Satampra Zeiros: Un riflesso delle visioni di Clark Ashton Smith e Lord Dunsany

Da qualche parte, in uno dei tanti spazi nel “nostro” grande mondo della letteratura fantastica; in un’era che di fatto – e non per modo di dire – è più antica del nostro stesso concetto di antichità, nel continente perduto di Hyperborea fece la sua comparsa un Dio, dalla testa che vagamente ricorda quella di un rospo e di un pipistrello allo stesso tempo; un corpo enorme, flaccido e deforme, pieno di tentacoli e appendici, che con il suo respiro fa ribollire lo stagno color fuliggine dove imbevuta – con lui a bagno – si immerge la sua “prole informe” ¹ . Ebbene, questi certamente farà tornare alla mente in molti di voi la creatura che in un’altra antichità descritta – quella hyboriana – Conan il Barbaro affrontò a Xuthal, o quella non meno mostruosa che riemerse nel Khauran; oppure l’altra, ma qui ci andiamo più cauti, che in una più vicina modernità, nel Sussex in Inghilterra, ha schiacciato sotto il suo zoccolo la testa di uno studioso bibliofilo rapace come Lucas Corso, ma non abbastanza tale da leggere tutto il necessario nel libro per non farsi raggiungere da una maledizione “scoperchiata” in Honduras. Spiacente deludervi: no. Questi non erano che sicofanti, emanazioni, o semplici emissari nello spazio e nel tempo agli ordini di un maestro ben più grande e che abitava l’Iperborea. E se mai dovesse venirvi in mente qualcosa al di fuori della visione howardiana, ma sempre dentro quella di Conan, come in Conan il Bucaniere (De Camp e Carter, 1971) è bene sapere sin da subito che quell’idolo vivificato , anche se fatto ad immagine e somiglianza di Tsathoggua, non era poi diverso da un altro, più simile invece a Shelob, che nella storia di Lord Dunsany sarà fatale per Thangobrind. Purtroppo, il sinistro Thangobrind, agile, scaltro ed esperto ladro-gioielliere, non era pronto e forte come Conan per sopravvivere all’idolo magicamente animato, e di lui non avremo più traccia, ma in compenso oggi non ci libereremo facilmente di Lord Dunsany che secondo qualcuno…

Nessuno può imitare Dunsany, e tutti quelli che lo hanno letto ci hanno provato(Catherine L. Moore)[1]

Ma Catherine non ha tenuto conto di Clark Ashton Smith che ha avuto apparentemente una sola preoccupazione per scrivere The Tale of Satampra Zeiros: fare qualcosa nello stile di Lord Dunsany. Lo scopo del geniale scrittore era quindi un semplice esercizio di stile? Si direbbe di si. Ma è evidente che il genio californiano si è fatto prendere dalla mano, forse perchè il protagonista del suo racconto ne ha persa una, e alla fine, da un componimento che voleva essere “di maniera” – anche se con Lord Dunsany e Smith il manierismo è disciplina disusa – è scaturito qualcosa di inaspettato e superiore, destinato a non tramontare, ma al contrario, pur senza appartenere a quei racconti sempre citati come L’ Impero dei Negromanti ha alla fine disseminato tesori e concetti che erano destinati a durare nella Fantasy e non solo.

