Nel 1929 Sir Leonard Woolley annunciò di aver trovato le prove archeologiche del Diluvio Universale menzionato nella Genesi biblica. Dagli scavi condotti a Tell al-Maquayyar, nell’attuale Iraq meridionale, emersero le rovine di una città che l’archeologo britannico identificò con la città di Ur sulla base delle iscrizioni cuneiformi rinvenuti sui sigilli cilindrici.
In particolare, l’attenzione di Woolley si concentratò sullo scavo di una sezione di prova utile a datare lo sviluppo cronologico della città. Dagli strati più recenti, in cui fu rinvenuto un cimitero reale del III millennio a.C. con manufatti in oro e argento e tanto di servitù sacrificata affinché potesse servire il sovrano nell’aldilà, il pozzo attraversa i livelli via via più antichi fino al primo insediamento fatto di capanne su palafitte. Gli scavi terminarono su una sezione di terreno vergine, uno spesso strato di materiale sedimentario reso liquido dalla presenza di acqua che non rivelà più alcun manufatto umano. Caparbiamente, Woolley spinse gli scavi ancora più a fondo: dopo ulteriori due metri e mezzo rinvennero nuovi manufatti, antichi di almeno un millennio rispetto agli strati successivi; l’archeologo non ebbe dubbi sul fatto di trovarsi davanti alle prove del Diluvio Universale. A riprova della propria tesi, Woolley fece riferimento alle ‘liste dei Re’, un antico testo che redige le dinastie reali sumere dividendole in ‘antidiluviane’ e ‘post diluviane’.

Quanto siamo certi, alla luce delle ricerche successive, delle conclusioni di Woolley?
In realtà, oggi sappiamo che difficilmente il tell di Tell al-Maquayyar è identificabile con Ur, la città d’origine del patriarca Abramo. È certo che un’inondazione abbia spazzato via l’insediamento primevo del sito, ma probabilmente si è trattato di un evento legato all’esondazione del fiume Eufrate, il cui corso originario lambiva la città. Infatti, non sussistono sufficienti prove archeologiche per sostenere la tesi di un’inondazione su larga scala della regione mesopotamica, tale da poter essere accostata al Diluvio Universale citato dai testi biblici. Per di più, esaminando a fondo le ‘liste dei Re’, ci accorgiamo che il ridotto numero di sovrani citati – otto sovrani antidiluviani e due dinastie post diluviane – non è coerente con un così lungo lasso di tempo. È lecito pensare che tale documento mischi tradizioni mitiche con una storiografia recente dal reale valore storico.
Nonostante tutto, bisogna riconoscere che la tesi di Woolley ha avuto il merito di attirare l’opinione pubblica e accademica sul tema della fondatezza del racconto biblico [1]. È esistito davvero un diluvio di tali proporzioni da aver spazzato via l’umanità?
Nel suo saggio Before the Flood, Ian Wilson raccoglie i risultati di oltre mezzo secolo di ricerche sull’argomento e prova a dare una risposta a questo affascinante quesito [2-3].
Le varianti del Mito di Noé
I frammenti più antichi della Genesi mai ritrovati risalgono alla scoperta dei Rotoli del Mar Morto e sono databili fra il II e il III sec. a.C. Si ritiene che già da almeno due secoli i compilatori dei testi biblici avessero fuso tradizioni orali differenti nella ben nota vicenda di Noé e del Diluvio Universale [4]: nella notte dei tempi il Creatore decise di spazzare via l’umanità corrotta salvando un unico giusto cui affidò il compito di costruire un’arca che accogliesse una coppia per ogni specie animale. In questo modo, Noé e sua moglie e i tre figli riuscirono a scampare all’inondazione che fece affogare tutti gli abitanti. Per giorni l’arca navigò in un oceano sconfinato finché non si areno su un monte, in seguito riconosciuto come Monte Ararat (nell’estremità orientale dell’odierna Turchia). Dubbioso sul fatto che le acque si fossero ritirate, Noé inviò in avanscoperta un corvo e, successivamente, una colomba. Dopo una settimana, quest’ultima fece ritorno tenendo nel becco un ramoscello di ulivo. Sbarcato infine sulla terraferma, Noé darà inizio a una discendenza che tornerà a popolare nuovamente il mondo.

Benché la tradizione riconosca nel patriarca Mosé l’autore della Genesi e dei successivi quattro libri dell’Antico Testamento, in realtà sappiamo che tali testi sono stati redatti da persone diverse in epoche diverse.
