Esistono moltissimi scrittori, di grande o relativa fama, che nella grande storia della letteratura hanno prodotto una percezione contrastante della loro opera per i lettori. Ci sono narratori di grande talento, a cui magari viene negato l’accesso nell’olimpo per una qualche genere di mancanza che impedisce un’incoronazione definitiva. E ciò non avviene soltanto nella letteratura del fantastico, ma basandoci su di essa, è avvenuto a causa, ad esempio, dell’assenza di un romanzo lungo duecento-trecento pagine in una carriera fatta di soli racconti; o quando per la mancanza di un romanzo realmente distaccato da una saga, che possa dimostrare il valore di un narratore in una storia autoconclusiva; oppure per romanzi troppo brevi e numerosi; o perchè no, talvolta il problema potrebbe essere anche l’opposto in questo incontentabile mondo. Vale a dire un paio di mattoni e troppo lunghi, e poi nient’altro . Spesso la menda che impedisce la consacrazione è quella che invece interessa i personaggi e le ambientazioni, troppo somiglianti e semplici in storie diverse; o per molti altri innumerevoli motivi che rendono eterno – nell’essere sterile o interessante in base al caso – un dibattito basato sulla domanda:
ma è un grande scrittore oppure no?
Questa casistica potrebbe insospettabilmente interessare Edgar R. Burroughs che, ad una visione panoramica potrebbe essere archiviato senza dubbio semplicemente come uno scrittore di grande successo che ha ispirato molti colleghi e che ha scritto storie profittevoli. Non che questo sia poco, intendiamoci. Per molti lettori e critici un fatto del genere basta già per giustificare la grandezza, ma per altri, tali meriti potrebbero essere assegnabili anche ad un autore come Stephen King. Arrivare alla conclusione che Stephen King – quale autore di best sellers – abbia influenzato colleghi e tratto grandi profitti è senza meno corretto. Tuttavia questo indiscutibile fatto non basta ad attribuire un’importanza storico-letteraria che – potremmo dire – nel caso del King non sussiste in senso puro e stretto del termine. Se ci addentra in dettaglio, in Burroughs tra taluni casi è in verità uno dei più complessi. Chiunque abbia provato a ragionare su basi più profonde di quelle di un articolo da quotidiano magari nel giorno di qualche anniversario, o sul successo e la fama globale di Tarzan, si è trovato a concludere che l’ autore dei cicli di Barsoom, Venere, Pellucidar e della lunga Saga di Tarzan ha messo critici e lettori in condizioni di percepire la sua opera soggetta ad un contrasto straordinario tra macroscopici punti di debolezza e altrettanto incredibili punti di forza, mettendo sicchè in difficoltà ogni lettore, recensore e critico nell’avere un’opinione definitiva. E questo è un fatto che non avviene nè con John Le Carrè, nè con Stephen King, ovvero soggetti ai quali viene attribuita importanza globale sulla base della fama ma non necessariamente a condizioni di esistenza storico-letterarie. Di loro si può esprimere un giudizio letterario netto, ma in Burroughs, che di fatto è uno dei più grandi autori di best sellers globali, Il giudizio letterario, soprattutto se cattedratico, somiglia a quell’impiegato sempre in ritardo, che si veste di fretta e con la sciarpa malmessa rincorre l’autobus, poichè arriva sempre indeciso e con lieve affanno, e sempre con la sensazione di aver dimenticato o non considerato qualcosa. Ogni volta che si esamina una criticità in questo scrittore, pur riconoscendola spesso incontestabile, si è messi in condizione di valutare un effetto di contrasto che è in grado di smentirla, e questo fatto è già presente nelle premesse e non solo quelle letterarie, ma anche del vissuto stesso dello scrittore.
