Fantasy e psicologia – Intervista a Chiara Leonetti

 

Ho avuto l’occasione di intervistare l’attrice e psicologa Chiara Leonetti e ne ho approfittato per farle alcune domande su un tema che è già stato affrontato in altri articoli ma che, nondimeno, offre sempre spunti interessanti per trovare alcuni parallelismi tra la creazione di opere di genere fantastico e i processi mentali che avvengono tra chi quelle opere le legge o le vede al cinema.

Prima una breve biografia di Chiara Leonetti.

Nasce come artista formandosi a Milano sotto la guida di Michael Rodgers (Actor’s Studio). Si perfeziona in recitazione cinematografica studiando con numerosi acting coach, soprattutto internazionali e, parallelamente, si laurea in Psicologia Clinica. Attualmente prosegue il suo percorso formativo presso la Scuola Europea di Psicoterapia Ipnotica e svolge il lavoro di attrice, psicologa e formatrice aziendale. Fa parte, inoltre, della redazione del sito www.cinemaepsicologia.it, dove si occupa di video recensioni e interviste.

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Ciao Chiara, ti ringrazio per avere accettato di rispondere a qualche domanda sull’argomento.

Ciao Alessandro, grazie per questo stimolante invito a parlare di Fantasy e Psicologia, un connubio perfetto!

Prima del boom di serie e film di successo degli ultimi anni, il genere fantasy è spesso stato visto, superficialmente, come nient’altro che una forma di intrattenimento d’evasione. Partiamo da qui: che significato ha per l’uomo moderno l’evasione?

In Psicologia, l’evasione è una fuga dalla realtà, un meccanismo che porta a fuggire dinnanzi a noia, insoddisfazione, responsabilità personali, problemi avvertiti come insormontabili e conflitti stremanti. L’intento è quello di ricercare, in una dimensione parallela e fantastica, quella sicurezza e quella calma che l’individuo non riesce a ritrovare nella sua quotidianità. Uno strumento di evasione considerato “innocuo” è il libro. Attraverso il racconto, di qualsiasi genere, si ha l’occasione di abbandonare, per un periodo limitato di tempo (quello legato alla lettura) il proprio mondo ordinario, noioso o doloroso, per entrare in un mondo straordinario, più accattivante o più rilassante, a seconda del tipo di narrazione. Si tratta di abbracciare una realtà nuova e diversa che sembra ricalcare il meccanismo del sogno… ci si avventura in un luogo dove la fantasia e l’immaginazione hanno libera espressione e dove il tempo e lo spazio perdono la loro dimensione. Il desiderio di evasione, di per sé, non è né positivo né negativo. In alcuni casi, il fine delle strategie di fuga dalla realtà è quello di permettere di “staccare” da ciò che procura disagio, ricaricare le batterie e, successivamente, affrontare meglio la quotidianità.

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Perché quando si legge una storia che contiene elementi palesemente finti, o perlomeno non attinenti al nostro reale quotidiano, siamo disposti tuttavia a prenderli per veri e a lasciarci coinvolgere sospendendo la nostra incredulità?

Il racconto è una metafora in grado di parlare direttamente al nostro inconscio, ci trasporta in un territorio che va oltre la logica razionale e ci aiuta a far emergere sentimenti, pensieri, paure, desideri che, molto spesso, restano inespressi o celati. Quindi, le leggende, le favole, le poesie, le narrazioni sono delle vere e proprie figure retoriche simboliche che affascinano, all’interno delle quali vivono svariate figure archetipiche, ognuna con una funzione sia drammaturgica che psicologica. Ad esempio, il Mentore (o Vecchio saggio) è un archetipo positivo che ha il compito di aiutare l’Eroe nel suo viaggio: la sua funzione drammaturgica è quella di insegnare, preparare, motivare; dal punto di vista psicologico, invece, egli rappresenta il Sé, il dio dentro di noi, la parte di noi più saggia, più nobile. Il viaggio che l’Eroe di un racconto compie, diventa, quindi, il viaggio personale del lettore e, l’aspetto più interessante, è rappresentato dal fatto che l’ascolto o la lettura di una storia è in grado di attivare una trasformazione interiore, in quanto si scopre di riuscire a vedere le proprie esperienze personali da un punto di vista diverso, alternativo.

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Quale legame si può instaurare tra un lettore civilizzato di oggi e un personaggio come Conan, creato da Robert E. Howard negli anni ’30 del secolo scorso? Psicologicamente, cosa rappresenta per noi la figura del selvaggio?