Il Racconto di Satampra Zeiros lambisce molte sacche di pensiero appartenenti a Lord Dunsany, oltre a replicarne alcune delle tecniche più caratterizzanti per costruire un racconto che non è scheggiato, frammentato e giocato sul contrasto della bellezza delle aree risolte e il fascino di quelle lasciate insolute come spesso usava fare il barone, ma si prefigge di usare i registri di Dunsany sviluppando una compiutezza assoluta. Nella prima parte del breve racconto iperboreano ritroviamo un’introduzione che mette in atto quella serie di meccanismi utili per una presentazione efficace e per chiarire le ragioni dei personaggi, soluzione spesso usata nei racconti di Lord Dunsany tra i quali Come Nuth cercò di derubare gli Gnoli (1912). In questa brevissima storia dal sapore fiabesco l’introduzione è piuttosto sproporzionata rispetto alle zone decisive del racconto e si sviluppa nel descrivere minuziosamente l’abilità negli affari di Nuth e di come la sua attività non ha pertanto “bisogno di pubblicità”. Ovviamente la parte introduttiva della storia di Nuth e Tommy Tonker ha una sua funzionalità. E’ per mezzo della descrizione minuziosa della reputazione di Nuth che Dunsany accentua poi il suo ricorso al sotterfugio che ne inquina l’immagine limpida, risultando tuttavia un prologo fortemente umorale, che fonda la sua bellezza su una vivace “bizzosità aneddotica” tipica del racconto umoristico nonostante il tono grave della sua critica anticapitalista. Cosa che potremmo trovare in soggetti anche molto diversi tra loro, come Lewis Carrol, Italo Calvino e Gianni Rodari, un presagio che diverrà fatto concreto in opere avviate alla parte finale della produzione letteraria del Dunsany come Dean Speanley (1936), non a caso adiacente a romanzi del tutto realistici quali Up in the Hills (1935) tanto per dirne uno. Clark Ahston Smith fa un uso diverso di questo accessorio anche se mantenendo un’apparenza simile. Il “prologo” di Satampra Zeiros, concentrandosi sul mettere in evidenza la discesa sociale e la grama vita dei due ladri ha anch’esso la funzionalità di giustificare e rendere credibile la temerarietà dei protagonisti, dando incisione al loro cinismo e alla mancanza di timori per spingersi a Commoriom attraverso l’insidiosa foresta, incuranti della sentenza di una sibilla che condannava tutti coloro che avrebbero osato tentare un gesto così ardito.

“…Nella nostra occupazione, come in ogni altra,bisogna spesso fare i conti con le vicissitudini della fortuna: e la Dea del Caso non è sempre prodiga dei suoi favori. Così accadde che Tirouv Ompallios ed io, al tempo di cui scrivo, ci trovassimo in una condizione di ristrettezza economica che, sebbene temporanea, era ciononostante estrema, molesta e importuna, poiché veniva al seguito di giorni più prosperi, di notti più vantaggiose. La gente era diventata maledettamente cauta, attenta ai gioielli e agli altri oggetti di valore, finestre e porte erano doppiamente sbarrate, nuovi e complicati lucchetti erano in uso, le guardie erano divenute più vigili…”

L’introduzione evoca una forte atmosfera ed è impossibile non notare che Smith, soltanto usando un accessorio, ovvero una parte introduttiva di pura funzionalità, riesca a fotografare generazioni e generazioni di Ladri, avventurieri e “Tombaroli” nel romanzo Fantasy e non solo. Ritroviamo in questo prologo soggetti cari a Fritz Leiber e a Dungeons and Dragons in tutti i suoi “Thief” avventurieri.

“…Io, Satampra Zeiros di Uzuldaroum, scriverò con la mano sinistra, poiché non ne ho più l’altra, […] come avvertimento a tutti i buon ladri e avventurieri che possono aver la ventura di udire qualche mendace leggenda sui tesori perduti di Commoriom ed esserne tentati. Tirouv Ompallios era mio amico per la vita […] noi portammo a termine con successo più di una impresa davanti alla quale compagni di fama maggiore della nostra sarebbero indietreggiati costernati. […] mi riferisco al furto dei gioielli della Regina Cunambria, che erano conservati in una stanza dove vigilavano sessanta rettili velenosi: e lo scacco della resistente scatola di Acromi, in cui si trovavano tutti i medaglioni di una antica dinastia di Re Iperboreani. È vero che quei medaglioni erano difficili e pericolosi da vendere, e che li cedemmo con enorme sacrificio al capitano di un vascello proveniente dalla remota Lemuria: nonostante ciò, lo scasso di quella scatola fu una gloriosa prodezza, perché lo si dovette compiere in assoluto silenzio a causa della vicinanza di dodici guardie tutte armate di tridenti […] Ma non devo indugiare troppo e troppo loquacemente,per quanto sia grande la tentazione di divagare su ricordi eroici e sull’alto fascino di valorose e abili azioni…”

