“Soon the black book will be opened
with consequences beyond any nightmare.
Be ready to face its evil revelations.
Today, at the whisper of the darkest winds, a new saga begins.”
“Presto il libro nero sarà aperto
con conseguenze aldilà di ogni incubo.
Siate pronti a fronteggiare le sue malvagie rivelazioni.
Oggi, al sussurro dei venti più neri, comincia una nuova saga.”
Dark Reign of Fire
Che si tratti di band musicali o di saghe letterarie fantasy, uno degli aspetti portanti di una creazione artistica è la sua identità. Vale a dire quell’insieme di caratteristiche specifiche che distinguono un’opera o un artista dagli altri: stilemi utilizzati, visione poetica, capacità tecniche e, per finire, elementi solo apparentemente di contorno quali la veste grafica e il nome.
A sorpresa, nel 2006 i Rhapsody si trovarono a dover cambiare nientemeno che il loro nome. In seguito alla miglior promozione in terra americana offerta dalla Magic Circle Music di Joey DeMaio, i nostri attirarono l’attenzione di un artista che aveva già depositato il nome Rhapsody e ne deteneva l’utilizzo esclusivo. Turilli e Staropoli si videro quindi costretti a modificare il loro logo aggiungendovi di mala voglia un mai troppo apprezzato epiteto: Of Fire.
In merito ai cambiamenti di identità, però, le novità non erano finite. DeMaio, padre padrone dei Manowar nonché proprietario dell’etichetta che aveva ora sotto contratto la band italiana, tentò in ogni modo di avvicinare i suoi figliocci a quanto gli stessi Manowar erano soliti fare. La prima mossa, dopo la pubblicazione del precedente Symphony of Enchanted Lands II, fu infatti quella di dare alle stampe il dvd Visions from Enchanted Lands, una sorta di documentario sul tour nord americano dei Rhapsody (of Fire). Le canzoni tratte dai concerti sono inframmezzate da capitoli dedicati ai fans o ai backstage; una sorta di versione speculare dei numerosi dvd dei Manowar chiamati Hell on Earth. Facile immaginare come nelle intenzioni del produttore ci fosse l’intenzione di licenziare periodicamente uscite aggiornate di questi live, chiamandoli magari Visions of Enchanted Lands part 1, 2, ecc… Non a caso nel suddetto dvd è presente pure una cover dei Manowar: The Power of Thy Sword.
Al di là delle evidenti differenze tra un dietro le quinte, a dir poco sopra le righe, dei Manowar e uno, molto più tranquillo, dei Rhapsody (of Fire) il dvd ebbe il merito di presentare una volta per tutte il gruppo in sede live e fugò qualsiasi dubbio residuo sulla bontà della loro proposta in sede di concerti. I musicisti registrarono performance di qualità dove risultarono affiatati, in cui la riproposizione dei classici fu convincente e il tasso tecnico/adrenalinico degno dei migliori act del metallo internazionale.
Per finire il discorso sull’identità, sarebbe stato Triumph or Agony, il nuovo cd, a mettere in evidenza un ulteriore tassello di maturazione nel gruppo. Niente più doppia cassa schiacciasassi, niente più cavalcate al fulmicotone su ritmiche tirate, meno orchestra e molti più mid tempo. I Rhapsody of Fire si presentarono a tutti gli effetti come un’evoluzione dei Rhapsody e non come la stessa identica band (nel bene e nel male).
Lo stesso Luca Turilli, chitarrista e ideatore di tutti i testi della saga, in Triumph or Agony rallentò il passo della narrazione e si concesse per quasi tutta la durata dell’album delle digressioni sul passato delle Enchanted Lands o sulla descrizione dei sentimenti del tormentato protagonista Dargor. Un approccio più ragionato che aggiunse sicuramente spessore alla scrittura, per quanto possibile, ma che faticò a mantenere alto il tasso di adrenalina in una saga che aveva sempre avuto nell’impatto “visivo” ed emotivo immediato uno dei suoi punti forti. Meno informazioni, meno azione, niente pagine riempite con date e vicende ma solo uno stringato riassunto della situazione di partenza, il minimo necessario per proseguire il viaggio.
