I racconti di Satrampa Zeiros: “Kasumi della luna di seta” di Samuele Baricchi e Caterina FranciosI

Kasumi della luna di Seta

 

Kasumi della Luna di Seta raramente sorrideva. Lo faceva solo quand’era sola, ed era notte, e il silenzio del mondo si tramutava in storie raccontate dal firmamento, narrate dal cielo stellato, limpido, leggero, lontano.

Lontano il cielo e lontana la sua vita d’un tempo. Ma del resto come un fiume l’esistenza degli uomini mortali muta e si allontana sempre di più dalla sua fonte; quello che dobbiamo fare, le insegnò un samurai vagabondo, è ricordare che veniamo dalla medesima sorgente. E siamo parte di un cielo che non muore mai.

Se le stelle si spengono, saremmo immersi nel buio per sempre?”

Suo padre le sorrideva, mettendole una mano sulla testa, accarezzandole i capelli.

C’è la Luna, la Luna non può spegnersi, è figlia di una dea.”

Kasumi della Luna di Seta guardò il suo braccio destro, sopra il quale, a fuoco, vi era marchiato il simbolo del clan Yashitake. Una falce di Luna. La bruciatura aveva assunto col tempo un colore più chiaro rispetto alla carnagione di Kasumi e la parte sana della sua pelle sembrava emulare la parte più buia della Luna, quando è in fase crescente.

Kasumi non aveva un uomo, anche se spesso aveva approfittato della stupidità e ingenuità di alcuni di loro per ricavare un letto dove dormire e, quindi, una casa dove servire e lavorare per qualche tempo. Ma non era nella natura di Kasumi servire.

Aveva studiato l’arte della musica, della recitazione e della danza per intrattenere un pubblico maschile e spesso alticcio che, talvolta, la confondeva con una vera e propria prostituta, chiedendole una compagnia e una prestazione più intima rispetto allo spettacolo di koto, canto e recitazione. Con chi le andava, Kasumi acconsentiva.

Ma anche quella vita le andava stretta, e per questo si era recata ancora più a est.

Ora si barcamenava tra piccoli furti e qualche moneta racimolata suonando il koto all’angolo della strada degli ubriaconi, nel quartiere delle taverne racimolata suonando il koto nel quartiere delle taverne, in mezzo agli ubriaconi;

Quando pioveva tornava a casa sporca di fango. Per questo adorava i giorni sereni e, sul far della sera, guardava il tramonto trasformare il cielo in un tripudio di fiamme destinate ad estinguersi per schiudere le porte della sera e della notte più profonda.

Kasumi finì il bicchiere di liquore di riso. Si raccolse i capelli. Si mise una maschera da volpe. Gli abiti neri come il buio e le ombre, tipici del clan Yashitake.

I guerrieri l’avevano addestrata, dopo averla trovata sulle sponde di un fiume; l’avevano salvata, una Kasumi poco più che bambina stava morendo dissanguata, aggredita da un brigante, forse, o da qualcuno che aveva intenzione di esercitare violenza su sul suo corpo acerbo e innocente. Ma lei si era difesa, anche se il pugnale del nemico le era affondato in una gamba, facendole perdere moltissimo sangue. L’avevano cresciuta: colui che divenne il suo maestro, e che diventò poi il capo del clan, la soccorse, si occupò di lei, trattandola come uno dei suoi tanti figli adottivi e allievi; poi la rispedì nel mondo, con il compito di porre a compimento dei contratti. Si trattava di persone ben specifiche da uccidere. Erano per lo più guerrieri o signorotti scomodi a qualche altro concorrente al potere e al dominio sulle terre di Harekami, o Eastvalia come anche erano chiamate, o più semplicemente lande dell’immenso Est. Raramente si trattava di geisha che volevano morto il proprio mecenate, o addirittura di samurai che volevano morto il proprio daimyo.

Kasumi non faceva mai molte domande, ma quel particolare contratto era parecchio insolito. Alla luce della lanterna, scorse di nuovo la pergamena in codice. Watanabe Izuki era il nome della persona che doveva uccidere, un samurai errante, un ronin, che dopo svariate imprese e avventure si era fatto una certa nomea avvolta dalla leggenda; non era chiaro come, forse grazie a una sua pregressa amicizia con lo shogun, o addirittura qualche lontana parentela, Watanabe era diventato daimyo, signore feudale, padrone di un piccolo castello immerso in una remota zona boschiva collinare che, spingendosi ancora più a oriente, si tramutava in paesaggio montuoso.

E ora uno dei suoi samurai stava pagando una cifra ingente al clan Yashitake per farlo fuori. Ma questi non erano affari di Kasumi.

La donna finì di legare dietro la schiena l’arco, le frecce, poi diede uno sguardo alla sua naginata. Troppo ingombrante da portare con sé per essere veloce come avrebbe voluto, eppure una sensazione strana la stava accompagnando dall’inizio di quella sera. Appena il Sole era tramontato e lei aveva rotto il sigillo della lettera con l’incarico da portare a termine, il contratto stesso le era parso qualcosa d’infausto. Si trattava di un tradimento, sotto mentite spoglie. Una delle cose più ignobili a cui potesse pensare un samurai, specie se il bersaglio era proprio un altro samurai. Avrebbe dovuto sfidarlo a combattere, non attaccarlo alle spalle, senza onore. Nessun samurai si sarebbe dovuto ribellare contro il suo daimyo: fra i due si creava infatti uno dei più potenti e onorevoli giuramenti di fedeltà esistenti al mondo, secondo il quale un guerriero si dichiarava disposto a dare la vita per la salvaguardia del suo padrone. Anche nel caso in cui si fosse rivoltato contro il suo daimyo, un samurai degno di questo nome l’avrebbe combattuto di persona e non fatto uccidere da qualcun altro, pagandolo, per giunta. L’idea di stare per compiere un incarico assegnato in origine da un essere così spregevole come sicuramente doveva essere quel samurai traditore la metteva a disagio, le dava la sensazione che le cose non sarebbero andate come al solito. Non sarebbe bastata una freccia scagliata dal folto delle fronde di una foresta, tra le ombre più cupe, dove nemmeno la luce della Luna poteva rivelare la mano dell’assassino. Kasumi iniziava a essere dubbiosa su chi in effetti fosse più giusto uccidere, se il daimyo o il samurai che lo stava tradendo. Kasumi trattenne un sorriso. Forse sarebbe stato meglio dire che non le importava più di tanto la differenza fra giusto e sbagliato; piuttosto, si stava interrogando su cosa le andasse realmente di fare. Ma, di nuovo, tutto ciò non aveva importanza. Per il rispetto che provava verso il clan Yashitake, Kasumi decise di mettere fine a quei pensieri; all’ultimo istante, però, una strana sensazione di urgenza la spinse a prendere con sé anche la naginata. Se la assicurò addosso e saltò con un lungo balzo sopra il tetto dell’abitazione di fronte alla finestra della sua stanza. Respirò a fondo, godendosi i profumi della notte.

Per raggiungere il castello del daimyo Watanabe Izuki bisognava seguire il tratto del fiume Chishin che passava sotto il ponte Ghin mizu no hashi. Le acque erano particolarmente placide e tranquille in quel punto e la Luna si rifletteva argentea sulla superficie scura. I passi di Kasumi risuonavano leggeri e attutiti sul terreno, la sua unica compagnia erano il gracidio sporadico delle rane e il frinire dei grilli. La donna si teneva discosta dalla via principale, muovendosi tra le ombre come figlia della Notte stessa, la maschera a forma di volpe che le celava i lineamenti del viso, anche se non c’era anima viva sulla strada o tra gli alberi del bosco attorno a lei. Ciò si rivelava un vantaggio fondamentale: si sarebbe potuta muovere più velocemente e più liberamente, accorciando in maniera considerevole il tempo necessario a raggiungere il suo obiettivo. Sempre che nessun ostacolo si fosse presentato sul suo percorso.