Tranquillo Satampra! hai indugiato per una buona causa, sei scusato, perchè questo piccolo inciso dove Smith per mezzo di Satampra Zeiros specifica la difficoltà di rendere fruttuosa perfino la fortuna ci fa capire che certamente egli non ha dimenticato di indossare quel mantello “picaresco-fantasy” trovabile anche in allettanti guardaroba come la saga di Don Manuel di Poictesme (Cabell, iniziata nel 1919) o Don Rodriguez di Shadow Valley (Lord Dunsany, 1922) e questo introduce una seconda area del pensiero di Lord Dunsany sfiorata da Satampra Zeiros che è quella degli “Eroi… ma a perdere”, e che troviamo in Thangobrind, nel tesoro dei Farfurelli o Salvarsi per Miracolo. Storie dove la sconfitta è assai amara e non è infrequente una risoluzione improvvisa e tragica trattata con toni sardonici che non guardano in faccia a nessuno, nè alle figure eroiche come il tronfio Alderic (da non confondere con Alveric de La Figlia del Re degli Elfi) che si introduce nei cunicoli dei Gibberlings; né a quelle più antieroiche come gli stessi Tommy Tonker e Nuth, o il furtivo Thangobrind. Questi elementi si esprimeranno ovviamente anche nel finale del racconto ma già qui riusciamo a renderci conto che l’operazione di Smith sta maturando in qualcosa di diverso che un esercizio di stile focalizzato su un angolo del pensiero dello scrittore di Dublino, ma piuttosto sembra quasi ch’egli stia portando il Lord Dunsany più Heroic Fantasy in relazione con quello umoristico e picaresco dei “Bravi a perdere” senza escludere tuttavia il Dunsany poeta, che crea dei frammenti di prosa originati dalla poesia, ma su questo forse spenderemo qualche parola in più sul finale.

La parte centrale della storia ha luogo nella foresta e Smith porta di nuovo la sua mano in questi sviluppi. Il racconto infatti lascia la zona propriamente attiva dei fatti nella narrazione sottaciuta di fondo, mentre la parte passiva è quella a cui effettivamente partecipa la narrazione diretta. Il racconto sottolinea brevemente, ma con forte incisione, che Satampra Zeiros e Tiruov Ompallios attraversano una campagna prima della grande foresta, approvvigionandosi nelle fattorie con furti e razzie, ma perpetrando anche sulle ingenue genti di campagna delle malefatte che nel racconto vengono giudicate memorabili, in senso negativo del termine, si intende.

“… il nostro viaggio fu piacevole, e ci distraemmo molto nell’osservare i vari paesaggi attraverso i quali passavamo, e la gente che li abitava. Alcune di quelle persone, ne sono sicuro, devono ancora ricordarci con rammarico, perché non ci negammo nulla di ciò che poteva tentare la nostra fantasia o i nostri appetiti. Era un paese piacevole, pieno di fattorie e di orti, di acqua corrente e di boschi verdi..”

Con questa annotazione, rapida, eppure così incisiva Smith mette in moto innegabilmente i pensieri del lettore, i più torbidi e pessimisti, ottenendo una limatura psicologica dei due personaggi che arricchiscono l’archetipo di stampo epico dei ladri reduci da leggendarie avventure in una maniera notevolmente soddisfacente in un racconto breve. Eccetto questa annotazione, tutta la parte centrale del racconto svolta interamente nella foresta non è altro che una serie di descrizioni a catena della selva, dei fiori, delle bacche, degli animali e degli alberi, che spalma una fortissima tensione quasi Horror e a lungo respiro. Proviamo ad immaginare come sarebbe andata se la storia fosse stata scritta da esponenti qualsiasi di generi vari del Fantastico compatibili con questo racconto o semplicemente, se fosse stata un’opera di altri scrittori non interessati a tributare a Lord Dunsany in maniera così aderente.

