“CROSTATA ALLA CReEMA DAVANTI AL FUOCO”
“Venite bambini… qui al fuoco.”
Nonna Edda ha preparato la crostata alla crema. È ancora calda, e piccole figure che sembrano gnomi le saltellano intorno, ridendo e canticchiando. “A me! A me un pezzo!”
“Una storia! Nonna, una storia!”
“Va bene miei cari, ma fatemi sedere qui al caldo, prima. Cosimo, tu che sei un po’ più grande, aiutami a mettere questo ceppo nel fuoco.”
Il pezzo di legno è grande e crepita quando le fiamme – con insolita velocità – lo avvolgono.
“Quale ci racconti, nonna?”
“Una degli uomini dei tempi dimenticati, che vivevano in quella città in fondo al mare?!”
“No! Una sugli eroi dei castelli, della spada e dei maghi malvagi?!”
“O di quelli che uccisero il Drago!”
“Il Drago!”
“O della grande guerra degli Dèì.”
“Silenzio, chiacchieroni! Stasera decido io! Questa me la raccontò proprio mia nonna, che si chiamava Edda anche lei; quando avevo la vostra età… davanti al fuoco! Come noi!”
“Di cosa parla?”
“Che storia è?”
“Un racconto dei berserkir. Lo sapete chi sono?”
“No!”
“Allora fate silenzio e ascoltate! Questa è la storia di uno di loro, che si chiamava, anzi si chiama, Buri… “
Lunga ultima notte
Era, o è, un tempo che apparteneva agli uomini solo in piccola parte. Se si cavalcavano ─ con l’immaginazione ─ le onde del mare a ritroso, verso Borea, e si superavano tutte le lande emerse conosciute, prima che il mondo finisca, lì, proprio lì, c’era un’isola rocciosa, e il grande palazzo di Zirmansala, dove viveva Buri il berserker.
Era stato un grande guerriero, perciò aveva il diritto di riposare, per secoli, nella sala dei banchetti di quel luogo leggendario. Non si contavano i nemici terribili che aveva atterrato, le battaglie a cui aveva partecipato. Uccisore-di-giganti era stato chiamato.
Egli non parlava mai di queste passate vicende, a dire il vero. Nello splendore di quel palazzo, eretto dagli Dèi in persona, se ne stava taciturno, a bere l’idromele e la birra, in grandi quantità, e rideva sotto ai baffoni quando altri eroi parlavano delle gesta compiute in vita. Tuttavia, quando il skald Icivaa suonava e recitava le storie vecchie, le storie nuove e le storie senza tempo, era buffo vedere come Buri, sempre silenzioso altrimenti, gioisse e cantasse fino alla fine delle canzoni.
Altrimenti, era sempre tra i primi ad addormentarsi, sopraggiunta la sera, come se si portasse dentro, nel cuore, una sconfinata stanchezza. Era solito sedersi vicino al grande camino ─ fatto con ossa di balena ─ a bere da un grande corno fatto di zanna di mammuth. I suoi occhi, del colore dei tronchi di una giovane foresta, fissavano le fiamme e sembravano immaginare intere saghe di mondi, uomini e donne, mostri, magie, Déi, e chissà cos’altro, per ore intere. Allora, assopito, non lo interessava più la compagnia dei fratelli d’arme o delle valchirie, che con grande gioia frequentavano e partecipano ai ricchi fasti di quella magnifica dimora. Talvolta parlava con lui ─ a voce bassissima, tanto che nessuno riusciva a udire ─ un vecchio con un occhio solo e una grande barba grigia. Aveva l’aspetto di un venerando guerriero, che doveva esser stato forte, ed era saggio.
Altre volte giungeva a discorrere con Buri un principe, o un re, riccamente vestito, giunto da chissà dove, con gli occhi di tempesta e la sapienza impressa sul giovane volto. Si diceva che fosse uno dei sovrano-sapienti della meravigliosa Troia, prima tra le città degli uomini. O uno di quei signori nobilissimi che si dice abitino il pianeta Mercurio e la terra detta Demonland. Tutti invidiavano Buri per questo onore che simili signori gli facevano.
Egli continuava a bere e a dialogare a bassa voce… ed infine le palpebre, riverberanti le fiamme del grande camino, gli si chiudevano, e lui respirava pesantemente. Anche se le canzoni, le danze e le goliardie procedevano fino a tarda notte, niente sembrava turbare il suo riposo, simile al letargo dell’orso.
Le torce si spegnevano, gli eroi si ritiravano, le valkirie sparivano come fantasmi, le fiamme scemavano, diventando braci, e Buri dormiva profondamente, coperto dalla sua pelle d’orso grigio.