Kasumi giunse al ponte Ghin mizu no hashi e da dietro gli alberi controllò che la strada fosse sgombra. Quando ritenne di essere al sicuro, uscì allo scoperto e lasciò che la Luna la bagnasse di argento. Attraversò rapida il fiume e si ritrovò dall’altro lato della sponda. Fu allora che colse un movimento alle sue spalle e, come dotata di una volontà propria, la naginata scivolò immediatamente tra le sue mani, con un baluginio letale. Una figura vestita di bianco e dai lunghi capelli neri era appena emersa dalle acque del fiume, muovendosi piano e a testa bassa. Gocce scure stillavano dai bordi del suo abito e dalle sue membra e creavano una scia melmosa sotto ai suoi piedi scalzi. Alghe e foglie putrescenti le coprivano il capo e le spalle ed emanavano un odore di morte. Kasumi rinforzò la presa sulla naginata e indietreggiò di qualche passo, rintanandosi tra le ombre. La figura avanzò a scatti fino al centro della strada, poi si immobilizzò, il volto sempre coperto dal manto di capelli neri, lunghi fino alla vita. Kasumi si domandò chi fosse… o meglio, cosa fosse. Un essere umano? Oppure uno spirito, uno yokai? Conosceva fin troppo bene le leggende della sua terra per non sapere cosa si celasse oltre il velo che ammantava la realtà. Kasumi se ne restò in attesa dietro l’albero, la presa salda sulla sua lama di morte, in attesa di qualche tipo reazione da parte della sconosciuta. La sua pazienza venne premiata: dopo un istante che alla guerriera parve dilatarsi all’infinito, la donna sollevò la testa. I capelli le si scostarono dal viso e Kasumi poté scorgere il suo pallore cinereo, di un bianco tendente al bluastro: il colore dei morti. La naginata vibrò, come in risposta a un richiamo ancestrale.

Pazienza, mia fedele compagna.

Come se avesse udito quello silenzioso scambio di battute tra lama e guerriera, la donna – lo yokai – si guardò attorno. Il suo collo si girava a scatti, scrutando nelle profondità della notte. Kasumi non riusciva a capire di che spirito inquieto si trattasse: numerose sono infatti le motivazioni per cui il nostro essere fatica a lasciare i dolori del mondo terreno dopo la dipartita. Ma quando la bocca dello yokai si aprì a dismisura, in maniera innaturale, rivelando un buco nero senza fine, e una risata agghiacciante risuonò dall’acqua al legno al cielo, Kasumi capì di trovarsi di fronte a una nure-onago, gli spiriti di donne sospese tra il mondo dei vivi e quello dei morti, perennemente legate all’acqua. La loro risata era la loro arma: terrificante, eppure ammaliante. E infatti, non appena essa raggiunse le sue orecchie, Kasumi cominciò a percepire un solletico in fondo alla gola. La magia della nure-onago cominciava a fare effetto. Prima che la risata della donna potesse ipnotizzarla, Kasumi si ritirò ancora di più fra le ombre del bosco e si allontanò, tenendosi bassa sotto le fronde verdi.

Ma lo yokai si accorse di lei.

Nell’esatto momento in cui Kasumi mosse il primo passo all’indietro, la nure-onago voltò il capo e il suo sguardo uncinò quello della guerriera. Si mosse senza preavviso alcuno e puntò dritto verso il limitare del bosco, la bocca ancora spalancata in quell’orrendo sorriso distorto. Il puzzo che emanava era tremendo.

Ti stavo aspettando,” sibilò lo yokai. “So dove stai andando.”

Kasumi si alzò, rivelandosi e stringendo la naginata fino a farsi diventare le nocche bianche. Si preparò all’attacco, spostandosi in avanti quel tanto che le bastava per poter muovere l’arma.

Non temere, piccola volpe,” continuò lo spirito. “Non voglio farti del male. Ho un messaggio per te.”

Chi ti manda?” La voce di Kasumi risuonò nell’oscurità. “Chi mi segue?”

La nure-onago ridacchiò.

Ti stanno ingannando.”

Chi?” soffiò Kasumi puntandole addosso la punta della naginata.

La missione che ti è stata assegnata è un inganno. Il mandante dell’omicidio non è il samurai che tu credi.”

Kasumi uscì dal fogliame e attaccò. La lama emise un sibilo minaccioso mentre la naginata descriveva un arco e affondava all’altezza della spalla dello spirito. Ma la nure-onago fu più veloce: scomparve e si materializzò a una manciata di passi di distanza.

Piccola volpe, ascoltami…”

Ma Kasumi non ascoltò. Caricò ancora lo spirito con un ringhio selvaggio e, di nuovo, l’arma si trovò a tagliare solo aria. Lo yokai era troppo veloce per i suoi riflessi umani, ma Kasumi era figlia del clan Yashitake e si sarebbe battuta fino allo sfinimento. Fino alla morte. Arma e guerriera si esibirono nella loro danza, con movimenti armonici dettati da anni e anni di severo addestramento, senza mai esitare, senza mai avere timore. Fu tutto inutile: lo yokai sembrava prevedere ogni suo colpo. Solo quando fu senza fiato e tutti i muscoli del corpo cominciarono a pulsare in maniera dolorosa, Kasumi si fermò, il sudore che le gocciolava dal mento per inzuppare la terra ai suoi piedi.

Ora che ti sei sfogata, sei finalmente pronta ad ascoltare ciò che ho da dirti, piccola volpe?”

Parla.” Kasumi raddrizzò la schiena, portò indietro la gamba destra e puntò di nuovo la punta della lama alla gola dello spirito. “Ma ti giuro sul mio onore e su tutto ciò che ho di più caro che se tenti di nuovo di irretirmi ti distruggerò.”

La nure-onago fece una smorfia divertita.

Mi hanno mandata ad avvisarti.”

Chi?”

Le voci del mare. Le acque che si mescolano le une alle altre.” Lo spirito indicò il Chishin con un gesto della mano coperta dal kimono bianco. “Non è una buona idea portare a termine la missione che ti è stata assegnata. Dietro le parole di quel contratto si cela un inganno.”

Quale?” domandò Kasumi.

Lo yokai scosse il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli.

Tu non vuoi sapere. Non sei ancora pronta per sapere. Ma non recarti al castello del daimyo Watanabe Izuki.”

Come conosci il suo nome?”

Ucciderai un altro innocente,” continuò lo spirito, ignorando la domanda di Kasumi. “Già troppo sangue è stato versato. Torna a casa.”

E non onorare il contratto?”

La nure-onago la guardò con espressione indecifrabile.

Non sai cosa innescherai se uccidi Watanabe Izuki.”

E tu dimmelo.”

Non è degli esseri umani venire a conoscenza dei segreti divini. Se vuoi aver salva la vita, se vuoi salvare la vita di tutti coloro a cui tieni, torna indietro.”

Mai.”

La nure-onago sollevò le braccia, rendendo il kimono simile a un sudario.

E allora così sia. Che i kami possano rendere più lieve la tua pena. Io sto già scontando la mia.”

E ciò detto si dissolse. Kasumi fissò il punto in cui lo yokai era appena scomparso per un lungo istante, poi si riprese. La sua mente tornò a focalizzare l’obiettivo. Rinfoderò la naginata e si rimise in marcia.

Watanabe Izuki guardava le colline attorno a sé con fare pensieroso, fumando lentamente dalla sua pipa. Il tabacco spargeva il suo odore aromatico per la stanza.

Solo, nella sala più alta della torre principale del castello, il daimyo spostò lentamente lo sguardo sul Sole. Era stupendo come esso si lasciasse ammirare solamente al tramonto, solo quando il giorno finisce e si stanno per palesare le ombre della notte.

Watanabe adorava la notte. Poteva spogliarsi degli abiti da daimyo e tornare a scrivere brevi poesie riguardanti la sua precedente vita da samurai. Non era sempre stato un signore feudale, ovviamente: il precedente shogun gli doveva la vita e le la sua ricompensa era stata il dovere di proteggere un’intera regione di contadini e boscaioli.

In gioventù aveva compiuto nefandezze inenarrabili, e ripensare all’irruenza di quei tempi lo faceva soffrire. Allo stesso tempo però era stato proprio il fuoco non domato del suo animo a condurlo a compiere grandi imprese.

