopo la fine della battaglia decisiva. La città di Algalord verrà presto ricostruita, mentre la Emerald Sword Saga giunge alla sua conclusione, una storia tra le migliaia di storie che raccontano la battaglia tra le forze cosmiche del bene e del male, in una tra le migliaia di realtà esistenti (possibile, forse inconsapevole, citazione di Moorcock?).

Con questa quarta fatica i Rhapsody dimostrarono di essere in grado di andare oltre a quanto di buono già avevano fatto e consegnarono al pubblico uno dei capitoli più riusciti della loro discografia, forse il più potente in assoluto quanto a prova di forza “muscolare” e sicuramente uno dei più ricchi e sorprendenti.

He thus realized so not too late to be really far from his king

far from his eternal blood thirst, too far to call them right for him

Rise… fly high and steal his soul… angels of stone…”

E così lui si rese conto, non troppo tardi, di essere davvero lontano dal suo re

lontano dalla sua eterna sete di sangue, troppo lontano per considerarli giusti per sé

Sorgete… volate alti e rubate la sua anima… angeli di pietra…”

Gargoyles, Angels of Darkness

articolo di Alessandro Zurla

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