Certamente, la tradizione biblica non è la variante più antica della storia del Diluvio.
Nel 1840 l’avventuriero britannico Austen Henry Layard durante un viaggio nel territorio dell’odierno Iraq si imbatté nelle rovine di Ninive, la capitale degli Assiri. Nel trentennio successivo le ricerche nel sito furono coordinate da Hormzud Rassam, assistente di Layrad, che rinvenne il Palazzo di Assurbanipal e, con esso, una nutrita biblioteca di tavolette d’argilla che contenevano i testi che gli scribi del sovrano avevano ricopiato da archivi precedenti, sumeri e babilonesi.
Il rinvenimento ha dato lustro a uno dei poemi epici più antichi della storia dell’umanità, ovvero l’epopea babilonese di Gilgamesh. Nel 1972 l’assiriologo George Smith traduceva la tavoletta catalogata con il numero XI, contenente un episodio del tutto analogo al Diluvio Universale: Utanapishtim, l’omologo mesopotamico di Noé, riceve l’ordine dal dio Enki di abbattere la propria capanna e costruire un’arca su cui avrebbe dovuto caricare il «seme» di tutte le creature viventi; in questo modo, gli dei garantirono la salvezza di Utanapishtim nella tempesta che imperversò nei giorni a seguire. Anche l’arca di Utanapishtim finì con l’arenarsi sul Monte Nismush (che si ritiene possa identificarsi con una delle cime dell’odierno Kurdistan, ovvero nella stessa regione del Monte Ararat). L’episodio dell’epica babilonese è del tutto analogo a quello di Noé ma cronologicamente antecedente, dato che la più antica testimonianza è una tavoletta del XVIII-XVII sec a.C. redatta in accadico e rinvenuta ad Hattusa, la capitale del regno ittita.

Sempre di tradizione babilonese, seppur slegata dall’epopea di Gilgamesh, è l’epica di Atrahasis. Sopravvissuta in maniera frammentaria, anche quest’opera narra di un uomo il cui nome significa “estremamente saggio” sopravvissuto a un Diluvio per volere del dio Enki. Le tavolette rinvenute testimoniano un’ampia diffusione, che perdurò dal periodo Paleobabilonese (XVII sec a.C.) fino al periodo Neo Babilonese (VII – VI sec. a.C.).
Ancora più antica rispetto alle versioni babilonesi, è la storia di Ziusudra che conferma l’esistenza di un nucleo narrativo sul Diluvio nella cultura sumerica che per prima si affermò nell’area mesopotamica. La tavoletta in caratteri sumeri scoperta a Nippur nel 1895 e pubblicata per la prima volta nel 1914 dall’assiriologo Poebel precede di almeno un secolo la versione babilonese di Atrahasis e rappresenta, quindi, la più antica forma scritta del Diluvio Universale.
Elementi comuni della storia di Noé possono essere rintracciati persino nei documenti zoroastriani dell’area dell’antica Persia o, ancora più a Oriente, nelle narrazioni Indù. Anche la cultura classica greco-romana preserva memoria del grande Diluvio che spazzò via l’umanità: per i Greci, l’omologo di Noé era Deucalione che allertato dal padre Prometeo dell’’imminente sciagura, costruisce un’arca che garantisce la salvezza anche della moglie Pirra. Per quanto distinta dalla tradizione asiatica medio-orientale, nell’opinione del mitografo Robert Graves la versione classica del mito del Diluvio sarebbe di derivazione asiatica medio-orientale. È interessante notare, infatti, che la versione romana (scritta deliberatamente in greco arcaico) ci è stata tramandata da Luciano di Samosata nel II sec a.C., vissuto nell’area della Turchia orientale, proprio dove era collocato il mito Deucalione.
Cosa possiamo concludere davanti a una così capillare diffusione del mito del Diluvio?
In via del tutto teorica, l’analisi dei miti permette di inquadrare i termini del problema.
Se davvero l’intera vicenda poggia su un evento realmente accaduto, questo deve essere certamente anteriore al III millennio a.C., ovvero il periodo in cui il tema era già consolidato nell’area asiatica; analogamente, il Diluvio non può essere anteriore al X millennio a.C. in quanto Noé inizia la sua nuova vita da agricoltore, testimoniando che la storia è successiva alla fase preistorica dei popoli nomadi dediti alla caccia.