La vita di Edgar Rice Burroughs sino al 1911 non è qualcosa di molto diverso da una collezione infinita di brutte giornate, insuccessi lavorativi e continui cambi repentini di occupazione intervallati da tentativi di unire le disgrazie – più che le forze – con quelle di altri “sfortunati” come lui. Basti pensare al fatto che lo scrittore di Chicago si è perfino adoperato come tutor e consigliere per giovani venditori, e i risultati , come quelli ottenuti da venditore, non sono stati buoni. In un arco di tempo che va dai primi del ‘900 al 1911/12 Burroughs fa il minatore, il contabile, il venditore di dolciumi, di temperini e matite, e il venditore di pentole e padelle porta a porta e altre cose simili. Questo lo ha portato ad avere una nuova collezione in aggiunta a quella delle brutte giornate e i cambi di occupazione: ovvero i “no grazie” e le porte chiuse in faccia di casalinghe indaffarate intorno alle 10:00 del mattino che si ripetevano per anni di giorno in giorno almeno sino al 1911. Sempre in questo lasso di tempo ha costituito un paio di società con risultati scarsi, facendosi assumere infine anche come addetto agli annunci pubblicitari nei manifesti e:… nelle riviste pulp. Si potrà dedurre che qui, davanti agli occhi di Edgar , siano passati numerosi racconti e artwork di bravi copertinisti delle riviste pulp, ma l’impatto che hanno avuto sullo scrittore dell’Illinois non è proprio dei più romantici, e generò – si dice – un commento come questo:
“sebbene non avessi mai scritto una storia, sapevo assolutamente di poter scrivere storie altrettanto divertenti e probabilmente molto più belle di quelle che mi capitava di leggere su quelle riviste.“
Il commento è estrapolato da un’intervista rilasciata nel 1929 al Washington Post, dove lo scrittore confida al giornalista di aver pensato queste impressioni durante le prime letture dei racconti Pulp. Alcune di quelle storie in tal contesto furono definite da Burroughs addirittura “Marciume”. So bene che alcuni lettori – sebbene la cosa sia ormai nota – staranno osservando il tutto con occhi strabuzzati, ma non abbiatene a male. Non c’era Lovecraft nei Pulp Magazine per cui ha lavorato Burroughs, e ancora non c’erano neanche Howard e Smith. Occorre che la sua frase lapidaria sia in parte interpretata per quello che è, vale a dire i primi segni esterni che qualcosa si stava muovendo all’interno della parte creativa di Burroughs, senza mancare di tenere in conto che egli possa essere effettivamente incappato in racconti al di fuori dei suoi gusti. Per quanto sembri un commento categorico la frase non è pronunciata del tutto con leggerezza e la prova di questo è la più ovvia, in quanto risiede nel fatto che effettivamente il proposito ipotizzato “per assurdo” , ovvero di scrivere “cose migliori di quelle…” viene di fatto portato a compimento in tempi rapidi dal narratore americano che darà vita così al primo romanzo del ciclo di Barsoom nel 1911/12, Sotto le Lune di Marte. In quest’ultimo Burroughs decide di infondere nell’elaborazione un leggero principio autobiografico che si trova sottoforma di escamotage. Nell’introduzione del romanzo l’autore dichiara di aver trovato un manoscritto dello zio “John Carter”, come ben sapete. Inoltre il creatore di Tarzan sembra dare principio alla sua storia con un richiamo anch’esso biografico, ad un momento della sua vita precedente alla sua serie interminabile di impieghi fallimentari. Tutto parte infatti in maniera simile a quando lui – alla fine dell’800 – ha affrontato le insidie della ricerca dell’oro sul fiume Raft River durante l’epidemia di influenza di Chicago del 1890-91, dove oltre ad essere cercatore d’oro è stato anche un Cow Boy nonché militare del 7° Cavalleggeri (1897), congedato tuttavia in breve tempo per problemi di salute. Il cenno autobiografico di “Sotto Le Lune di Marte” non è soltanto un escamotage, ma è anche una epurazione di Edgar R. Burroughs come uomo d’affari.
Se questa storia fosse rappresentata e sceneggiata in ogni film attuale, o dramma contemporaneo, dagli anni ’80 in poi sarebbe senza dubbio stato appetibile seguire la linea del “disgraziato che ce la può fare” e che si “rialza dopo i fallimenti” con l’annessa retorica del “farcela per il rotto della cuffia”. Ma per Burroughs è andata diversamente. Sotto le lune di Marte fu un qualcosa di molto simile ad un Istant Masterpiece. Nonostante questo, lo scrittore di Chicago, pubblicò inizialmente la storia firmandosi “Normal Bean” che per un errore di trascrizione divenne “Norman”. La pubblicazione in anonimo fu una scelta dettata dalla paura di Burroughs di perdere credibilità nel mondo degli affari e questo ci suggerisce una considerazione.
Nonostante i continui tentativi di remare contro sé stesso; il continuo insistere per essere un disgraziato, aggettivo oggi “meglio proponibile” come “sfigato”, in una carriera lunga come auto-sabotatore, l’unica cosa in cui Burroughs è stato un perdente è la sfida “per essere un perdente”, nonostante il suo impegno massimo. Questo perchè la sua stoffa è quella del fuoriclasse, forse non il numero 10 che brilla per grazia e armonia come un cigno, ma di certo il numero 9, del centravanti che quando c’è da buttarla dentro è sempre presente, quello gli appartiene eccome.