Più volte gli era stato ripetuto da Satoshi, il suo servo più anziano e fedele, che si trattava di giorni di guerra e durante quel tipo di giorni nefasti gli uomini – ogni uomo, nessuno escluso – si lascia andare ad azioni che a guerra finita possono essere giudicate riprovevoli. Watanabe doveva pertanto smetterla di pensare al passato e dedicarsi alla protezione delle sue terre. Per quanto, comunque, si trattasse di una zona prevalentemente montuosa e abbastanza povera e non vi era nulla che facesse gola ai predoni che scorrazzavano per le terre dell’Est, né che potesse attirare belligeranti signori feudali assetati di fama, gloria e nuove ricchezze.

Watanabe comprendeva, anche grazie ai saggi consigli del vecchio Satoshi, che quelli erano beni intangibili, passeggeri, invisibili, per quanto all’apparenza sembrassero duraturi ed eterni. Satoshi aveva insegnato a Watanabe qualche rudimento filosofico su come andare oltre l’apparenza del mondo delle percezioni del corpo e della mente, cercando di fargli comprendere come anche i suoi stessi sensi potevano essere ingannati e come la sapienza risiedesse all’interno di un essere, non all’esterno, non nelle ricchezze o nella fama, non nei possedimenti o nella quantità di persone che ricordassero le sue imprese e i suoi combattimenti. Per quanto in ogni caso il corpo fosse da curare tanto quanto la mente e la mente fosse da tenere in considerazione così quanto l’essere invisibile che è presente in ognuno di noi, l’essenza, lo spirito della Terra.

Watanabe svuotò la pipa, piena di ormai soltanto cenere e si mise a meditare secondo la pratica dello za zen, si sedette con il piede destro sulla coscia sinistra, e il sinistro sulla destra, un gesto antichissimo.

Si concentrò inizialmente sul suo stesso respiro. Soltanto su di esso.

Il mondo davanti a lui perse ogni consistenza e iniziò ad acquisirne di nuova solamente attraverso un altro tipo di sguardo, più profondo. Egli non sapeva dire con certezza se quello sguardo fosse più o meno autentico rispetto a quello esteriore, però poteva affermare che riusciva ugualmente a vedersi le mani, le braccia, le gambe, distinguere i particolari della stanza, gli arazzi ornati da tigri, dragoni, serpenti e creature mitologiche a metà tra il nostro mondo e un altro, non troppo distante, che talvolta si rivelava a lui con giochi di luci e ombre, figure che saettavano veloci come fulmini durante una tempesta, o nubi d’inconsistenza, considerazioni provenienti da una realtà labile, dalla vacuità. Nel profondo della meditazione, quando scendeva nei recessi più interiori e lontani dal cosciente sé, appena raggiunto un certo stato quasi ipnotico, poteva solo percepire. Era una percezione immediata. Era qualcosa di chiaro, di palese, di certo, come lasciarsi inondare dai primi raggi del Sole del mattino. La certezza dell’alba, la chiarezza del vento, l’inconsistenza dei pensieri, lo scorrere delle infinite esistenze e del loro continuo mistero. Poteva quasi sentire danzare gli spettri attorno a lui, come attorno ad un falò gigantesco, qualcosa di ancestrale, di tribale, di antico. Poi giunse verso il nulla. Il silenzio. Il ritmo dei grilli sul far della sera e il ballo delle lucciole che sontuose si muovevano con la sapienza di chi non ha bisogno di pensare per raggiungere la saggezza, ma di chi semplicemente danza sull’orlo del niente, riversando bellezza e luce nel cuore di un uomo o di una donna che, sola, guarda gli astri sempiterni sopra di sé, e percepisce la meraviglia dell’essere nulla, rispetto all’immensità del cielo notturno.

Fu quando le prime stelle apparvero nel cielo che una freccia gli sfiorò una ciocca di capelli sulla destra del volto, andando a conficcarsi con un sibilo in un punto imprecisato alle sue spalle.

Watanabe sorrise alle imprecazioni lontane dell’arciere. Aveva perfettamente avvertito l’arrivo del dardo, non sapeva ancora di preciso da dove era stato scagliato, ma il sibilo nell’aria della punta di ferro aveva attirato la sua attenzione. Essa fendeva velocemente la brezza leggera, causando un ben percettibile strappo nell’essenza della quiete della sera. Dal profondo del suo animo, Watanabe aveva percepito un fragore simile a quello di uno sciame di api o di cicale che cresce a dismisura, diventando roboante come un tuono.

Il ferro della punta del dardo non lo colpì, perché Watanabe si spostò leggermente verso sinistra. Fu un movimento quasi impercettibile.

La seconda freccia venne scagliata senza alcun dubbio da est, dalla montagna, dalla fitta boscaglia già immersa nelle profondità notturne, mentre un accenno di luce ancora arrivava dalle vallate sotto lo sguardo del daimyo, rivolto a occidente, rivolto verso il tramonto.

Watanabe estrasse la wakizashi e si alzò in piedi di scatto, deviando il dardo con un fendente secco della lama.

La sua fidata katana Tigre Cremisi era all’interno del suo fodero, posato in fondo alla sala su un tavolo lungo e basso. Mentre si alzava per raggiungerla, si domandò come facesse un arciere a trovarsi su di un punto più in alto del suo palazzo: la torre in cui si trovavano le sue stanze superava di molto la cima degli alberi. E a parte la foresta e le colline, non c’era nulla che circondasse il palazzo del daimyo. Doveva trattarsi di un arciere molto esperto, un sicario.

Era molto strano il fatto che le frecce arrivassero da est, ovvero da dietro le spalle Watanabe. Era come se compissero una parabola strana, come se l’arciere riuscisse a governare il suo dardo così bene da potergli far cambiare repentinamente direzione.

Per quanto potesse essere un’artista nella tecnica del tiro con l’arco, vi erano cose che le frecce e gli archi proprio per loro natura non potevano eseguire.

A quel punto, nella mente di Watanabe sorse un dubbio. Se i dardi compivano traiettorie innaturali, allora l’arciere stesso era di una natura differente dall’ambiente a lui circostante, oppure aveva una padronanza tale dell’elemento dell’aria da piegarla alla sua volontà.

Non ci fu molto tempo per pensare, una terza freccia stava arrivando per colpirgli una gamba. Watanabe con un balzo la evitò e la schiacciò sotto al piede, spezzandola a metà.

I dardi scagliati raddoppiarono. Ora l’arciere li lanciava a due a due.

Watanabe riuscì, prima abbassandosi e poi alzandosi, a tagliare di netto la seconda coppia di frecce con la sua wakizashi, la spada corta.

Poi, finalmente, con uno scatto riuscì a spostarsi in fondo alla sala e a prendere Tigre Cremisi, evitando un’altra coppia di dardi.

Si lanciò dal balcone della sua stanza da letto, indossando solo la sua consueta veste rossa, non pensò nemmeno a portare con sé un equipaggiamento ulteriore per difendersi, un pezzo di corazza, o un arco. Avrebbe stanato l’arciere solo con katana e wakizashi, spada lunga e spada corta, correndo tra i sussurri dei boschi immersi nella notte.

Dopo aver rinfoderato le spade all’altezza della cintola, con un lungo balzo raggiunse la cima di un albero e ci si appese con braccia e gambe, stringendolo forte a sé.

Si lasciò cadere fino quasi a terra, per poi appendersi ad un ramo. Rimase per un momento a scrutare la semi oscurità, le luci del castello non erano troppo distanti.

Tutto il palazzo del daimyo era circondato da alberi e da una fitta vegetazione. Un ruscello separava il bosco dall’erba più bassa e curata e più a valle si trovavano le risaie. Ma lì, dove Watanabe scrutava con attenzione il buio attorno a sé, vi erano solamente fitti e oscuri boschi.

L’assassino lo attendeva da qualche parte nella notte. Una falce di luna appena accennata allietava la solitudine delle costellazioni nel cielo. Essa dava un senso d’immensità a ogni cosa.

Si lasciò cadere a terra: senza emettere un suono i suoi piedi toccarono il suolo.

Watanabe guardò verso il castello con la flebile speranza che i suoi servitori avessero udito il frastuono nelle sue stanze e, trovati e i resti delle frecce, avessero dato l’allarme. Dentro di sé però sapeva bene che il suo avversario non poteva essere sconfitto da comuni samurai.

Occorreva qualcuno che già aveva avuto a che fare con creature che stanno al di là del mondo degli uomini, mezzi demoni che si stagliano sul promontorio del nulla.