L’ipotesi di Ryan-Pitman
Qualsiasi ricerca sul Diluvio Universale non può prescindere da contributi provenienti dalle scienze naturali come la geologia e l’oceanografia. Alla luce di quanto è emerso dall’analisi dei miti, com’era il mondo nel 10.000 a.C? Come si modificò da lì a qualche migliaio di anni?
In piena era glaciale, la morfologia dei continenti era profondamente diversa da come la conosciamo oggi. Tanto per fare qualche esempio, lo stretto di Bering che separa l’America dall’Asia non esisteva, il Mar Nero era un lago d’acqua dolce e le isole Britanniche erano tutt’uno con il continente europeo. A partire dal 14.000 a.C. il disgelo iniziò a nutrire i bacini idrici di tutto il mondo, sebbene le mutate condizioni climatiche portarono a un successivo periodo di glaciazione, noto come dryas recente. Quest’ultimo evento, in particolare, è datato fra il 10.000 a.C. e il 9.000 a.C. La deglaciazione successiva al dryas portò a un aumento continuo del livello del mare, dell’ordine di 120 – 130 m, per poi subire un assestamento che da circa il 5.000 a.C. perdura fino ai giorni nostri.

Nonostante la lineare del dato dell’innalzamento degli oceani, non è difficile credere che in realtà la natura abbia operato mutamenti repentini, con inondazioni di vaste aree di territorio; e così, in un periodo compreso fra 8.000 a.C. e il 5.000 a.C, proprio mentre l’umanità si accingeva a cambiare il proprio stile di vita passando dal nomadismo alla sedentarietà, il profilo costiero mutò radicalmente: lo Stretto di Bering separò l’Alaska dalla Siberia, la Sicilia divenne un’isola e il ponte di terraferma che separava le Isole britanniche dall’Europa continentale venne sommerso.
Cosa accadde nel settore orientale del Mediterraneo?
Le ricerche svolte fra gli anni ’60 e gli anni ’70 rivestirono un ruolo cruciale nel mettere in luce i cambiamenti che investirono l’area del Bosforo sul finire dell’era glaciale. Nell’estate 1969 la nave Atlantis II di proprietà dell’Istituto Oceanografico Woods Hole, con a bordo un equipaggio comprendente chimici e geologi varcava lo stretto del Bosforo. La spedizione, capitanata da David Ross ed Egon Deger, era originariamente diretta al Mar Rosso ma la ripresa delle ostilità fra l’Egitto e Isreaele aveva convinto il team di ricerca a fare rotta vero il Mar Nero.
Incurante delle aperte ostilità dell’Unione Sovietica, l’Atlantis II mappò l’intero fondale, effettuando rilevamenti dei sedimenti, della struttura e della biologia del bacino idrico. I carotaggi portarono alla luce uno strato di fango nerissimo e gelatinoso, chiamato sapropel, ricco di resti animali e vegetali, al di sotto del quale si trovava una creta cinerina con un basso tenore di salinità. Il nome di Ross e Deger rimbalzò sulla rivista scientifica «Science» con una scoperta formidabile: il Mar Nero originariamente era un lago di acqua dolce.
A questo dato si aggiunse, sempre negli anni ’70, il risultato delle ricerche di Petro Dimitrov, un oceanografo bulgaro che a bordo di un piccolo sommergibile aveva tracciato l’antica linea costiera del lago, ancora perfettamente riconoscibile in forma di dune sabbiosa a 110 m al di sotto della superficie del mare.

Consapevoli di queste premesse, nel 1993, i due geologi William Ryan e Walter Pitmam parteciparono a una missione scientifica congiunta fra gli Stati Uniti d’America e la Russia, volta a indagare gli effetti del disastro nucleare di Chernobyl sull’ecosistema del Mar Nero. Le ricerche si concentrarono nell’area del Mare di Azov, oltre lo stretto di Kerch, nell’area più settentrionale del Mar Nero: analogamente a quanto riscontrato da Ross e Degel, i carotaggi confermarono sui fondali la presenza di molluschi che vivono esclusivamente in acque dolci o in ecosistemi fluviali.
La scoperta inattesa avvenne l’anno successivo, allorché si procedette alla datazione delle conchiglie fossili tramite, determinando così che tutti i molluschi appartenevano alla medesima epoca, ovvero circa il 5.600 a.C.
Qual era la conclusione a cui giunsero Ryan e Pitman?