L’esempio perfetto di questa sintesi evolutiva dei Rhapsody of Fire risiede nella prima canzone: quella Triumph or Agony che dà il titolo all’album e che, pur essendo praticamente l’unico brano veloce del lotto, pure presenta un incedere più ragionato, una velocità controllata, un’orchestrazione più asciutta. La voce di Lione è tonante come al solito ma si esprime su tonalità meno alte rispetto al consueto, il tappeto di tastiere di Staropoli è bello presente (a discapito parziale delle chitarre) e gli assoli sono brevi ed essenziali. Come era facile intuire già dall’intro strumentale intitolata Dar-Kunor, il testo della canzone Triumph or Agony illustra il desolato panorama di Dar-Kunor, il pericoloso territorio nemico dove la compagine di eroi si ritrova a cercare il libro nero sotto la guida del saggio Iras Algor.
Da qui la narrazione prende le mosse per raccontare nella successiva Heart of the Darklands la storia delle Terre Oscure, la porzione di mondo che il malvagio Nekron ottenne per sé in seguito alla vittoria conseguita nella sesta delle guerre primordiali e al centro della quale costruì la terribile città di Hargor. Di nuovo un pezzo vivace introdotto stavolta da un bel giro di chitarra e sostenuto dalla doppia cassa di Holtzwarth, che però non spinge sull’acceleratore, e che ha dalla sua un ritornello particolarmente suggestivo. L’essenziale esiguità delle liriche non lascia molto altro da dire se non che il secondo pezzo risulta un piacevole excursus sul passato del mondo creato dai Rhapsody of Fire.
Dopodiché la narrazione, invece di andare avanti, procede all’indietro con un balzo tanto nostalgico quanto efficace con la duplice Legend and Myth of the Emerald Sword. La prima parte di questo componimento è costituita dalla canzone Old Age of Wonders, in cui Iras Algor spiega ai compari come la terra desolata che ora stanno attraversando fosse stata in origine territorio degli elfi, prima che la vittoria di Nekron spingesse la flora e la fauna a morire e ad arrendersi all’oscurità. Il brano è una dolce ballata guidata dai suadenti flauti di Manuel Staropoli e dalla sognante voce di Fabio, che in questo album gioca a esplorare più in profondità alcuni aspetti della propria vocalità, in particolare quelli legati alla dimensione melodica. Il canto triste delle strofe, che constata la perdita irreparabile di una lontana ricchezza, è accompagnato da un bel coro di voci maschili mentre, per contrasto, il ritornello che rievoca la gioiosa vitalità degli elfi è sottolineato dalla squillante voce di Cinzia Rizzo.
Ma è con The Myth of the Holy Sword che torna a scorrere un po’ di adrenalina epica: una bella intro del rullante di Holtzwarth dà l’avvio a un mid tempo in perfetto stile Manowar. Lione sporca un poco la voce, chitarra e basso staccano un ritmo marziale e tastiere e cori pompano testosterone mentre scopriamo come è nata la mitica spada di smeraldo. L’elfo Loinir, per vendicare la morte del fratello Naimur per mano di un Signore Oscuro, prese lo smeraldo con cui il fratello era stato torturato e lo trasformò in una spada infusa con il potere degli angeli. La spada si rivelò così potente da incutere timore allo stesso Loinir e i maghi delle Terre Incantate la nascosero oltre i Cancelli d’Avorio, per evitare che cadesse nelle mani sbagliate. In questa canzone fa capolino per la prima volta la lingua italiana, mentre il secondo chitarrista Dominique Leurquin si esibisce in un bell’assolo dal gusto più rockeggiante rispetto al neoclassico Turilli. The Myth of the Holy Sword si conclude con un breve omaggio al Guerriero di Ghiaccio e alla precedente saga, terminata con il quarto cd, e risulta essere il pezzo più intenso e convincente fin qui ascoltato: forse un segnale non proprio incoraggiante nel momento in cui la nuova saga stenta ancora a decollare.