Giungeva poi il momento in cui la notte diventava Oscura e Fredda Signora. Le pietre della sala erano avvolte dalle tenebre e le travi di legno apparivano bianche, ghiacciate. I carboni ardenti nel camino un piccolo sole lontano, avvolto da un abisso di gelo.
Una volta, in uno di quei profondi momenti notturni, Buri aprì ─ di scatto ─ gli occhi, e si alzò, come se fosse preso da una mortale urgenza.
“Ne sei sicuro?”, gli chiese il vecchio con un occhio solo, che nessuno aveva mai visto dormire.
“L’ho sognato. È vicino! Lo sento, come la bestia in caccia fiuta la preda.”
Il vegliardo gli strinse la destra, in segno di saluto e di buona fortuna. Buri sentì che aveva una grande forza.
Prese la lancia e l’ascia, che aveva riposte in un angolo della grande sala. Spalancò il grande portone rinforzato con ossa di capodoglio e uscì. Il vento era glaciale, terribile.
“Avanti miei guerrieri, è il vostro Jarl che vi comanda, alzatevi, armatevi e seguitemi, andiamo in mare.” Così si rivolse Buri al tumulo di pietre dove i suoi skarl riposavano, cullati dal rollio del mare artico.
Dalle fredde rocce dei lamenti, ululanti, risposero al richiamo. “Sì, nostro signore, siamo con te, ovunque tu voglia portare battaglia, basta che ci desti da questo sonno.”, e delle figure di ombra, fumo e luce lunare uscirono. Scheletri, fantasmi, cadaveri redivivi. Vestiti di brandelli di cotte di maglia, armati con mozziconi di spade, asce e lance. “Chi andiamo a cacciare? Jarl, ti scongiuriamo, facci provare ancora una volta il brivido della guerra, come quando eravamo giovani e forti, e le donne ci amavano e ci desideravano.”
“Il serpe è qui. Il serpe di Midgard.”
Le onde erano nere come gli occhi del kraken e sferzavano il drakkar come i suoi tentacoli. L’equipaggio bestemmiava selvaggiamente ai remi, lottando contro la forza dei marosi. Sovente i flutti d’acqua che superavano ─ animati come creature maledette ─ le murate irte di scudi si tramutavano malignamente nei mostri conosciuti agli uomini col nome di “magri notturni”. Piccole creature con ali di pipistrello, code bifide, orribilmente prive di volto. I guerrieri di Buri le afferravano con eccitata violenza e ci giocavano: le strappavano a morsi le ali e le prendevano a calci come una palla fin quando non morivano. Con i lamenti degli esseri torturati intonavano canzoni oscene o blasfeme. La paura aveva abbandonato i gelidi cuori di quegli uomini morti da secoli e godevano e si divertivano nel prendersi gioco di tutto e di tutti.
Una figura se ne stava eretta, sulla prua, a scrutare l’orizzonte della notte che si manifestava grigia, sognante e bianca. Il copricapo a foggia di testa d’orso non celava i lunghi capelli e la barba, aggrovigliati selvaggiamente. Gli occhi di Buri avvampavano come fornaci nella notte della Creazione. “Laggiù! Eccolo! Soffia!” Dall’acqua tumultuosa emergevano gli spruzzi e ribollimenti causati dall’eterno contorcersi della creatura. Anche col nome di “Uroboros” era conosciuta.
“Sì, nostro bellicoso signore, potente nelle armi!” Sulla lunga-nave iniziò a suonare un tamburo fatto con pelle di stregoni scorticati, e a percuoterlo erano i teschi e le lunghe ossa dei medesimi. Il rullio infernale che ne sortiva rivaleggiava con le correnti d’aria della notte indiavolata, i cui cieli percorrevano demoni alati, ormai spaventati dagli uomini sul drakkar. Poche cose facevano divertire gli skarl di Buri come suonare i loro tamburi.
Il gigantesco Uroboros pareva aver fiutato i propri cacciatori. All’orizzonte, oscuro, si vedevano le spire uscire dall’acqua ─ lucide ─, e ricadere con grandi tonfi che si udivano anche se si era molto distanti.
‘Eccoti, immortale Uroboros.’, pensò a voce alta Buri. ‘Per molte notti ti ho sognato, e cercato, vagando sui flutti col mio spirito… quando il sole sorgerà, non tormenterai più il popolo delle isole, né un umile pescatore divorerai, né i bambini, di fronte al fuoco che si spegne, patiranno la fame, avendo paura di addormentarsi. Il tuo regno di paura è giunto alla fine.’ “Avanti, miei lupi!”, e gli rispose un ringhio feroce ed esalato. “Che la nostra lunga e ultima notte sia ricordata nelle canzoni dei skald, davanti al fuoco caldo e alle coppe di vino dolce.”