Che originariamente il Mar Nero era un basso lago di acqua dolce, alimentato dai fiumi Danubio, Dnepr, Dnestr, Don e Kuban. Intorno al 5.600 a.C., trainato dal disgelo globale, il livello del Mar Mediterraneo si innalzò al punto da provocare la rottura dello stretto lembo di terra che univa le due estremità del Bosforo. La commistione repentina con vaste masse d’acqua salata aveva determinato la morte coeva degli organismi lacustri. Inoltre, a riprova che l’evento era stato catastrofico, Ryan e Pitman sottolinearono la perfetta conformazione delle dune sabbione a ridosso dell’antica linea costiera ormai sommersa; l’innalzamento progressivo del livello del Mar Nero, avrebbe dovuto determinare un inevitabile fenomeno di erosione costiera che così, invece, non era stato.
Queste conclusioni sottintendono la tesi suggestiva che il Diluvio Universale sia una reminiscenza di un evento realmente accaduto e ubicato nell’area del Mar Nero, un disastro naturale di tali proporzioni da imprimersi nella memoria collettiva dell’umanità. Ryan e Pitman calcolarono che «sessantasette miliardi di metri cubi d’acqua si riversarono [ogni giorno] attraverso i Bosforo, una quantità duecento volte maggiore di quella che si riversa dalle cascate del Niagara.» Proviamo a immaginare questo scenario apocalittico preistorico: il rombo dell’acqua si sarebbe udito fino a 480 chilometri di distanza; la velocità della corrente sarebbe stata di 80 chilometri all’ora, determinando un innalzamento del livello del Mar Nero dell’ordine di 15 centimetri al giorno. Per il principio dei vasi comunicanti, il travaso del Mediterraneo all’interno del Mar Nero sarebbe durato due anni, sconvolgendo ogni forma di vita antecedente al 5.600 a.C.
La scoperta di Ballard
L’ipotesi di Ryan e Pitman suggerisce uno scenario originale che inquadra l’evento mitico del Diluvio Universale nel contesto più concreto dell’inondazione del Mar Nero. Purtuttavia, per quanto affascinante, ogni teoria deve conciliarsi con i dati archeologici.
In questo senso, il Mar Nero è uno degli ambienti meno agevoli dell’intero pianeta. Con i suoi 436.000 chilometri quadrati di superficie, il bacino idrico ha caratteristiche peculiari: il suo fondale precipita a 2.100 metri al di sotto della superficie del mare, rendendo impraticabile qualsiasi immersione dei sommozzatori. Ad appena 60 m di profondità, al disotto di un primo strato ricco di fauna ittica, il Mar Nero non presenta alcuna forma di vita animale o vegetale. Il suo ambiente, infatti, è anossico cioè privo di ossigeno e altamente tossico per la presenza di idrogeno solforato disciolto in acqua. Questo gas ha un caratteristico odore di uova marce e una varietà di effetti dannosi per la salute dell’uomo che vanno da irritazione (10 ppm di concentrazione) fino alla morte istantanea per soffocamento (1000 ppm di concentrazione) [5].
Le difficoltà all’esplorazione di un ambiente così letale sono state superate da Robert Ballard, intraprendente oceanografo fondatore dell’Institute for Exploration. Il nome di Ballard è legato a scoperte di grande prestigio e risonanza mediatica: nel 1985, tramite l’impiego del sommergibile teleguidato Argo, registrò le prime immagini del relitto del Titanic nelle gelide acque dell’Oceano Atlantico; nel 1989, riuscì a localizzare la corazzata tedesca Bismarck, affondata dagli Alleati nel corso della seconda guerra mondiale.

Le ricerche di Ballard nel Mar Nero iniziarono nel 1999, un anno dopo che Ryan e Pitman ebbero divulgato le proprie scoperte, concentrandosi al largo della cista settentrionale turca. Scandagliando i fondali con Argus e Little Hercules, una coppia di sommergibili teleguidati e dotate di sofisticate attrezzature che li rendevano gli eredi tecnologicamente avanzati del fortunato Argo, Ballard rinvenne travi seghettate e rami di legno che mostravano inequivocabilmente la presenza di una manifattura umana.
La struttura misurava 14 metri di lunghezza per 3,5 di larghezza e sembrava quanto rimaneva di una capanna del tipo di canniccio intonacato. Come notò Fredrik Herbert, curatore delle Antichità del Vicino Oriente del Museo di Archeologia della Pennsylvania, la struttura richiamava lo stile architettonico impiegato in Turchia, nel sito di Çatal Hüyük, già nel VI millennio a.C.
