Howard ha sentito sempre il fascino delle sue origini irlandesi, quasi quanto quello disperato della morte, e l’ha tradotto nella creazione fantastica dei pitti già nel primo racconto pubblicato su Weird Tales nel dicembre 1927, “La razza perduta”, inserito nel “Ciclo Celta”. Per la stessa ragione affiancò Brule il Lanciere a re Kull, in una linea temporale in cui i pitti non erano ancora regrediti a popolo selvaggio. Diversamente, nell’età di Conan, successiva al cataclisma che sconvolse i continenti, i pitti sono degenerati ad uno stadio rozzo, come si può leggere in “Oltre il Fiume Nero” ed “Il tesoro di Tranicos”. I pitti di re Bran Mak Morn, invece, sono definitivamente decaduti ad esseri primitivi e semideformi. Questa parabola di declino ed abbruttimento è un aspetto estremamente imbevuto del pensiero orrifico lovecraftiano.
Bran Mak Morn è al centro di appena tre storie: “I re delle tenebre”, accanto a Cormac na Connacht (il principe di Erin, non Cormac Mac Art) ed a Kull di Valusia, “I vermi della Terra” e “Turlogh il Nero”, nelle forme di un feticcio totemico.
Nei primi due racconti, lo seguiamo in un’oscura Britannia romana, in cui si aggirano silenziosi orrori subumani. Le legioni si stanno spingendo oltre il Vallo di Adriano e sulle vicende di Bran incombe il funesto annuncio di un destino di rovina e deformità. Ultimo discendente di ancestrali generazioni che un tempo dominavano la civiltà, Bran è più alto e robusto dei suoi consanguinei, più forte, più agile, più intelligente. Nel suo sangue si è serbato qualcosa del glorioso ed ancestrale passato, non a caso è presentato esplicitamente come discendente di Brule il Lanciere, di cui conserva una gemma preziosa nella corona, quella donatagli da Kull «nei tempi in cui il mondo era ancora giovane». Questa differenza genetica si legge in “I re delle tenebre”: «(I pitti) Erano tutti bassi, e gli arti di molti di loro erano deformi. Sembravano dei nani enormi: Bran Mak Morn era molto alto, rispetto a loro. Solo i più anziani avevano la barba, ma assai rada; i capelli neri ricadevano loro sugli occhi, e lanciavano sguardi feroci da sotto quelle capigliature scarmigliate. Erano scalzi, vestiti in modo succinto con pelli di lupo, armati di corte spade di ferro dalla lama a spina, di pesanti archi neri, di frecce dalle punte di selce, ferro e rame, e di mazze di pietra. Non avevano armi difensive, ma solo dei rozzi scudi di legno rivestiti di pelle; molti avevano dei pezzi di metallo infilati tra i capelli in disordine, per ripararsi dai colpi di spada. Alcuni, discendenti da schiatte di Capi, erano snelli e agili come Bran: ma negli occhi di tutti brillava lo splendore selvaggio di un’implacabilità primordiale». Era dunque in atto una profonda degenerazione fisica dei pitti. A ben vedere, questo particolare rende Bran Mak Morn il più lovecraftiano dei barbari di Howard.
Nell’epica battaglia descritta in “I re delle tenebre”, Bran prova a farsi accettare da clan ostili, divisi e pronti a disperdersi. E’ alla guida di un esercito di coalizione deciso a respingere l’armata multirazziale mandata da Roma sotto i comandi di Marco Sulio e riesce a vincere lo scontro grazie all’aiuto di Kull, evocato dalla sua età perduta con la stregoneria del pitto Gonar, successore di un omonimo mago della corte valusiana. Lo vediamo camminare tra i cadaveri, dopo aver ucciso Marco Sulio, senza armi, coperto del sangue che gli sgorga tra le ferite, fiducioso che il suo popolo si sarebbe ricompattato. Eppure proprio il coinvolgimento di Kull è un ammonimento profetico: i pitti potranno vincere la battaglia grazie all’evocazione di uomini d’altre epoche, ma come il regno di Kull è scomparso da millenni così Bran ed il suo popolo sono destinati a cadere nell’oblio delle tenebre.