Kasumi aveva raggiunto il palazzo del daimyo Watanabe Izuki. Annidato tra le colline e con i tetti e i giardini illuminati dalle luce della luna, quel luogo era in grado di trasmettere pace e serenità a chiunque vi si avvicinasse. Persino a un’assassina come lei. Kasumi si avvicinò dunque in punta di piedi, ombra tra le ombre della foresta, con il rispetto che doveva ai grandi kami che avevano deciso di regalare agli uomini quelle meraviglie terrene. Si tenne lontana dalle porte principali e scivolò lungo le mura alla ricerca di un punto da cui poter accedere al palazzo. La notte era stranamente silenziosa. Solo il frinire dei grilli e i richiami dei rapaci notturni rompevano il silenzio.

Kasumi si accigliò. La sua mano corse da sola fino al petto, ai legacci che le assicuravano le armi alla schiena. Non percepiva presenza di anima viva oltre quelle mura: dov’erano le guardie? Kasumi socchiuse le palpebre e estese i propri sensi al massimo, oltre la pietra che la separava dal palazzo e dalla sua vittima, ma non avvertì nulla, se non il vento tra i fili di erba e il gracidare delle rane vicino all’acqua. La ragazza si fermò. Riaprì gli occhi. Guardò verso l’alto e prese il rampino dalla piccola sacca agganciata ai fianchi. Con un lancio preciso e ben caricato, Kasumi fece aggrappare il gancio di metallo alla cima del muro e lo scalò, rapida come una lucertola. Arrivata in alto, si acquattò di nuovo tra le ombre e scrutò l’oscurità. I suoi sensi non l’avevano ingannata: i giardini del palazzo erano deserti. La situazione era sempre più strana. Possibile che qualcuno avesse avvertito Watanabe Izuki del suo arrivo? Le parole della nure-onago risuonarono minacciose nella sua mente, ma Kasumi si affrettò a zittirle. Scese dal muro e ritirò il rampino. Senza esitare, si diresse verso la torre ovest, verso le stanze che le erano state indicate come quelle in cui il daimyo era solito risiedere.

I suoi passi volavano leggeri sul terreno e, in un battito di ciglia, Kasumi si ritrovò a studiare il perimetro delle stanze di Izuki. Non riusciva a scorgere alcuna luce all’interno. Se si fosse trovata in circostanze normali, avrebbe pensato che la sua vittima fosse addormentata. Ma non c’era nulla di normale quella notte. Perciò Kasumi imbracciò l’arco e si nascose dietro la massiccia statua di leone, tenendo sotto tiro il suo obiettivo.

Di là, verso la porta nord!”

Presto, andiamo!”

Kasumi trasalì e si accucciò ai piedi del leone. Le voci lontane delle guardie l’avevano colta alla sprovvista, assorbita com’era dai suoi pensieri. Sbirciò oltre l’angolo di pietra e vide un manipolo di uomini correre lungo il prato, nella direzione opposta a quella in cui si trovava lei. Era stata una sciocca a lasciarsi distrarre così facilmente. Cosa avrebbe fatto se le guardie l’avessero vista e avessero lanciato l’allarme?

Che stupida…” Le parole fuggirono da sole dalle labbra di Kasumi.

Sono d’accordo,” rispose una voce bassa e profonda alle sue spalle.

La giovane si alzò e si voltò in un unico, fluido movimento. Tese la corda dell’arco e puntò la freccia in direzione dell’ombra scura che era appena comparsa alle sue spalle, ma il suo attacco morì sul nascere. Kasumi riuscì a scorgere solo uno scintillio e l’arco le cadde dalle mani, tranciato di netto in due pezzi. La punta della katana di un uomo vestito di cremisi le premeva contro l’incavo delicato della gola.

Chi sei?” domandò l’uomo. “Chi ti manda?”

Per tutta risposta, Kasumi prese la naginata e allontanò la spada dell’uomo da sé.

Non porterai il mio nome con te nella terra dei morti.”

Approfittando dell’esitazione dell’uomo, Kasumi si portò in posizione e lo attaccò. La lama inastata sibilò nell’oscurità ed emise un gemito acuto quando incontrò la katana avversaria. Il suo colpo venne deviato, ma Kasumi non si lasciò intimorire e ingaggiò un combattimento senza esclusione di colpi. L’uomo si unì alla sua danza di morte: ad ogni suo tentativo di avvicinamento, Kasumi si allontanava e tornava a tenerlo a distanza, così da non perdere il vantaggio acquisito. Il suo avversario era più alto e massiccio di lei e la sovrastava di tutta la testa. Per Kasumi questo non rappresentava affatto un problema, aveva sfidato e ucciso obiettivi molto più impegnativi. Ma perché incorrere in inutili rischi?

Sciocca,” le disse l’uomo quando le loro spade si incrociarono ancora e per un istante i loro visi furono a poca distanza l’uno dall’altro. “Credi forse che ai tuoi simili serva il tuo nome per sapere chi sei?”

Kasumi fissò i propri occhi in quelli nerissimi dell’uomo, mentre la brezza della sera le sollevava i capelli e il kimono.

I miei simili?”

Le tue magie non avranno effetto su di me, spirito maligno!”

L’uomo la spinse all’indietro e Kasumi puntò i piedi a terra per non cadere. A gambe divaricate, allungò la naginata dinanzi a sé e parlò.

Non so chi tu creda di essere o cosa tu pensi di sapere di me, ma ciò che dici non ha senso. Io non sono un spirito.”

E allora uno spirito deve averti posseduto a tua insaputa,” replicò l’uomo, il volto seminascosto dalla lama scintillante della spada. “Ma quel tuo arco è ora inutilizzabile e presto lo sarà anche la tua naginata.”

Spirito?” ripeté Kasumi. “Posseduta? Devi aver esagerato con il sake prima di coricarti. Se fossi nel tuo superiore ti avrei già esiliato per i tuoi vaneggiamenti da ubriaco.”

L’uomo ghignò.

I tuoi inganni su di me non funzionano, te l’ho già detto. E, ad ogni modo, dubito che chiunque oserebbe punirmi.”

Per quale motivo?” soffiò Kasumi.

Credi di prendermi in giro?” L’uomo inarcò appena un sopracciglio. “So benissimo che conosci la mia identità, o non mi avresti attaccato.”

Ti ho attaccato perché sei solo di intralcio al mio obiettivo.”

Menzogne. Sono Watanabe Izuki e tu sei qui per uccidermi.”

Kasumi rischiò di farsi scivolare la naginata dalle mani. Quell’uomo era il suo obiettivo? Non le era stato affatto descritto così alla consegna del contratto. Lo immaginava più vecchio e meno… piacente.

Non è possibile… Tu…”

Ma un fischio rasente al suo orecchio destro la interruppe. D’istinto, Kasumi e Watanabe si lanciarono a terra, per evitare il dardo che era stato appena scoccato nella loro direzione.

Cos’è stato?”

Una freccia,” rispose Kasumi con il naso premuto sull’erba.

Watanabe esitò e la guardò confuso.

Allora non sei tu… Lo yokai…”

No, io sono l’assassina che vuole la tua testa. Ma a quanto pare qualcuno ora vuole anche la mia, di testa.”

Altri dardi sibilarono sopra di loro.

Spostiamoci di qui, presto.”

Watanabe afferrò Kasumi per un braccio e la trascinò verso il boschetto al limitare del giardino. Si ripararono dietro gli alberi di ciliegio, ancora spogli in quel periodo dell’anno, e si guardarono attorno.

Cosa sta succedendo?” ansimò Kasumi.

Qualcuno sta tentando di uccidermi,” rispose Watanabe con la mascella serrata. “E non solo tu. Sono stato attaccato stanotte, mentre mi trovavo nelle mie stanze. Così sono uscito a cercare il sicario.”

Non sei certo il daimyo che mi aspettavo,” commentò Kasumi. “Di norma, saresti dovuto rimanere al sicuro all’interno del palazzo, con almeno dieci guardie fuori dalla tua porta.”

Difficile stabilire con certezza cosa sia sicuro e cosa no,” fu l’affilata risposta di Watanabe. “E, no: io non sono un daimyo che se ne resta in disparte mentre gli altri muoiono al posto suo.”