Se a cimentarsi in questa prova fosse stata una scrittrice psicologica del terrore come Shirley Jackson, l’azione dei due ladri nei villaggi e nella zona rurale sarebbe stata descritta. Quest’ultimi avrebbero incontrato fuor di dubbio una qualche famiglia stralunata, con i suoi inquietanti segreti domestici compresi “nel pacchetto” e circostanze nelle quali impantanarsi. Tsathoggua avrebbe assunto un ruolo diverso e magari simile ad una divinità greca come Fobos o Deimos e forse non sarebbero stati I due ladri ad avere contatto con la presenza sovrannaturale a Commoriom.

Se invece a svolgere questo esercizio fosse stato un narratore di Horror più classico o di Fantasy a tinte scure si sarebbe data importanza alle torture, ai furti, alle razzie o gli stupri, e a quel volume di contenuti che Smith racchiude nella parola inequivocabile di “appetiti”, ma questo avrebbe senza dubbio defocalizzato l’obiettivo finale e creato i presupposti per aggiungere un personaggio sopravvissuto che avrebbe poi diviso in qualche maniera il ruolo di protagonista del finale con Satampra e Tirouv.

Sarebbe andata diversamente anche con uno scrittore di Fantasy Classica che avrebbe anch’egli guidato la narrazione nei villaggi e nelle fattorie, dove i due ladri mossi dagli ormai appurati “appetiti” negativi avrebbero avuto uno scontro a tono come presupposto per aggiungere un eroe alleato alla loro coppia che sarebbe diventata una squadra a tre. Ma anche questo avrebbe creato una potenziale difficoltà sul finale, e la presenza di un archetipo eroico, esigente d’una vittoria o di una morte epico-romantica, forse avrebbe smorzato “l’importanza della sconfitta” di cui è impregnato il racconto.

E’ piuttosto notevole come Smith, facendo uso di una narrazione dunsaniana e “anticlimatica” nella parte centrale, sia riuscito ad includere tutto senza generare nessun tipo di squilibrio o insoddisfazione al lettore. Egli opera la scelta più scomoda e al tempo stesso più onesta, che è anche la sola compatibile con il racconto, il quale non “lusinga nessuno” ma è al tempo stesso “sinceramente buono con tutti”, poichè un lettore di Horror psicologico o di Thriller rimarrebbe comunque soddisfatto dalla tensione nella foresta rappresentata dalla grande qualità delle sue descrizioni; un lettore di Horror moderno o di Dark Fantasy sarebbe comunque entusiasta dalla presenza di personaggi che riescono ad uscire dall’archetipo antieroico e “post-picaresco” assumendo un sorpendente realismo; ed infine, un lettore di Fantasy classica rimarrà comunque appagato anche senza l’aggiunta di un archetipo eroico, poichè il racconto mantiene comunque una sua grande tonalità epica in grado di preconizzare le avventure dei “Thief” ladri-avventurieri di Dungeon and Dragons  nel cammino sino a Commoriom e nella manifestazione di un nemico finale così immane e irripetibile, che a propria volta soddisferà infine anche quei lettori che si avvicineranno allo Smith solo per arricchire di un ornamento in più la propria passione per Lovecraft. Tutto questo ha permesso a Smith non solo di tenere in vita il suo proposito di fare qualcosa “alla Lord Dunsany”, ma anche di scrivere qualcosa di perfetto e apprezzabile da lettori odierni.