Con Il Canto del Vento ci fu una vera e propria novità: una canzone scritta per intero da Fabio Lione, musica e parole. Il cantante aveva già dato prova delle sue doti compositive con l’altra band in cui aveva militato, i Vision Divine, ma nei Rhapsody of Fire non aveva fin qui mai avuto lo spazio per esprimersi anche sotto questo aspetto, essendo Alex Staropoli e Luca Turilli gli unici compositori. Il risultato è una ballata per pianoforte anomala nell’economia del gruppo ma indubbiamente di valore, cantata interamente in italiano. Il testo risulta apparentemente slegato dalla saga ma può benissimo essere visto come un momento di riflessione di uno dei protagonisti che si strugge al ricordo dell’amata da cui è ora separato. Di nuovo i Rhapsody of Fire omaggiano la canzone melodica italiana e bisogna ammettere che, al di là dei gusti personali, hanno avuto il merito di sfidare i gusti snob del metallaro medio e flirtare con una dimensione musicale ben distante dall’epica muscolare che ci si aspetterebbe da loro.
In genere dopo un rallentamento o una pausa il ritmo narrativo, in un libro così come in un album, richiederebbe un’impennata netta capace di risaltare ancora di più per la logica dei contrasti. Invece i Rhapsody of Fire piazzano la super melodica e, di nuovo, cadenzata Silent Dream. Il brano in sé non aggiunge niente di particolarmente significativo, né con i suoi cori ariosi e le sue tastiere festanti né con le sue strofe che possono benissimo adattarsi a uno qualunque dei protagonisti in cerca di speranza e luce nel bel mezzo delle circostanze avverse.
Bloody Red Dungeons è il terzo mid tempo consecutivo e la prova che con questo album i Rhapsody stavano davvero tentando di allontanarsi dall’abuso di alcune delle soluzioni che li avevano condotti al successo: cioè la velocità e gli assoli funambolici innestati su partiture complesse che omaggiavano musica classica e band progressive. L’orchestra è in secondo piano mentre a farla da padrone sono un incedere maestoso e marziale e l’interpretazione sanguigna di Lione, sempre più a suo agio nelle vesti di narratore/mattatore. Ancora una volta il testo rimanda alle sensazione che la terra di Dar-Kunor suscita nel combattuto Dargor, ex-discepolo favorito delle forze del male.
Imperterriti nella loro nuova direzione, i Rhapsody of Fire inseriscono un’altra ballata: Son of Pain (presente anche in versione italiana come bonus track). Ancora voce e pianoforte dialogano su un tappeto di archi per celebrare la rinascita a nuova vita di Dargor, liberatosi dalle catene dell’oscurità e risorto come paladino macchiato cui è stata concessa la possibilità di redimersi. Il testo è toccante e il ritornello esplode in tutta la sua maestosità con un Lione come sempre sugli scudi. Niente batteria, niente chitarre, niente basso, solo voce e orchestra.
Spiazzati da una scaletta quanto mai anomala e dall’assenza pressoché totale di avvenimenti nella storia, gli ascoltatori si beccano in coda all’album il vero pezzo da novanta del disco: la monumentale, a dir poco, The Mystic Prophecy of the Demon Knight, lunga suite composta da cinque atti. Nel primo, A New Saga Begins, le cornamuse e gli arpeggi folk rimandano immediatamente alla celebre Symphony of Enchanted Lands, ma con in più il supporto dell’orchestra e, finalmente, degli attori! Come se i Rhapsody of Fire si fossero svegliati improvvisamente e si fossero ricordati di avere una storia da raccontare declamano le imprese dei prodi eroi che si destreggiano tra mille pericoli per raggiungere la caverna ove è custodito il libro di Nekron. Enigmi nascosti nella roccia, fiumi rossi da attraversare passando su massi invisibili, fino all’ingresso nei cancelli della morte dove nacque il Black Order. La musica è una festa medievaleggiante, punteggiata da un’alternanza di strofe e ritornelli al termine dei quali, alleluja!, viene fuori l’anima sinfonica e progressiva del gruppo insieme alla voce della soprano Bridget Fogle, già presente nei dischi precedenti. Al termine del primo atto fanno il loro ingresso gli attori che interpretano Dargor, Iras, Khaas e gli altri. I dialoghi prendono il sopravvento insieme agli effetti ambientali, mentre l’orchestra “si limita” ad accompagnare la storia come se si stesse assistendo a un audiolibro. E in effetti, chiudendo gli occhi, in questo secondo atto chiamato Through the Portals of Agony è facile visualizzare per filo e per segno tutto quello che accade senza però, e questa è la cosa più rimarchevole, che ci sia un calo di ritmo o intensità. Della serie: quando tutto funziona a dovere si riesce a tenere alto il livello di attenzione qualsiasi cosa si faccia.