Conan, nonostante provenga da una terra brulla, non “civilizzata”, ha delle qualità con cui chiunque può identificarsi e che chiunque può riconoscere in sé stesso poiché egli è spinto da impulsi universali comprensibili a tutti: il desiderio di essere amato, di riuscire nelle varie imprese, di sopravvivere, di essere libero, di vendicarsi, di riparare i torti, di cercare di esprimere la propria personalità. Questo Eroe selvaggio, lontano dallo stereotipo di superuomo senza difetti, mostra valori, emozioni e motivazioni universali che prima o poi ciascuno di noi sperimenta, come la rabbia, la competizione o la vendetta. Inoltre, un altro aspetto importante che lega il lettore “civilizzato” a un personaggio come Conan è dato da una combinazione unica di caratteristiche contraddittorie che quest’ultimo possiede e che lo rendono, inevitabilmente, più realistico e umano: ad esempio, è un barbaro ma ha un animo nobile, ha una fisicità ingombrante ma è dotato di una mente veloce e astuta. Infine, scatta una sorta di ammirazione per questo Eroe per la sua capacità di riuscire a fronteggiare avversità ed eventi traumatici con energia e coraggio, una capacità che noi chiamiamo “resilienza”, ad oggi considerata quasi come un superpotere.

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Che ruolo hanno per noi i miti? Come è possibile che un mito, una storia, possa unire un popolo e avere una forza propagandistica tale da spingere, ad esempio, un imperatore come Ottaviano, nel 27 a.C., a volere a tutti i costi che Virgilio componesse l’Eneide?

Joseph Campbell (saggista e storico delle religioni), studiando i miti, si rese conto che sono fondamentalmente la stessa storia, raccontata un numero infinito di volte e con innumerevoli varianti. Studiando anche il cinema, mi sono accorta che aveva ragione: vi sono dei modelli senza tempo, universali, che esistono in tutte le culture e in tutti i periodi storici. Essi sono assai vari, esattamente come le mille sfaccettature dell’essere umano, ma immutabili nella loro struttura di base: contengono degli elementi ricorrenti che provengono dalle zone più profonde, talvolta più oscure, della mente umana. Mi è venuto spontaneo collegare il pensiero di Campbell a quello di Jung, il quale analizzò gli archetipi, cioè personaggi o forze ricorrenti nei sogni di ciascun individuo e nei miti di ogni cultura. Quest’ultimo ipotizzava che gli archetipi sono in grado di riflettere i numerosi lati della mente umana e che le personalità si dividono in questi personaggi per vivere il dramma delle proprie vite. Nei miti di tutto il mondo sono presenti dei personaggi come il giovane Eroe, il Vecchio saggio, lo Shapeshifter e l’Ombra antagonista che appaiono anche nei nostri sogni e nelle nostre fantasie ripetutamente. Quindi, i miti sono costruiti secondo un determinato modello che riecheggia la verità interiore e che stimola l’autoriflessione e l’autointrospezione.

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Vista anche la tua esperienza come attrice, che tipo di comunicazione si instaura tra chi racconta una storia, anche di fantasia, e chi la ascolta? Ha una valenza particolare? Può stimolare pensieri ed emozioni che in un comune dialogo non verrebbero fuori?

Trovo delle similitudini rispetto al mio modo di recitare e il mio modo di condurre una seduta di ipnosi, ad esempio. Il fine è sempre lo stesso: cercare di comunicare con la mente inconscia dell’altro e smuovere qualcosa. L’inconscio ama le immagini, i simboli, le ripetizioni… li raccoglie e li utilizza nel modo più vantaggioso possibile. Che io sia su un palco o in una stanza accanto a un paziente, cerco sempre di utilizzare un tono pacato, un ritmo coinvolgente e penetrante, una voce profonda per relazionarmi all’altro… una modalità di comunicazione che la mente inconscia predilige. L’abilità di un attore o di uno psicologo che utilizza l’ipnosi come strumento, sta nella capacità di saper suonare le “corde giuste” in modo da evocare atteggiamenti, aspettative, motivazioni e comportamenti e indurre un cambiamento, una trasformazione interiore. Lo spettatore o il paziente si sente coinvolto nella narrazione, attiva la parte creativa della mente, visualizza nella sua mente scene, immagini. E così, il racconto di una storia o di una metafora diventa un viaggio di crescita personale.

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Questa era l’ultima domanda. Grazie mille per la tua disponibilità!

Grazie a te per questo viaggio molto interessante.

2 commenti

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