Era come se i muri fossero crollati, lasciando in situ la struttura portante lignea. Grazie al particolare ambiente privo di ossigeno, che si suppone possa essersi originato dalla decomposizione anaerobica degli organismi marino in seguito all’inondazione del lago originario, le strutture lignee erano ancora lì, perfettamente conservate, e immortalate dagli occhi elettronici del sommergibile Little Hercules [6]. Disseminati all’interno della costruzione, appena coperti da un sottile strato di sedimenti, abbondavano strumenti di legno levigato, con chiare tracce di fori praticati migliaia di anni fa.

L’eccezionalità del ritrovamento consiste nel fatto che la maggior parte degli utensili della tarda età della pietra erano realizzati con materiali lignei facilmente deperibili che raramente sono giunti intatti fino a noi, eccetto per le parti in pietra.
La scoperta di Ballard, quindi, ha avuto il merito di constatare la presenza di insediamenti umani sul fondo del Mar Nero che, grazie al suo unico ambiente chimico, si configura come un bizzarro museo subacqueo, ancora oggi largamente inesplorato a causa dei conflitti geopolitici che hanno impedito libero campo ai ricercatori.
Il Diluvio Universale fra realtà e fantasia
Catalizzato dalle scoperte di Ballard, il dibattito intorno all’inondazione del Mar Nero come prova del Diluvio Universale è ancora aperto e coinvolge un’intera comunità scientifica fatta da archeologici, storici e oceanografi di tutto il mondo [7]. Che l’ipotesi di Ryan e Pitman sia corretta, o che si tratti soltanto di una brillante suggestione, siamo davanti al sottile confine che separa la realtà dalla fantasia, un terreno in cui è facile mettere radici per tutti gli appassionati di Fantasy Mediterraneo.
Quest’articolo, ovviamente, non esaurisce le possibilità offerta dall’argomento.
Se siete incuriositi dall’argomento e volete seguire gli sviluppi dell’Europa Preistorica sulla scia dell’ipotesi di Ryan-Pitman vi consiglio la lettura integrale di I Pilastri di Atlantide di I. Wilson. Se invece avete appetiti di fantasia eroica, nulla più azzeccato del racconto Il Ponte della Morte di Donato Altomare, ambientato nella preistoria mediterranea e contenuto nell’antologia Mediterranea. In alternativa, potete rispolverare dei classici della Fantacollana Nord come L’Anello del Tritone di L. Sprague de Camp o Amazon di G. Zuddas, entrambi come soggetto le antiche civiltà mediterranee. Fra un libro e l’altro, infine, potremmo gustarci qualche sequenza di Noah con Russel Crowe.
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Note
[1] Nel 1929 il crollo della Borsa di Wall Street portò una crisi finanziaria che forzò alla chiusura il cantiere di Tell el-Mukayyar per quattro anni. Stando alle dichiarazioni dell’archeologo britannico Cyrus Gordon, che affiancò Woolley all’epoca degli scavi, i risultati furono volutamente enfatizzati nell’intento di veicolare nuovi fondi per la ricerca.
[2] Ian Wilson è un saggista britannico che conta all’attivo numerosi libri, soprattutto sulla veridicità di questioni religiose, sul paranormale religioso e i misteri che avvolgono la religione. Il suo titolo di maggior successo è The Shroud of Turin (1979) che riassume anni di ricerche sulla Sindone di Torino.
[3] Per la stesura di questo articolo si è fatto riferimento a Wilson, I. Before the Flood: the Biblical Flood as a real event and how it changed the course of civilization, 2002 (ed. italiana I Pilastri di Atlantide, RCS libri, 2005, pp.31-96).
[4] Gli elementi dei testi originari sono ben distinguibili a una lettura attenta del racconto biblico: il cosiddetto testo «J» si ritiene essere di origine giudaica, mentre il testo «E» di origine israelita. Esiste un terzo testo, il cosiddetto testo «P» che, per l’attenzione agli aspetti sacerdotali, si ritiene essere stato composto da esponenti della casta religiosa.
[5] https://www.osha.gov/hydrogen-sulfide/hazards [6] Le immagini possono essere visionate all’interno di questo documentario che tratta l’inondazione del Mar Nero e le esplorazioni di Ballard. [7] http://www.geotimes.org/jan07/feature_BlackSea.html#authorsL’immagine di copertina è tratta dall’articolo Review: what if Noah’s ark was told through his wife’s perspective? di J. Shank (2019) pubblicato su americamagazine.com