Il Serpe rapidamente emerse dalle acque nere in un ribollio infernale. Con la bocca, irta di denti lunghi e affilati come spade, si gettò sul legno e fece strage dei guerrieri. Molti sparirono tra le sue fauci come anime dannate risucchiate all’inferno. Invero Buri e i suoi non gli concessero tregua. Lo trafissero con la lancia, ne aprirono le carni con la spada, ne frantumarono le ossa con i martelli, ma il mostro sembrava gioire nella battaglia, non curandosi delle ferite micidiali che riceveva, e bramando solo di divorare altri nemici, e altri ancora, fino alla fine.
Al culmine dello scontro ─ che oggi è divenuto una fumosa leggenda ─ l’Uroboro era avviluppato al drakkar in una stretta mortale e ormai inscindibile. Il sangue, nero, degli eroi e del mostro, mescolato, risplendeva sotto la luce gelida della stelle. Caduti e fasciame erano sparsi in un inestricabile groviglio di distruzione. Sul relitto solo due scintille di vita ancora si fronteggiavano, con l’intento, l’una, di spegnere l’altra.
Buri osservò impassibile, truce, gli occhi del mostro, e vi ammirò ─ dentro ─ il proprio riflesso. Si chiese quale misterioso destino lo avesse portato a quel punto, se la sua morte avvenuta sul campo di battaglia secoli fa e la sua permanenza nel Valhalla non fossero che altre porte, altri lidi….
Nella mente ebbe la fugace visione di alcuni bambini attorno a un fuoco; avevano gli occhi sorridenti e i capelli lisci. Mangiavano un dolce. Fu rasserenato dal pensiero che il giorno dopo i loro padri avrebbero potuto scendere in mare a pescare, perché Il Serpe di Midgard non ci sarebbe più stato. E i figli si sarebbero leccati le dita, mangiando il pesce arrostito.
Sapeva che avrebbe potuto scagliare un solo colpo, prima di essere travolto dall’attacco mortale dell’Uroboro. Lasciò la lancia e prese il martello del suo compagno d’arme ─ caduto ─ Snorri. Era un’arma di enormi proporzioni e pesante, l’unico in grado di maneggiarla era il guerriero che ora lì giaceva, morto, stritolato dalle spire del grande mostro.
Buri caricò il nemico, con le braccia sollevate e i capelli e la barba scarmigliati. E il serpente scattò come un lampo accecante e le enormi fauci si serrarono. Il berserk impresse nel colpo che portò un grido che pareva provenire, più che dal suo ventre, da chissà quali abissi ribollenti di furore e caos.
La notte era ancora profonda e silenziosa Signora. Le stelle scomparivano, divorate da tentacoli di oscurità. Le onde si calmarono, oleose, mute. La battaglia era finita.
Quando Buri rientrò nella grande sala di Zirmansala il sole non era ancora sorto. Suoi compagni erano solo il buio e il freddo, altrimenti era solo. Subito lo vide moglie, Firna, mentre era intenta a mettere altra legna nel fuoco. Avrebbe poi cominciato a preparare il latte e il pane, caldi, per la colazione.
“Sei andato, infine?”
“Dovevo.”
“Aspetta… prendi un po’ di latte caldo.”
“No, preferisco un corno di birra.”
“É una bevanda che più si addice alla sera e alla baldoria la birra, e poi alla notte. Sta per sorgere il sole.”
“Lo so.” E prese comunque il corno di birra.
Egli sedette sul suo scranno di legno ─ intagliato con figure di eroi e mostri ─ vicino al fuoco. Il possente corpo tremò per un istante. Era ricoperto di sangue dalla testa ai piedi. Molto era suo. Bevve tutto in poche e grandi sorsate.
“Grazie.”, disse, un po’ stanco, quando la moglie gli porse la pipa fatta di osso di balena. Ne aspirò grandi boccate, con profonda soddisfazione.
Le fiamme del fuoco gli danzarono sulla barba irta, e sulle mani ruvide, e sugli occhi scuri, fin quando non si chiusero. Spirò così, immobile da sembrare pietrificato, con le braccia conserte, la pipa in bocca e le grande schiena e le spalle raccolte, come se non fosse il tempo di dormire, ma di tenersi pronti a un’improvvisa ripresa della lotta.
Nella Lessinga Saga si dice che Odino lo abbia in tal guisa ─ proprio in questa posa ─ tramutato magicamente in pietra, e che riposi in una caverna nelle profondità della terra, meditando davanti a un fuoco che non si spegne mai.