Ad ogni modo, un assassino lo hai trovato ugualmente,” sorrise Kasumi.

I kami possiedono un’ironia sottile, talvolta,” rispose Watanabe. “Ma ora, silenzio. Ho sentito muoversi qualcosa fra i rami.”

I due tacquero e sollevarono gli occhi sui ciliegi spogli. La luce della luna colava sulle cortecce, dando agli alberi un aspetto spettrale. E quando una nube passeggera sostò davanti all’astro in cielo, la Natura si animò. Una folata di vento si alzò dal nulla e travolse i ciliegi, scuotendoli fino alle radici, e una pioggia di dardi appuntiti si abbatté su Kasumi e Watanabe.

Corri!”

Watanabe afferrò di nuovo Kasumi per un braccio e la trascinò via mentre listelli scuri si infilzavano a terra, proprio nel punto in cui fino a un momento prima si trovavano loro.

Ma cosa succede?” gridò Kasumi. “Ci sono spettri ovunque da queste parti?”

Watanabe non rispose. La costrinse a correre lontano, verso la porta nord del palazzo. Si fermò solo quando raggiunse una grossa pietra situata al centro di un piccolo spiazzo tra gli alberi.

Il velo tra il nostro mondo e quello degli spiriti è più sottile di quanto immagini, giovane assassina,” disse Watanabe. “E forse anche tu un giorno ti renderai conto di quanto certi spiriti possano essere maligni, subdoli e ingannevoli, soprattutto quando sono governati dagli esseri umani.”

Kasumi lo guardò senza fiato. Senza capire. Quell’uomo parlava per enigmi.

Qualcuno ha mandato uno yokai a ucciderci,” continuò Watanabe. “Prima che la pioggia di dardi si abbattesse su di noi, ho scorto fra i rami un kamaitachi.”

Uno spirito donnola?”

Kasumi era senza parole.

È quasi impossibile da riconoscere quando si muove, data la sua rapidità. Ma io ho percepito la sua presenza più chiaramente, ora che è così vicino a noi.” Watanabe inspirò a fondo l’aria della sera. “E ho percepito anche qualcos’altro: un legame di costrizione. Qualcuno ha incantato lo spirito affinché ci desse la caccia e gli ha anche fornito delle armi per ucciderci. Se tu mi copri le spalle, posso tentare di sciogliere questa magia e liberare il kamaitachi.”

Kasumi non riusciva a credere alle parole di Watanabe. Prima la nure-onago, ora lo spirito donnola. Chi era davvero quel daimyo e cosa stava succedendo? Perché l’avevano inviata a ucciderlo e ora qualcuno stava tentando di uccidere lei?

Kasumi imbracciò la naginata e annuì.

Fai ciò che devi.”

Watanabe si accovacciò a terra, la katana al suo fianco, posata sull’erba accanto a lui. Cominciò a recitare una nenia bassa e cadenzata, di cui Kasumi non riuscì a cogliere le parole né il senso. Il vento soffiò più forte di prima non appena il canto di Watanabe ebbe riempito la radura e Kasumi rinserrò la presa sull’arma. I rami fremettero, i tronchi tremarono, la Luna si oscurò, quasi fosse nuovamente foriera di oscuri presagi. Ed ecco, infine, il kamaitachi: attirato dal canto di Watanabe, si spostava sui ciliegi, correndo attorno alla radura senza posa. Fino a quando il suo muso appuntito non si volse verso Watanabe. Kasumi si mosse appena in tempo, la lama della sua naginata fece appena in tempo a parare il morso dello spirito alla testa di Watanabe. Il kamaitachi rivolse allora tutta la sua furia su di lei. Cominciò a vorticarle attorno, rischiando di farle perdere l’equilibrio. Kasumi non abbassò mai la sua arma e ad ogni occasione propizia affondava la lama, colpendo però il vuoto. Ma l’importante era che Watanabe continuasse il suo canto, perché ad ogni reiterazione dell’incantesimo il kamaitachi rallentava la sua folle corsa. E la sua ferocia aumentava. Diversi raspi sanguinanti iniziarono a comparire sulle braccia di Kasumi, anche se la ragazza cercava di farsi scudo con la naginata. Lo spirito era riuscito a stracciarle le maniche del kimono e l’aveva colpita senza pietà, preso com’era dalla smania di avvicinarsi a Watanabe e mettere fine al suo incantesimo. Ma Kasumi resisteva. Anni di duro allenamento le avevano fortificato il corpo e lo spirito. E non sarebbero stati dei graffi a farle cedere terreno. Avrebbe resistito, fino alla fine. Fino alla morte, se necessario. Soltanto allora sarebbe caduta.

E infine, la sua tenacia venne premiata. Quando il canto di Watanabe raggiunse il suo apice e fece vibrare l’aria della sera, il kamaitachi emise un lungo guaito e scomparve. Kasumi rialzò la testa, guardandosi attorno meravigliata, incurante del sangue che continuava a scenderle dalle braccia e a macchiarle l’abito.

Watanabe… Ci sei riuscito!”

Kasumi si voltò, con un sorriso che le illuminava il volto. E vide che l’uomo giaceva riverso a terra, la mano sull’elsa della spada.

Kasumi sentì che era giunta la sua occasione perfetta. Estrasse un pugnale da sotto la cintola, tenuto ben nascosto.

Lo puntò alla gola di Watanabe.

Con un gesto fulmineo del polso fece per affondare la lama affilata nella giugulare a malapena coperta da qualche ciuffo di neri capelli lisci.

Ma mentre il pugnale si avvicinava alla sua gola, il daimyo spalancò gli occhi e spostò con un movimento del collo i suoi capelli sopra la parte scoperta di pelle dove Kasumi stava puntando, decisa ad ucciderlo.

Per un attimo la chioma nera come la notte di Watanabe quasi s’illuminò della luce della Luna, mentre grilli e gufi intonavano i loro canti.

Perché vorresti rovinare un momento così bello versando del sangue?” sussurrò Watanabe.

La mano di Kasumi si fermò per un istante, sorpresa, poi tentò nuovamente di affondare la lama nella carne del suo obiettivo.

Watanabe si alzò di scatto e balzò all’indietro.

E soprattutto…chi ti manda?” continuò.

Kasumi rimase in silenzio. Lasciò cadere il pugnale e impugnò di nuovo la naginata, l’acciaio della lama ricurva che sibilava tra le ombre del bosco.

Ebbene, non vuoi dirmelo…”

Watanabe si scagliò contro di lei con tutta la forza che aveva, colpendo di proposito la lama della naginata. Essa vibrò nelle mani della ragazza, che imprecò sottovoce.

Il daimyo continuò ad incalzarla frontalmente, puntando sempre i suoi fendenti verso la lama dell’arma di Kasumi la quale, seppur riuscendo a parare ogni colpo, perdeva terreno e indietreggiava.

A ogni respiro corrispondeva un fendente. All’ennesimo colpo, Kasumi schivò di lato, provando poi a contrattaccare.

Watanabe si scostò d’istinto, rendendosi conto che la giovane donna l’aveva quasi decapitato.

Combatti duramente, chi ti ha addestrato?” Watanabe alzò la voce e scagliò un altro fendente, questa volta verso la gamba destra di Kasumi, che riuscì a parare con la lama della naginata.

Acciaio contro acciaio, la lama di Tigre Cresimi e quella di Kasumi emettevano suoni simili a quelli di due serpenti. Poi Watanabe fece forza sui piedi, affondandoli nel terreno e spingendosi in avanti con tutto il corpo, sforzando anche le gambe, e il suono delle due lame cambiò, diventando leggero, impercettibile. Con una scintilla, Tigre Cremisi volò via dalle mani del suo padrone. Era stato uno sciocco a fronteggiare quell’assassina.

La naginata vibrò nell’aria. Il fendente avrebbe tagliato a metà Watanabe, se non fosse stato per l’istintivo salto che gli salvò la vita e mentre si trovava a mezz’aria gli venne in mente la successiva mossa, forse un po’ stupida, forse un po’ animale, non faceva parte della nobile arte della spada.