Si tiene a mente, naturalmente, quanto l’antimodernismo sia stata una componente seminale e imprescindibile nella Fantasy, e di come quest’ultimo, attraverso il rovinismo di John Ruskin abbia assunto poi anche una sua manifestazione con un ruolo di protagonismo della natura e la vegetazione. Il percorso nella foresta esprime questo principio attraverso le descrizioni di bacche velenose, falene dai “colori malvagi”, piante coriacee che corrompono il sentiero antico, scardinando tenacemente le pietre, dando pertanto un’immagine effimera dell’attività umana ; componenti di un naturocentrismo antimoderno che tuttavia non è propriamente collegato a quella centralità naturalistica, antimodernista ed ecologica che potremmo identificare in John Ruskin e nella fiaba Il Re del Fiume d’oro. La visione ecologista, rovinista, e contemplativa di Ruskin verso la maceria corrotta dalla pianta si è dimostrata per larghi tratti compatibile con quella decadentista, ovviamente, ma anche in certi – non tutti – punti delle visioni cristiane di Morris e Tolkien, e non meno con quelle pagane o “funzionalmente politeiste” di Lord Dunsany e Kenneth Morris. Lord Dunsany ha abbracciato in parte l’ecologismo antimoderno morrisiano nella zona finale della sua opera, come ne La Maledizione della Veggente, ma certamente il suo pensiero profondo ha avuto anche un fortissimo riflesso concentrato sulla squalifica assoluta di ogni visione antropocentrica, fatto che certamente non è accostabile ad un soggetto come John Ruskin. In fin dei conti, l’antimodernismo ecologista di Ruskin, rimodellato – con variazioni che ora non ci interessa sottolineare – da Morris e da Tolkien alimenta i presupposti di una centralità naturalistica funzionale alla creazione di un idillio utopico dove l’uomo elevato alla “virtù cavalleresca” è comunque custode e fruitore definitivo, mentre Smith, come dimostreranno gli scenari aridi di Zothique, o quelli insidiosi, cupi e melmosi di Averoigne, rappresenta il peso schiacciante del dominio naturale in chiave anti-antropocentrica e la foresta, seppur lussureggiante non è ospitale. Le sue risorse, come le bacche, non vengono utilizzate da Satampra e Tiruov per il timore che siano avvelenate, pertanto la selva esercita un dominio prepotente e fisicamente schiacciante simile al deserto o alla palude secondo le proprie caratteristiche. Questa marginalizzazione dell’uomo tuttavia non solo è il segno delle differenze di Smith e quelle parziali di Lord Dunsany dall’ecologismo ottocentesco di Ruskin, ma si rivela altresì diversa anche dal laconico fatalismo cinico dei romanzi più moderni, consistendo maggiormente in una capacità di contattare qualcosa di concretamente “alieno” senza il bisogno di affrontare viaggi stellari, ed il punto di culmine avviene nel rappresentare gli animali “preistorici” – realistici o inventati – al di fuori della tassonomia di Carlo Linneo; sfuggenti alla catalogazione scientifica, ad essere accoliti di un culto in relazione stretta con una divinità spesso con “competenza” maggiore a quella umana

“…ma noi sapevamo che si trattava del Santuario di Tsathoggua, uno degli dei antichi che ormai non riceve più adorazione dagli uomini. Davanti ai suoi altari di frassino, però, la gente dice di aver visto le furtive e feroci bestie della giungla, la scimmia, il bradipo gigante, e la tigre dai lunghi denti, fare talvolta professione di obbedienza, e di averle udito ululare o uggiolare le loro inarticolate preghiere…”

Smith suggerisce quindi che un Dio come Tsathoggua può accogliere anche grandi animali come degni accoliti del suo culto, addirittura in grado di fornire una venerazione più apprezzata di un religioso umano, un qualcosa che troveremo anche in Oltre il Fiume Nero di Robert E. Howard, nel momento in cui lo stregone Zogar-Sag, i grandi felini e il serpente gigante si rivelano uniti dal culto di Jhebbal-Sag, al punto d’esser legati da antiche memorie comuni e dalla decifrarezione di simboli che nessun libro umano ha mai catalogato.

Col rischio di dilungarci, è doveroso far presente che non del tutto estranea alla visione “Aliena” del naturocentrismo antimoderno lo sono anche quegli autori che unendo la grande tradizione romantico-gotica delle storie di fantasmi ad una concezione molto più Horror, onirica, magica, psicologica ed estoterica hanno senza dubbio aiutato Blackwood, Hodgson e soprattutto Lovecraft a commettere quel gravissimo ed epocale “delitto” che una band come i Nightwish chiamerebbe “Romanticidio”; vale a dire dei soggetti come Montague R. James, Ambrose Bierce, e il meno famoso Arthur C. Benson, il quale di recente è stato pubblicato da Dagon Press; un fine regalo che i lettori italiani del fantastico sapranno meritarsi. Fuor di dubbio che questi autori hanno creato quei presupposti per dividere la parte spietatamente analitica, congetturale e puntigliosa di Edgar Allan Poe dalla sua parte poetica e romantica, così come da Lovecraft è stata epurata la parte epico-fiabesca di Dunsany per privilegiare quella abissale, onirica e sinistra. Probabilmente loro si sono procurati il pugnale, Blackwood e Hodgson lo hanno affilato, ma alla fine è stato Lovecraft a commettere l’omicidio. Dire che Lovecraft abbia creato l’Horror sarebbe forse troppo, ma dire che lui lo abbia “causato” appare abbastanza ragionevole. Cosa c’entra Clark Ashton Smith in tutto questo? avete ragione: nulla, altrimenti si confonderebbe un “Necromatico” con un “Romanticida”:  due cose che abbiamo scoperto essere molto diverse. Di questo tuttavia si è accenato anche in un precedente articolo su Karl Edward Wagner.