Come uno schiaffo in piena faccia, appena Dargor recita la sua ultima battuta, batteria e chitarra ruggiscono feroci per poi deflagrare insieme ai musicisti in una sfuriata death degna di gruppi ben più aggressivi dei Rhapsody of Fire. In The Black Order Lione sfodera il suo screaming acido mentre i cori si trasformano in proclami da gang di strada, brutali e secchi. Eppure anche nella violenza fanno capolino le digressioni tecniche e le variazioni ritmiche. Verrebbe quasi da gridare “ben ritrovati”, quando sul più bello inizia il quarto capitolo: Nekron’s Seventh Book, in cui gli attori prendono di nuovo la scena per rubare il tanto sospirato libro nero. Alla conquista del tesoro corrisponde però un amaro premio: in Escape from Horror creature non morte sbucano fuori da pavimento e pareti e cercano di afferrare gli eroi che tentano una fuga disperata per salvarsi dagli orrori risvegliatisi a difesa del prezioso e oscuro bottino. Al terrore segue un’apertura rarefatta e melodica, presto spazzata via dalla poderosa voce di Christopher Lee, il narratore per eccellenza della saga, che traghetta gli ascoltatori verso l’ultimo ritornello, ricollegandosi così con la prima parte di The Mystic Prophecy of the Demon Knight, chiudendo un cerchio perfetto.
La conclusiva Dark Reign of Fire è in realtà una sorta di coda alla composizione precedente. Il coro sottolinea una volta di più i pericoli che l’eredità di Nekron rappresenta per il mondo intero e Lione si congeda con tutta la sua esplosiva verve vocale. Eppure non è sua l’ultima parola, Christopher Lee rimbomba proclamando l’inizio di una nuova grande saga, come se tutto quello che si è sentito finora in ben due cd non fosse altro che un lunghissimo cappello introduttivo e in effetti, conti alla mano, di eventi non è che ce ne siano stati molti. L’affascinante voce di Susannah York termina definitivamente l’album con una benedizione a favore del gruppo di protagonisti, lasciando decantare dolcemente su atmosfere elfiche il turbinio di emozioni che si sono risvegliate negli ultimi venti minuti.
Per chi avesse comprato l’edizione speciale del cd per i fan italiani (con tanto di bandierina nazionale in miniatura in copertina, altra caratteristica un po’ pacchiana e molto “manowaresca”) ci sono ancora la versione italiana di Son of Pain e una versione radiofonica ridotta di A New Saga Begins; ma soprattutto Defenders of Gaia, un curioso autotributo dei Rhapsody of Fire a ciò che erano stati i Rhapsody degli inizi, quasi un voler sottolineare il cambio di identità che la band stava mettendo in atto.
A conti fatti Triumph or Agony fu un album di passaggio, sorprendentemente coraggioso nel volersi staccare dalle caratteristiche più tipiche del Rhapsody-sound e azzardato nel suo insistere su una scaletta con ben pochi dosi sia di metal veloce sia di classicismi sinfonici, a favore di soluzioni più semplici e tranquille. Esperimento a dire il vero riuscito solo in parte, specialmente per quanto riguarda la mancanza di una trama avvincente che tenga desta l’attenzione con situazioni al cardiopalma, e che presenta invece testi che spaziano su altri argomenti, siano essi il passato del mondo di fantasia creato da Turilli o i sentimenti dei personaggi. A ogni modo la lunga suite The Mystic Prophecy of the Demon Knight valeva da sola il prezzo del biglietto.
Quanto all’identità del gruppo, che in questa occasione aveva subito scossoni da più punti di vista, da lì a breve il sodalizio con DeMaio e la Magic Circle Music sarebbe giunto a una “drammatica e tragica conclusione” (per citare il lessico tanto caro ai Rhapsody of Fire).
“Pianto, dimenticato pianto
prigioniero della sera
un respiro sempre acceso
seguo e cerco lentamente
nel sospiro del destino”
Il Canto del Vento