Mise un piede a terra e si lanciò addosso a Kasumi. I due rotolarono attraverso gli alberi, la naginata ancora ben in pugno nella mano destra della ragazza, ma che fu costretta a lasciare andare per prendere per i capelli il daimyo e sbattergli la testa per terra.

Watanabe incassò il colpo e si voltò di scatto, estraendo la wakizashi e puntandola alla gola di Kasumi.

I ruoli si sono invertiti…” disse il daimyo, mantenendo il tono della voce basso e calmo.

La lama della wakizashi brillò per un riflesso della luce della Luna e la giovane assassina poté scorgere nei suoi occhi lo stesso sinistro luccichio. Era lo sguardo di qualcuno che aveva già ucciso molte volte e non avrebbe avuto problemi a rifarlo. Era lo sguardo di un guerriero.

I due rimasero in silenzio scrutandosi come sospesi nelle ombre della notte.

Watanabe si alzò, voltando le spalle a Kasumi.

Trattenendo a stento le lacrime, la ragazza urlò: “Come osi…voltarmi le spalle?”

L’uomo si voltò verso di lei e le sorrise.

Ho capito chi ti manda, tu fai parte del clan Yashitake”

Kasumi rimase zitta.

E il tuo maestro è Yusuke, la Volpe Grigia”

La ragazza trasalì.

Come…”

Come faccio a saperlo? Innanzi tutto, la tua maschera…”

Con un gesto della mano Watanabe scagliò un fendente con la wakizashi e lo spostamento d’aria fu così travolgente e forte da togliere la maschera da volpe alla giovane assassina.

E in secondo luogo… La tua cicatrice… o meglio, la bruciatura a forma di falce di Luna, per molti non significa assolutamente nulla, ma io conosco il clan e il tuo maestro e conosco anche il suo simbolo. Se vuoi, posso raccontarti l’origine della falce di Luna. Tu quindi devi essere…”

I ricordi balenarono nella mente di Watanabe Izuki.

Una notte piena di stelle sopra la sua testa, la katana di Yusuke che danzava letale come un rettile velenoso.

Si ricordò di una bambina al seguito della Volpe Grigia. Si ricordò dei corpi senza vita dei suoi servitori e la bambina, nascosta, sotto a un carro trainato da un paio di cavalli.

In quell’istante Kasumi aveva lo stesso sguardo di terrore e odio di quella notte dieci anni prima,

poiché aveva capito chi fosse davvero il suo obiettivo, ora le era chiaro, Watanabe Izuki era stato avversario del suo maestro molti anni prima. Eppure, qualcosa continuava a non avere senso.

Il contratto…” disse con un filo di voce.

Come? Cos’hai detto?”

Kasumi si schiarì la gola e si ricompose.

Da qualche parte, in lontananza, un tuono ruppe la quiete di quella notte. C’era un temporale in arrivo.

Sono stata inviata qui per ucciderti da uno dei tuoi samurai”

Watanabe non parve sorpreso.

Eppure dovrebbe essere il mio maestro a… io ricordo la notte in cui vi scontraste.”

Il clangore delle due lame che si scontravano e i movimenti veloci dei due samurai in lotta l’uno contro l’altro riecheggiavano ancora vividi nella mente della giovane donna.

Ricordò vivamente il fendente che rese cieco il suo maestro.

L’urlo di dolore riemerse dalle profondità del tempo, finché Kasumi non si accorse che era lei stessa a urlare.

Watanabe rimase sconcertato. La ragazza si era messa a urlare di rabbia, per poi scoppiare a ridere sguaiatamente.

Cosa ti prende ora?”

Kasumi riprese la naginata, impugnandola forte tra le sue mani, stringendola come se fosse il collo di quel daimyo.

Vendicherò il mio maestro. Non c’è nessun samurai traditore, nessuna cospirazione contro di te, Watanabe Izuki, solo il destino e il fato che mi hanno portato davanti a te con il preciso scopo di ucciderti e vendicare la vista di Yusuke-sama”

La lama di una katana le attraversò i muscoli della spalla da parte a parte. La giovane gridò di dolore.

Mia dolce Kasumi… Kasumi della Luna di Seta, io non ho bisogno della vista.”

La ragazza riconobbe quella voce.

Se solo mi avessi lasciato parlare, ti avrei spiegato che è il tuo stesso maestro a darti la caccia,” disse Watanabe, freddo.

Non sei cambiato di una virgola, Yusuke,” aggiunse impugnando Tigre Cremisi, rivolgendosi verso il maestro del clan Yashitake, apparso apparentemente dal nulla alle spalle della giovane assassina.

Nemmeno tu,” con uno spruzzo di sangue, Yusuke ritrasse la lama dalle carni di Kasumi.

La ragazza gemette e si accasciò a terra stringendosi con forza la spalla. Per fermare l’emorragia strappò un brandello di stoffa dal suo kimono e, con mani abili, lo legò stretto attorno alla ferita. Se il suo maestro avesse voluto ucciderla sarebbe già morta, così, resa inoffensiva, si adagiò contro un albero.

Maestro…Yusuke-sama… perché?”

Yusuke le si avvicinò.

Kasumi poteva percepire il suo alito fetido, quasi cadaverico. Dai tratti somatici e dal modo di parlare quello sembrava il suo maestro, ma c’era qualcosa in lui che pareva molto diversa, come se non fosse lui. Eppure sembrava lucido nelle sue azioni.

Io non ho bisogno dei miei occhi”

Kasumi lo sapeva bene, diverse volte l’aveva visto combattere in una maniera più che dignitosa e sconfiggere avversari ben più abili di lui, usando semplicemente gli altri sensi che erano più acuti rispetto a quelli di gran parte dei suoi sfidanti.

Liang-Tzu me ne ha dati un paio nuovi.”

Watanabe trasalì.

E cosa gli hai dato in cambio? lo stregone non presta le sue arcane magie senza ricevere nulla. E non parlo di denaro, lui vuole qualcos’altro, sempre.”

Yusuke scandì bene le parole per vedere la reazione dell’uomo di fronte a lui, o forse arrivarono lentamente alle orecchie di Watanabe.

Un pezzo della pergamena del bonzo mummificato.”

Watanabe sgranò gli occhi, poi impugnò ancora più saldamente la katana.

Esatto, la pergamena che stai tanto cercando ormai da anni.”

Nelle mani dello stregone quella pergamena e il sutra che c’è scritto sopra possono essere molto pericolose.”

Yusuke rise.

Vorresti farmi credere che tu la useresti per fare del bene?”

Di sicuro non la userei nel modo in cui farebbe Liang-Tzu.”

C’era qualcosa di diverso in Yusuke. Watanabe lo conosceva bene. Prima di scontrarsi e duellare erano stati compagni di scorrerie, molto tempo addietro. Ladri, due volgari ladri che dalla posizione onorevole di samurai erano decaduti alla condizione di ronin, samurai erranti senza padrone, e per un certo periodo erano stati a capo di una banda di briganti, insieme. Gli equilibri del potere tra uomini del genere, tra briganti, erano dettati solo dalla forza.

Ma non era per il potere su di una banda di ladri e predoni che Watanabe e Yusuke si erano scontrati. No, i due si erano innamorati della stessa donna e, per quanto entrambi non nutrissero il desiderio di uccidersi a vicenda, il fendente che aveva reso cieco il maestro del clan Yashitake era stato decisivo per il duello. Inizialmente, non era destinato agli occhi di Yusuke, bensì al suo petto, non sarebbe dovuta essere una ferita menomante, ma soltanto un danno superficiale, volto a determinare la vittoria di Watanabe, una cicatrice come tante altre per Yusuke. Eppure il maestro di Kasumi della Luna di Seta si era mosso all’ultimo momento per schivare, qualcosa che Watanabe non aveva previsto, e la lama aveva reso buia la vista di Yusuke, per sempre.

Sei stato tu a mandare prima un sicario umano, giorni fa, che ha miseramente fallito, e poi lo yokai donnola.”

Watanabe esitò, ma Yusuke non rispose.

Eppure tu, come del resto anch’io, non possiamo controllare gli yokai, soltanto qualcuno che ha a che fare con il mondo che sta al di là del nostro, soltanto qualcuno come Liang-Tzu avrebbe potuto… Dimmi, da quanto tempo ti ha irretito la mente?”