È sin troppo banale, ovviamente, osservare che la parte conclusiva de Il Racconto di Satampra Zeiros compone la dimostrazione logica delle due parti precedenti, essendo questa una cosa perfettamente normale in una narrazione letteraria, ma il finale manifesta in pieno l’impotenza assoluta dei due esperti ladri-avventurieri, rintracciando la già citata area dunsaniana – così battezzata in maniera del tutto personale – dei “bravi a perdere” che graffierà in futuro la letteratura di Fritz Leiber. Tuttavia la condizione di assoluta inefficacia e la goffaggine di ogni azione di Satampra e Tirouv non è soltanto il frutto di uno scrittore che mette alla berlina degli avventurieri alle maniere lievemente picaresche, tutt’altro, sono pur sempre due avventurieri ancor più capaci di coloro che hanno “fama maggiore”; sono quegli avventurieri che hanno portato a termine incarichi per i quali addirittura eroi famosi “indietreggiarono costernati”, gli stessi che hanno superato perfino il dungeon pieno di trappole e serpenti della regina Cunandria. Quando mai, due soggetti del genere potrebbero essere dei “bravi a perdere” se non in quella situazione che in effetti non li vedeva già dei “perdenti in partenza”?

E’ qui che Smith alla fine conquista anche un ulteriore bastione della visione di Dunsany che è quello fiabesco, raccontando una storia dal finale già svelato, narrata da colui che un tempo era un ladro avventuriero e che oggi è un mutilato reduce da un fallimento per lui umiliante, una storia di cui già sappiamo tutto ma che tuttavia vogliamo ascoltare come avviene in quella di Leothric e Sacnoth, anche se in quest’ultima il meccanismo è speculare, essendo basata su “la cosa più imprevista che rende tutto prevedibile“. La causa del fallimento annunciato è dovuto alla missione dei due ladri , introdotti nel luogo dell’accidioso riposo di un dio e la percezione della loro sconfitta è già scontata quando le mura di Commoriom sono appena visibili un passo oltre la foresta. L’implacabile inseguimento dell’essere superiore e il girare in tondo dei due ladri scrive già il finale del racconto che contrappone un “vento contrario” ai protagonisti in ogni elemento: l’assenza di tesori nelle rovine, l’aspettativa sadicamente disattesa delle pietre preziose infilate negli occhi e “in ogni orifizio” degli idoli, il goffo nascondersi dei due ladri; tutto è il frutto di un’azione inefficace di chi ha cercato di sfidare il destino , di arricchirsi dove dimorava un Dio come Tsathoggua. E’ proprio questo nemico insormontabile, ben più di folletti e creature come Gnoli e Gibberlings, che ha permesso a questo insolito racconto di diventare una grande fonte. Con ogni probabilità Howard P. Lovecraft ha letto questa storia nel 1929, ed egli stesso lo ha reso “canonico” permettendo che diventasse una “Fonte” per storie come Colui che sussurrava nel Buio (1931), e tale ruolo di sorgente originaria sarà mantenuto per conseguenza indiretta nei racconti di Howard già velatamente citati come L’Ombra che Scivola e Nascerà una Strega, così come – sotto certi aspetti – anche nell’apocrifo di De Camp e Carter dal titolo Conan il Bucaniere.