Ne “I vermi della Terra” l’estinzione lascia il posto al ribrezzo, ad un’eventualità obbrobriosa. Bran Mak Morn si nasconde tra i romani sotto il falso nome di Partha Mac Othna, nei panni di un ambasciatore pitto. In realtà spia il nemico per provare ad individuare i suoi punti deboli, però, impazzito di rabbia per aver assistito alla crocifissione di un suo consanguineo, progetta di distruggere le legioni ed uccidere Tito Silla, governatore militare di Eboracum, venendo a patto con Loro, creature disgustose, orripilanti esseri sotterranei che un tempo erano uomini ed ora si sono evoluti in vermi viscosi. Gonar è morto, ma dal sonno della sepoltura di Baal-dor supplica Bran di non contattare quelle entità, eppure la decisione è presa. Mentre Cormac na Connacht riporta la guerra presso il Vallo, Bran raggiunge la strega Atla e mette in azione «ombre ondeggianti che si gonfiavano, fremevano e si contorcevano in maniera fluida». E’ ripugnante pensare che una volta questi vermi camminavano sotto il cielo come umani, ma ancora più stomachevole è scoprire la possibilità d’un funesto fato: nulla salverà i pitti dall’involversi in esseri reconditi ed imbestialiti, regrediti ad uno stato turpe, forse a forme indicibili.
In questo racconto sono diversi i richiami all’universo lovecraftiano, espliciti quelli ai Miti di Cthulhu, al mostro acquatico Dagon, ai «neri dei di R’lyeh», ma il più intenso è il raccapricciante tema della degenerazione che di concepimento in concepimento, attraverso i secoli, sboccia in oscene mostruosità come frutto di atavismo, come frutto dell’isolamento di comunità, orientate quindi all’incesto, o come risultato di incroci con creature animalesche. I pitti che governa Bran sono già tecnologicamente arretrati e fisicamente deformi. Nulla si dice della loro moralità, delle loro leggi, della loro organizzazione sociale. Sarebbe lecito supporre che esse siano primitive ed elementari dal momento che sono irrilevanti, in ogni caso i pitti già si mostrano distanti geneticamente dal loro re, esseri quasi scimmieschi, e, per quanto la cosa sia evidente, essi non hanno la capacità di riconoscere questo decadimento. Paradossalmente ciò che li condanna alla degenerazione è proprio il loro essere tenacemente ostili alla conquista romana. Solo una fusione con i popoli soggiogati da Roma potrebbe salvarli geneticamente.
Mezzo millennio dopo, – veniamo a “Turlogh il Nero”-, il celta Turlogh Dubh, scacciato dal clan degli O’ Brien, si imbatte in sopravvissuti pitti, bassi e bruni, ormai vicinissimi al tramonto. Retti da re Brogar, essi combattono i vichinghi sotto lo sguardo della loro divinità, Bran Mak Morn, effigiato in una portentosa statua dell’Isola delle Spade dopo essere morto in battaglia. La razza si è salvata, ma il popolo vive nascondendosi, non ha futuro e, in un regresso infantile, ha divinizzato il suo antico re.
A riprova di quanto la degenerazione dell’Universo lovecraftiano sia centrale nella storia di Bran Mak Morn, Howard la collega pienamente al “Ciclo di Cthulhu” nel racconto “I bambini della notte”. Qui ritorna esplicitamente il “culto di Bran” nella storia di un uomo, John O’Donnel, che si ritrova immerso in ricordi ancestrali del conflitto tra il suo popolo ariano e i pitti che dominano un Gran Bretagna sottratta anticamente ad un popolo deforme che ancora conserva dei minacciosi discendenti.
Così Howard volle esaltare le sue origini celebrando un antico splendore dei pitti, ma al contempo consegnando questo popolo allo sfacelo. Nulla è più epico, infatti, di una grandezza trionfante e luttuosa.