Su Burroughs è stato effettivamente detto di tutto nel bene e nel male. Sono stati numerosi gli apprezzamenti intendiamoci, soprattutto per quei critici che abbracciano l’equazione che il successo è sinonimo di qualità, ma molto spesso quel successo, come avvenuto anche per altri, gli è stato rinfacciato e usato altresì come prova per la sua scarsa qualità. L’ autore del Ciclo di Marte è stato definito una persona di “Scarsa istruzione”, uno “scrittore per errore” e un pessimo prosatore, nonché uno scrittore incapace di uscire dal contesto anglosassone e che ha trattato con troppa semplicità il tema della Fantascienza, eppure, dopo aver letto Sotto le Lune di Marte, Thomas N. Metcalf, editor senjor di All Story Weekly fu affascinato al punto dal romanzo e dal personaggio di John Carter che vide in Burroughs un Walter Scott del ‘900. Gli propose infatti di fare ricerche sul medioevo, sul ‘500 e sulla Guerra delle Due Rose con lo scopo di commissionargli The Outlaw of Torn. La novella storica non ebbe successo ma è l’unica storia di Burroughs ispirata da un’idea altrui, e tuttavia una volta pubblicata in volume letterario nel 1927, in molti hanno capito riscoprendola che non era così male, ed in fondo avrebbe fatto la sua figura – potremmo ipotizzare noi – in ambienti come quello dei Romanzi di Cappa e Spada, insieme a Arthur C. Doyle, Guglielmo Hauf, Hans R. Haggard, Anton Giulio Barrili e altri.
E’ doveroso chiarire che sarebbe puerile da parte nostra organizzare una difesa su “tutta la linea” per Borroughs contro le critiche a lui rivolte nel corso degli anni, soprattutto agli inizi, anche perchè dati i risultati che ha ottenuto egli non ha poi così tanto bisogno d’esser difeso. Si tiene ovviamente conto che parte di queste osservazioni, spesso anche dure, hanno avuto un loro fondamento. Ma è’ assolutamente curioso analizzare come gran parte di tutto ciò che è stato detto a Burroughs – quand’anche fondato – abbia poi avuto un contraccolpo opposto nell’evolversi della storia del genere fantastico e avventuroso.
Facendo una breve ricerca è emerso che gran parte dei quotidiani e riviste dell’epoca, come il Saturday Evening Post, il Sun, il Washington Post o il suo supplemento domenicale, presentavano con omogenea unanimità alcune opere come quelle di statura superiore non solo per il successo raggiungibile nel mondo anglosassone, ma anche per “conquistare il pianeta” in ogni emisfero e lingua. I favoriti per questo pronostico globale erano romanzi , ad esempio, come quelli di Arthur Conan Doyle del ciclo di Sherlock Holmes; Pollyanna Whittier di Eleanor H. Porter; Peter Pan di Mattew Barrie o anche romanzi come Babbit di Sinclaire Lewis. E’ naturale che il confronto come “Istant Masterpiece” debba essere guardato secondo una proporzione sbilanciata tra volume letterario e romanzo edito a puntate sulle riviste. E’ pertanto impossibile avere la meglio su opere come Pollyanna o Babbitt – dato che il successo di Sherlock Holmes fu più graduale – che furono effettivamente dei best sellers a tempo zero. Guardando tuttavia la visione complessiva fissata al 2009, Burroughs con le 100 milioni di copie vendute secondo stime approssimative, ha la meglio sulle 90 milioni di A. C. Doyle. Anche Il confronto singolo dei romanzi è assolutamente impietoso nonostante Tarzan venga escluso dal discorso. Secondo Penguin, il romanzo A Princess of Mars ( da noi noto sia come “Sotto le lune di Marte” che come “La Principessa di Marte”) ha superato le 30 milioni di copie vendute. Questo significa che l’esordio di John e Dejah supera nettamente Babbit, Pollyanna e Peter Pan. In sostanza, soltanto Lucy Maud Montgomery – di tutti gli scrittori indicati come favoriti per i maggiori quotidiani americani dell’epoca – con Anna dai Capelli Rossi, riesce a far meglio di Sotto le Lune di Marte, ma non di Tarzan che risulta a pari merito con il romanzo della scrittrice che si è distinta anche per i suoi racconti di fantasmi.