Quel che emerge è che in realtà, Il Racconto di Satampra Zeiros, nonostante la presenza di protagonisti non eroici, e di gran lunga più abietti anche di un normale antieroe, è piuttosto lontano dallo stile Pulp se non si spende questa parola solo per il materiale con cui era costruita la copertina della prima pubblicazione o per un utilizzo più “storico-giornalistico” che propriamente letterario, come avviene effettivamente oggi nel novanta per cento dei casi. La stessa scelta di proporlo come una narrazione diretta di Satampra Zeiros, scritta con la mano “non mutilata” di chi è sopravvissuto all’esperienza riguardo all’incontro con un Dio dei “Grandi Antichi” mantiene integra una natura epica di un racconto Fantasy inusuale, una cronaca di “prima mano” che non a caso è diventata una “fonte”. Clark Ashton Smith è riuscito quindi a proporre una versione compiuta del Lord Dunsany picaresco dei “bravi a perdere” e del prosatore libero di stampo umoristico utilizzando in fin dei conti una ricucitura sempre dunsaniana che è quella dell’Heroic Fantasy fiabesca, ma è anche la zona del Lord Dunsany poeta che è stata sfiorata. Oltre alla storia di Nuth e gli Gnoli, del tesoro dei Farfurelli o di Thangobrind torna senza dubbio in mente anche Bethmoora, un componimento che non è identificabile in tutto e per tutto come “racconto”. Tale brevissimo frammento sembrerebbe essere più una descrizione o un’impostazione iniziale per ambientare un racconto basato su una città abbandonata a seguito d’una piaga, un caso quindi identico all’iperboreana Commoriom e probabilmente scaturito da una poesia. L’attitudine britannica e l’influenza di Lord Dunsany della storia di Satampra Zeiros è un qualcosa che certamente interesserà tutta la letteratura prodotta da Smith, contando che entrambi gli scrittori usavano sfruttare spesso una sorgente poetica per dare origine al flusso dei propri racconti in prosa, le differenze riconoscibili nell’opera finale sono ovviamente il frutto delle imponderabili diversità individuali e delle differenti influenze dei due scrittori. Lord Dunsany ha prodotto spesso racconti basati dall’ispirazione della poesia non-sense del formato Limerick, che poi è stato addomesticato dalle strutture monolitiche della fiaba e dalle parti decisive del racconto. Si può osservare tutto ciò – come d’altronde si è ripetuto in un precedente articolo su Lord Dunsany – in episodi come Thangobrind; dove viene ripetuta ritmicamente la frase “quella casa chiamata notte“, ma anche in The Sword of Welleran, dove il continuo ripetere dei nomi degli eroi in successione “Welleran, Soorenard, Mommolek, Rollory, Akanax e il giovane Iraine”  Diventa una sorta di metronomo, con la funzione di un “battito cardiaco omoteleutico” che scandisce il racconto similmente ad una filastrocca. Tuttavia in alcune storie come La Sposa del Centauro, o la stesse opere brevi summenzionate di Thangobrind e Bethmoora, Lord Dunsany si limita a compiere una traduzione in prosa lasciando il racconto in forma anticlimatica e interamente basato sulla suggestione descrittiva. Smith, bisogna ammettere, compie su questo metodo un lavoro più rigoroso. La parte poetica diventa descrizione a catena che partecipa organicamente alla tensione che poi si esprimerà in un finale quasi sempre di impatto significativo. Queste metodologie sono elaborazioni alternative a quelle utilizzate da Morris, che costruiva la sua prosa sulle figure retoriche omeriche e norrene, seguite poi da Eddison e Tolkien. Diventa sicchè scorretto e quasi paralogico definire in senso stretto, negativo e diffuso con la parola “anticlimatico” – come talvolta usano fare I recensori americani – un autore come Smith, poichè sebbene questi preferisca spesso la parte descrittiva a quella attiva (come nel caso della foresta) alla fine ogni racconto esprime sempre un punto di culmine, talvolta anche in maniera notevole. Diventa in questo senso anche piuttosto complesso condividere le esternazioni di Joshi S.T., riportate in uno dei volumi della grande biografia di H.P. Lovecraft “Io sono Providence” che Providence Press ha meritoriamente tradotto e pubblicato di recente. Si può certamente comprendere una certa tendenza a sentenziare una superiorità di Lovecraft in un’opera biografica dedicata che tiene conto della lunghezza e della costante solidità dell’opera di Lovecraft, ma è altresì improprio utilizzare una visione “Lovecraft-centrica” per esprimere paragoni o giudicare tradizioni letterarie con cui Lovecraft non ha nulla a che fare; così come appare piuttosto desensibilizzato quel giudizio che racchiude Smith in un “Pulp di Routine” con descrizioni eccessive senza che tuttavia venga spiegato il perchè di quegli eccessi, da cosa derivano e quali tradizioni restituiscono. Le descrizioni che vengono identificate come ornamento hanno in realtà delle funzionalità più ampie dalle quali non è esclusa certamente quella estetica, possono quest’ultime non essere gradite, ma non è attendibile un giudizio su uno scrittore scaturito da trasgressioni a delle regole alle quali egli stesso non si è mai prefissato di aderire. Le descrizioni utilizzate da Smith rivestono un ruolo fondamentale nella costruzione dei suoi racconti, quasi mai basati sulla trama, ma sul cumulo di tensione e suggestioni da esprimere nelle fasi finali. Tali giudizi risentono di un certo snaturamento della critica americana nell’affrontare un testo letterario di genere fantastico.

