Recensioni: “La conquista della Britannia” di Gildas

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Titolo: “La conquista della Britannia”

Autore: Gildas

Collana: Homo Absconditus

Editore: Il Cerchio

Pagine: 100

Prezzo: 12 euro

 

Commento

Normalmente, il De Excidio et conquestu Britanniae – il cui titolo latino esprime ancora meglio il contenuto della breve opera del monaco Gildas – è un testo la cui lettura interessa per lo più pochi appassionati.

Si tratta infatti di un testo che ci proviene da quella che gli storici d’OltreManica chiamano, in riferimento alle isole britanniche, la Dark Age, l’Età Oscura, riferendosi così ai tempi successivi alla fine del dominio romano sulle province nordiche della Britannia. Un periodo effettivamente molto turbolento, che vede le regioni britanno-romane via via sempre più esposte a conflitti interni e invasioni. Almeno dal III secolo, com’è noto, la Britannia aveva vissuto velleità di stampo separatista, appoggiando e producendo tutta una serie di usurpatori, da Postumo a Carausio, da Alletto a Magno Massimo, quest’ultimo avversario di Teodosio.

Nomi questi in molti casi sepolti dal tempo, conosciuti per lo più grazie allo studio numismatico e accenni cronachistici, ma che formano il retroterra che porterà la Britannia, agli inizi del V secolo, in una situazione di instabilità permanente. Tradizionalmente è nel 410 che si stabilisce la fine del potere romano sull’isola: mentre Roma è assediata e presa dai Goti, le genti locali inviano a Ravenna una disperata richiesta d’aiuto nella lotta contro pirati Franchi e Sassoni, Scoti e Pitti non più trattenuti dal cadente Vallo di Adriano: è il cosiddetto Gemitus Britannorum. E se in realtà il potere centrale riuscirà pochi anni dopo a tentare una pacificazione della provincia ormai semiperduta – le celebri spedizioni di Germano D’Auxerre, vescovo guerriero che riporterà temporanee vittorie sul campo – a metà del V secolo la Britannia è di fatto autonoma, e ulteriori richieste di aiuto (come quella fatta al generale Ezio nel 444) resteranno lettera morta. Regoli e signori della guerra improvvisati spadroneggiano, imponendo la legge della forza, e la popolazione è sempre più oppressa dall’avanzata dei barbari che, invitati in alcuni casi come mercenari, razziano senza scrupoli il territorio indifeso, stanziandovisi in permanenza.

E’ questo il contesto dell’opera di Gildas, vissuto circa un secolo dopo i fatti che narra, e considerato il primo “storico” da cui far partire le vicende della Britannia altomedievale.

Se oggi rievochiamo gli scritti di Gildas, la cui trattazione è invero ispirata da fini religiosi – egli vede infatti la rovina della Britannia come punizione divina per il susseguirsi di empietà da parte del suo popolo – è però non per immergerci nel dato storico che essi riportano, bensì perchè costituiscono il primissimo mattone di una costruzione divenuta nei secoli imponente e vastissima, oltre che cara a tutti gli amanti del Fantastico: il ciclo di Re Artù e dei suoi cavalieri.

E’ infatti tra le scarne cronache colme di citazioni bibliche di Gildas che troviamo menzionati per la prima volta personaggi semistorici come Vortigern – in verità indicato solo come superbus tyrannus, ma identificato dalle sue azioni – artefice della rovinosa chiamata dei Sassoni in Britannia, che sconvolgerà per sempre il destino della grande isola. Ma soprattutto, Ambrosio Aureliano, altrettanto sfuggente figura di nobile d’origine almeno in parte romana, guida della resistenza contro gli invasori Angli e Sassoni. Sarebbe stato proprio questi a riportare la vittoria nella leggendaria battaglia del monte Badon:

Sotto il comando di Ambrosio Aureliano, uomo dotato di un grande senso della misura, che quasi unico dei Romani era sopravvissuto all’urto di tanto grande tempesta, dopo aver perduto i genitori, che non a caso indossavano la toga praetexta, ma i cui discendenti ai nostri giorni sono assai degenerati rispetto la rettitudine dell’avo, i superstiti ripresero le forze provocarono i vincitori alla battaglia: e con l’assenso del Signore la vittoria fu dalla loro parte”

Personaggio destinato a restare misterioso, Ambrosio Aureliano, di cui non si sa molto altro. E che tuttavia, nei secoli successivi, sarà sovente sovrapposto alla figura di Re Artù: a volte ne è antenato, altre è egli stesso il sovrano di Camelot, mentre in altri ancora – come capita nella Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth – con il nome celtico di Emrys Ambrosio diventa invece il famoso mago Merlino.

Singolarissimo destino, dunque, quello dello scritto di Gildas. Pochi passaggi, scarni nei particolari e frammisti a una lunga omelia che invita alla conversione, sono divenuti origine (e parziale fondamento storico) per una delle più pervasive e durature leggende della letteratura mondiale, nata dal sedimentarsi di suggestioni da riferire con tutta probabilità a una serie di capitani e duces di etnia tanto celtica quanto “romana” , colti nel tentativo di resistere all’avanzata germanica in Britannia. Un contesto lontanissimo da quello idealizzato e cortese – tipico del XII secolo – che siamo soliti associare alle narrazioni arturiane, e molto più vicino a quello barbarico di certo fantasy, colmo di duelli mortali, battaglie tra schiere senza nome che si abbattono l’un altra sulla riva di spiagge gelide, e castelli in rovina.

Riscoprire il testo di Gildas – corredato di originale latino, e un ricco apparato introduttivo e di note, significa andare indietro nel tempo alle radici della leggenda. 

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