Yusuke si scagliò con un affondo contro Watanabe. Quest’ultimo lo schivò e provò a contrattaccare con un fendente, ma Yusuke si abbassò di colpo, sferrando un altro attacco diretto alle gambe del daimyo.

Watanabe parò, Tigre Cremisi vibrando sembrava quasi avvertirlo di qualcosa che aveva vagamente percepito.

Yusuke continuò veloce a menare fendenti provando prima a colpire Watanabe al petto, poi al collo, poi alla gamba, poi di nuovo al ventre e al braccio. Watanabe, a fatica, riusciva ad evitare tutti gli attacchi.

Si allontanò dal vecchio compagno di scorribande.

Sei diventato più veloce con l’età.”

Tu invece ti sei rammollito standotene rinchiuso in questo bel castello, con la tua servitù, con il tuo lusso e i tuoi agi.”

Yusuke ringhiò verso di lui e lo attaccò frontalmente, Watanabe mise la katana in diagonale davanti al suo volto, per proteggersi.

Lo sai che non è mai stata mia intenzione renderti cieco.”

Yusuke si fermò per un istante, poi continuò a far forza contro la katana dell’avversario, quasi come se volesse spezzarla a metà.

Se posso rimediare con la mia morte lo farò.”

Alle parole di Watanabe, Yusuke si fermò e indietreggiò.

Nel fitto bosco iniziò a scendere una pioggia leggera, ma fitta. La Luna era nascosta dietro le nubi temporalesche, così come le costellazioni.

Yusuke rise forte.

Lascia che muoia con onore.” disse Watanabe. “Smettiamola di combattere, uccidimi e prenditi cura della ragazza, è ferita gravemente e sta perdendo sangue.”

Kasumi trasalì. Watanabe Izuki era una persona molto singolare. Cosa importava a un daimyo della vita di un’assassina assoldata per ucciderlo?

Ti ricorda lei, non è vero?” chiese Yusuke.

Watanabe esitò.

Sì…”

Ma lei è morta!”

Con un urlo Yusuke si scagliò ancora una volta contro il suo vecchio compagno. Si ripeté la situazione di prima, lo stesso stallo, due lame incrociate che sibilavano e scintillavano l’una contro l’altra, ma nessuna delle due che riusciva a prevalere.

Il duello continuava. Kasumi riusciva a seguire i movimenti dei due spadaccini ed era ammirata dalla loro abilità.

Yusuke, abiti grigi, ma che in quel buio apparivano neri come la notte, colpiva con forza e violenza, cercando non di vincere lo scontro, ma di uccidere Watanabe Izuki, il quale pareva danzare. Il suo stile di combattimento era molto simile a quello di Kasumi stessa, egli vorticava su se stesso, toccando il suolo raramente, usando la forza conferita da agilità e velocità, mentre il suo avversario era piantato saldo a terra e scagliava fendenti sempre più potenti.

Watanabe pensò che Tigre Cremisi, la sua fidata katana, non sarebbe uscita bene da quel combattimento se avessero continuato così ancora per molto.

La notte e la pioggia facevano da sfondo a quel duello, tra i silenzi del bosco. A parte qualche canto di uccello notturno non si udiva nulla, se non il suono dell’acciaio contro altro acciaio.

Da lontano, le luci delle fiaccole e delle lampade a olio del castello del daimyo illuminavano parzialmente il luogo dello scontro, dandogli un aspetto surreale, quasi onirico. Per un attimo Kasumi si chiese se stesse sognando o se quella fosse la realtà. Il suo maestro l’aveva colpita alle spalle, nascosto da tempo tra le fronde degli alberi, il migliore degli assassini che avesse mai conosciuto, questo è certo, ma non si capacitava del perché avesse compiuto un gesto del genere, aveva visto punire duramente suoi compagni durante i vari addestramenti, e anche lei era stata punita più volte, corporalmente, ma mai si era spinto a tanto, mai avrebbe osato uccidere uno dei suoi. Non erano un clan di assassini, erano una famiglia di persone perse nella vastità del mondo, sia interiore sia esteriore, che avevano trovato uno scopo comune, quella che viene chiamata una ragione di vita e che, ironicamente, consisteva nel privare altri della propria vita, vendendo la propria arte di morte al miglior offerente. Ma di questo Kasumi non si era mai pentita, tutti quelli che aveva ucciso per denaro, in un modo o nell’altro, se lo meritavano.

Kasumi si riscosse dai suoi pensieri. Il panno che aveva usato per tamponare la ferita gocciolava sangue. Necessitava di un guaritore, o i suoi ultimi istanti di vita sarebbero stati scanditi dal rumore dell’acciaio delle due spade di Watanabe e di Yusuke.

Kasumi!” Watanabe la chiamò. “Se riesci a camminare, dirigiti verso il castello, fa’ il mio nome, sbrigati, chiedi della vecchia guaritrice Osabasa, o morirai dissanguata.”

Yusuke approfittò del momento di distrazione del vecchio compagno ronin e lo colpì al braccio destro, il braccio della spada.

Watanabe imprecò, indietreggiando, il sangue che colava sulla lama di Tigre Cremisi, e la impugnò col sinistro.

Non vorrai davvero provare a battermi con il sinistro, non sei mai stato capace di duellare da mancino,” lo schernì Yusuke.

Watanabe urlò di rabbia e fece un balzo disumano, attaccando dall’alto il suo avversario.

Yusuke non riuscì a parare, la lama della katana del daimyo gli aprì una ferita sul petto. Ma da essa non sgorgò sangue, bensì una sinistra nebbia violastra.

In quel momento, Watanabe si rese conto di una cosa.

Kasumi!”

La ragazza si alzò faticosamente in piedi.

Lo vedi anche tu?”

Kasumi vide la nebbia violastra fuoriuscire dal petto del suo maestro e riversarsi a terra, fino a lambire gli alberi e l’ambiente circostante. Un corvo gracchiò distante, mentre un gufo volò sopra le loro teste.

Yusuke lanciò un kunai a trafiggere l’animale notturno. Quando cadde a terra, lo prese al volo e lo addentò.

Con orrore, la ragazza vide il suo maestro tramutato in un vero e proprio mostro dalle sembianze umane. Solo allora si rese conto del colore innaturale dei suoi occhi, viola come la nebbia che era sgorgata dalla ferita.

Yusuke sbranò con foga il gufo, mentre Watanabe provò ad attaccarlo di nuovo, ma l’avversario parò ogni fendente con la sua katana, mentre la ferita si rimarginava.

Cosa sei diventato, vecchio amico mio? Cosa ti ha fatto lo stregone?”

Kasumi guardò verso Yusuke. Realizzò con chiarezza che il suo maestro se n’era andato da tempo. Quel demone davanti a lei non era il suo mentore e patrigno. Quel demone davanti a lei era uscito dal peggiore degli incubi, una creatura immonda, corrotta dalla magia nera.

Yusuke si mosse così velocemente che Watanabe non riuscì a seguire il suo scatto nemmeno con gli occhi.

Prese per il collo Kasumi e la sollevò da terra, mozzandole il fiato, sbattendole la testa contro il tronco dell’albero al quale era appoggiata.

Yusuke non sei te stesso!”

Watanabe, dopo aver urlato con tutta la sua forza queste ultime parole, affondò Tigre Cremisi nel corpo del suo vecchio compagno e amico.

Altra nebbia violacea si riversò intorno a loro e nell’aria limpida e fresca del bosco. Aveva smesso di piovere.

Con forza, Watanabe ruotò la katana e la affondò ancora di più nel corpo di Yusuke, tirandola verso l’alto, deciso a squarciare a metà quel demone.

Ti sei lasciato corrompere da Liang-Tzu.”

Ero in punto di morte,” disse Yusuke digrignando i denti.

Hai scambiato un frammento della pergamena del bonzo mummificato per ottenere poteri sovrannaturali.”

È lo stesso che avresti fatto tu.”

Non sai che ogni promessa di un mago nero è come una katana senza l’impugnatura? Ogni patto fatto con le tenebre non dura per molto e ha sempre un difetto?”

Di cosa stai parlando?”

Yusuke lasciò la presa sul collo di Kasumi, che respirando a fatica, si accasciò a terra.