Si potrebbe ovviamente capire la differenza tenendo come riferimento – non certo casuale – quello dei pometti dello Spleen di Parigi. Baudalaire esegue dei componimenti in prosa che sono tuttavia pensati in maniera poetica e regolati; quando sulla contemplazione romantica; quando sulla satira e l’umorismo. Il loro andamento è libero e non essendo legati ad una trama non vi è ovviamente il bisogno di esprimere un climax, poichè ogni evento o azione ha un valore puramente retorico. Clark Ashton Smith trasforma in descrizione le digressioni poetiche ponendole al servizio di un climax, mentre Lord Dunsany isola un segmento della narrazione senza preoccuparsi del suo arco, come il viaggio per il centauro, o la descrizione ambientale per la città di Bethmoora. Il ragionamento non deve tuttavia assolutamente lasciare ad intendere che si voglia oggi suggerire una superiorità o una compiutezza generale migliore di Clark Ashton Smith rispetto a quella di Lord Dunsany, esternazione che anzi sarebbe assai infelice da proporvi in quanto I racconti menzionati, ai quali la storia di Satampra Zeiros tributa mettendosi per naturale conseguenza in paragone, non rappresentano affatto la zona più alta di Lord Dunsany che potremmo invece riconoscere negli Heroic Fantasy come Sacnoth o Welleran, nell’incantevole fiaba Le Amiche degli Elfi o nella grande pietra miliare Fantasy La Figlia del Re degli Elfi. Le sole aree dunsaniane che Smith quindi non ha usato sono quella dell’escapismo londinese, dell’onirismo e del “viaggio psichico”, ma per quest’ultima, forse, toccherà a Stephen Donaldson molti anni più tardi, nella sua saga Le Cronache di Thomas Covenant l’incredulo architettare qualcosa di compiutamente Fantasy a partire da racconti come L’incoronazione di Thomas Shap o La Finestra Meravigliosa, senza escludere tuttavia una certa complicità anteriore per entrambi, sia per il viaggio psichico che per l’onirismo, in Gerard De Nerval e la sua opera Le Figlie del Fuoco.

Note e altro

[1] Up in the Hill di Lord Dunsany, a Cura di Michael Grenke, Paul Dry Books Inc, 2008

¹ La prole informe è il nome con cui Howard Philip Lovecraft identifica degli esseri amorfi di cui Tsathoggua potrebbe essere capostipite, genitore e creatore.

I Racconti di Fantasmi di A. C. Benson – Scheda Ufficiale, Studi Lovecraftiani, Dagon Press, 2020

Io sono providence: La biografia di H.P. Lovecraft – Scheda Ufficiale (Providence Press, 2021)

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