Notò che Watanabe aveva lasciato cadere un sigillo con sopra un ideogramma. Un antico sigillo usato dai monaci buddisti contro le creature dell’oscurità.

Diventare tutt’uno con il buio ha il suo prezzo da pagare… e io l’ho già pagato molte volte, Izuki!”

Yusuke sputò in faccia a Watanabe, mentre la katana per poco non tagliò di netto la testa del daimyo, che si spostò con estrema velocità, mantenendo lucidi i suoi riflessi e la sua mente.

Kasumi…ora!”

Kasumi prese il sigillo e lo premette con tutta la forza che le era rimasta contro il volto di Yusuke, che urlò di dolore, un urlo atroce, non umano, simile a quello di una bestia selvaggia di montagna, ma che nessuno poteva ricondurre a uomo o animale o yokai. Era l’urlo di qualcosa di morto da tempo e tenuto in vita soltanto dal male stesso.

Tigre Cremisi ruggì mentre distruggeva le spoglie animate dalle arti dello stregone Liang-Tzu. Quello non era più Yusuke. Nella mente di Kasumi riapparvero tutti i ricordi legati al suo maestro e si accorse che le lacrime non sgorgavano soltanto dai suoi occhi, ma anche da quelli di Watanabe Izuki.

Era un uomo gentile, Yusuke-sama: era un mentore, un padre, un buon amico, sapeva trarre il meglio da ogni emozione e sentimento umano, senza mai lasciarsi sopraffare, mantenendo sempre distacco e contemplazione.

Kasumi della Luna di Seta…”

La nebbia violacea aveva avvolto il corpo di Yusuke, martoriato dai fendenti di Watanabe. Con le dita della mano destra, il maestro accarezzò per l’ultima volta la guancia della sua figlia adottiva e allieva. Una lacrima della ragazza toccò l’indice di Yusuke e si dissolse nella notte, scomparendo tra la nebbia.

Watanabe piantò a terra Tigre Cremisi. Sporco di sangue e polvere, guardò Kasumi negli occhi, entrambi contemplavano le lacrime dell’altro.

Io li riporterò tutti indietro!” urlò Watanabe, verso il vento, verso il cielo.

Tutti coloro che sono morti… anche per mano mia, una volta che avrò la pergamena e saprò recitare il sutra…li riporterò tutti in vita! Tutte le persone che ho perso, tutti gli amici e compagni abbandonati al loro destino, li riporterò qui!”

Kasumi si avvicinò al daimyo. Gli mise una mano sulla guancia.

Non puoi.”

Watanabe trasalì. Negli occhi del daimyo, Kasumi lesse un misto di rabbia, frustrazione e determinazione, ma, soprattutto, tanto dolore.

Hai visto cosa succede. Hai visto come diventano, una volta che ritornano. Sono solo un guscio vuoto, te ne rendi conto? Marionette al servizio della stessa contorta magia che li ha resuscitati. Da molto tempo sapevo che il mio maestro era malato, non pensavo fosse così grave, o meglio, credevo che…” Kasumi sorrise, asciugandosi le lacrime. “Credevo che Yusuke-sama fosse così forte da sconfiggere persino la morte stessa, invece, per paura si è lasciato corrompere dallo stregone.”

Conosci Liang-Tzu?” domandò Watanabe, sorpreso.

Il mio destino è in qualche modo legato al suo, evidentemente. Me ne aveva parlato Yusuke-sama, era un suo nemico e mai avrei pensato che potesse stringere un patto con le tenebre che quello stregone sembra saper dominare.”

Tu non sai cos’ha fatto Liang-Tzu per ottenere quei poteri, cos’ha dovuto sacrificare di se stesso… Ed è meglio che nessuno lo sappia mai, a dire il vero, io conosco solo storie, ma… Yusuke…”

È stato un padre per me e un buon amico per te.”

Non avrei mai dovuto duellare con lui quella notte in cui tu eri nascosta sotto al carro…”

Mi hai riconosciuta?”

Fin dal primo momento in cui ti ho vista.”

Seguì un lungo silenzio.

Torniamo al castello, hai bisogno della vecchia Osabasa. Lei saprà cosa fare con quella brutta ferita alla spalla, ti stai dissanguando, Kasumi… della Luna di Seta,” disse Watanabe, finendo la frase con un filo di voce.

Si rese conto in quel momento che la Luna, riapparsa in cielo da dietro le nubi, sembrava davvero di seta.

Chi ti ricordo… prima Yusuke-sama ha detto che ti ricordavo qualcuno o… ho udito male?” chiese Kasumi.

Watanabe non rispose, poi si voltò verso di lei e si avvicinò al suo volto.

Una donna che ho amato molto tempo fa,” rispose. “Ma per questa notte non ti dirò altro.”

Mentre tornavano al castello, Kasumi scorse una tristezza sconfinata negli occhi di Watanabe.

Trascorsero i giorni e Kasumi si riprese abbastanza velocemente dalla ferita.

Ho subito di peggio,” era solita ripetere alla venerabile Osabasa, che invece insisteva affinché la ragazza riposasse più tempo possibile. Per questo, con l’intuito e la saggezza tipica degli anziani, mentiva sulle condizioni della ferita, facendo credere a Kasumi che la guarigione fosse ancora lontana. Sperava così di donare un po’ di quiete a quella ragazza, la cui vita sembrava scandita solo da combattimenti, furti e imbrogli

Alla sera Kasumi suonava un koto che aveva trovato nella sua stanza. Watanabe, con le stelle estive che illuminavano la notte creando uno spettacolo magnifico, guardava verso il cielo, fumando lentamente dalla sua pipa, ascoltando le melodie profonde e lente che le dita della ragazza intonavano sullo strumento.

Un giorno, mentre Osabasa stava medicando la ragazza, disse con il tono tipico di quell’età, non nascondendo un po’ di felicità e di entusiasmo:

Dovresti pensare a rimanere qui per un bel po’ di tempo, sai… Ho notato gli sguardi che il padrone ti riserva e…” La vecchia ridacchiò. “Ho notato anche certe occhiate che tu riservi a lui ed è tanto, tanto tempo che non vedo il padrone così rasserenato, ha perfino ricominciato ad allenarsi con la katana e ad addestrare lui stesso i nuovi allievi. Prima se ne stava seduto a meditare per ore e ore. La via dell’ascesi è un tipo di esistenza onorevole, ma un uomo non deve essere spinto dal dolore e dalla delusione nei confronti del mondo terreno per percorrerla. Tu potresti avere su di lui un influsso molto positivo, infondergli una sorta di energia benevola…”

Osabasa continuava a parlare, ma Kasumi era persa nei suoi pensieri.

Gli ricordo soltanto lo spettro di una donna morta molto tempo fa.

Una sera Watanabe non udì più il suono delle corde del koto, e mandò a chiamare un suo servitore-

Dov’è Kasumi? Cercatela.”

Dopo qualche minuto il servitore tornò.

Non è nella sua stanza, Izuki-sama.”

E allora cercatela per tutto il castello, maledizione, quella ragazza è ancora convalescente!”

Sì!”

Servitori, guardie e anche qualcuno tra i samurai più giovani cercarono la fanciulla, ma all’interno dei confini del palazzo non si trovava. Qualche ora più tardi fu inviata anche una spedizione nel bosco dove si era consumato il duello, ma della giovane nessuna traccia. Nella stanza assegnata a Kasumi, la naginata e le sue vesti da viaggio erano scomparse, insieme a una buona scorta di cibo dalla dispensa. Solo il koto era rimasto. La venerabile Osabasa le aveva rivelato che apparteneva alla defunta moglie del daimyo.

Watanabe non era tanto preoccupato per la ferita di Kasumi, quanto per il fatto che non l’avrebbe rivista mai più.

Poi si ricordò di una vita che aveva vissuto come ronin, come samurai vagabondo senza padrone al soldo del miglior offerente.

Era giunto il tempo di rimettersi in strada. Disse alla servitù e ai suoi samurai che sarebbe tornato, avrebbe girovagato per qualche tempo. Alcuni avevano le lacrime agli occhi, altri – i più adulti tra gli allievi – lo salutarono con formalità e dignità guerriera.

Li guardò uno ad uno. Li salutò e si mise in cammino, accarezzando l’impugnatura di Tigre Cremisi.

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