Ovviamente nulla è più errato – e noi appassionati di nicchia fin troppo bene lo sappiamo – di orientare il giudizio in base a fama e numeri. Tuttavia il discorso è significativo allorquando Burroughs fu considerato dai critici come un autore che non sarebbe andato oltre al gradimento anglosassone. Ancor più interessante è infatti spingere l’analisi oltre alle questioni numeriche.
Non è infrequente che tutt’ora, a Edgar Rice Burroughs venga rivolta la critica d’esser stato uno scrittore che ha fornito una versione “semplicistica” della vecchia avventura fantascientifica, e di essere, anche basandosi sulle sue stesse dichiarazioni, una sorta di scrittore “per caso”, uno che ha iniziato a scrivere solo perchè “si poteva far di meglio di quelle storielle nelle primissime pulp magazines”. In parte Burroughs ha confermato queste critiche dicendo che il suo successo ha avuto luogo perchè lui è “un uomo banale, vicino ai gusti della gente normale”. Ma è piuttosto curioso che, una critica scaturita da una sua frase che suona presuntuosa – “riuscirei a scrivere cose più divertenti di questo marciume” – trovi conferma nella frase più umile che possa mai esserci, cioè di considerarsi in fin dei conti un uomo banale. Ma non la beviamo affatto. Lo abbiamo già detto. In una cosa sola Edgar R. Burroughs ha fallito, quello di fare di sé stesso un disgraziato, nonostante i suoi testardi tentativi.
In realtà, il suo contributo all’avventura fantascientifica – senza considerare la ricchezza delle sue saghe, e quanti autori le abbiano imitate – potrebbe essere letto in una maniera totalmente diversa anche prescindendo dal suo impatto pop. E’ ovviamente plausibile ritenere Burroughs inferiore da un punto di vista letterario alle avventure fantascientifiche di vecchia concezione di Verne o Haggard, ma c’è un fatto che non viene considerato molto spesso. Ottimi scrittori come Abraham Merrit, Talbot Mundy o il pluripremiato Pierre Benoit sono rimasti piuttosto fermi nell’area haggardiana. Ognuno di loro, probabilmente soprattutto Mundy, ha fornito delle visioni interessanti. Chi più chi meno, tra costoro, sono riusciti ad ottenere una propria vitale originalità, ma nessuno si è preso carico di innovazioni così sensibili, e di un lavoro accrescitivo di Verne e Haggard in una maniera complementare e prosecutiva come è stato fatto da Burroughs. Il creatore del Ciclo di Barsoom non si è limitato a stanziare nell’area di pensiero di Haggard e Verne e lavorare su dettagli individuali per levigare la propria originalità, ma ha dato destinazioni definitive sia nella distanza planetaria che in quella protostorica-pseudoscientifica, di conseguenza la sua letteratura assume una dimensione significativa. Burroughs sarà l’unica vera risposta della Fantascienza avventurosa a quella che dominerà dopo la fine dell’800, basata sulle “riforme” di Herbert G. Wells. Una seconda annotazione è fattibile anche riferendosi al contesto Pulp. Johnston McCulley con le sue avventure di Zorro è stato indubbiamente importante nel dualismo “super-eroico” dell’eroe in maschera, e nel portare degli umori noir ed etnocentrici nel pulp lavorando sulla radice di Robin Hood. Tuttavia, Burroughs precede di circa 8 anni Mc Culley e non è realistico dire che egli non abbia almeno il 70% dei meriti nell’invenzione del Pulp. Molte cose che si trovano in The Curse of Capistrano – o se preferite, Il Segno di Zorro – erano già pienamente in circolo in Sotto le Lune di Marte. Questo discorso merita tuttavia un’analisi a parte. Si potrebbe tutt’al più sintetizzare dicendo che anche qui, dove Burroughs si presenta apparentemente difettoso, sarà poi vincente in contraccolpo in una visione complessiva sulla linea della storia del genere. Se fare un “rimasticazione semplificata ottocentesca” significa dare origine alla letteratura Pulp, inventare la Sword & Planet e il Planetary Romance, impattando di conseguenza nella Fantasy Eroica e contribuendo a creare la Sword and Sorcery, … che dire, che ne arrivino altre di queste “rimasticazioni semplificate”.
Si è ritenuta anche la tecnica uno dei maggiori punti deboli di Burroughs. Anche questo tratto, bisogna ammettere, è piuttosto attuale e non rientra come altri argomenti in quello zoccolo di detrattori degli anni ’10 e ’20. Ma anche qui, l’iconico creatore di John Carter sembra alla fine far saltare il banco come è sempre stato pienamente nel suo stile. Non si può dire che Burroughs sia stato uno scrittore molto tecnico. Egli corrisponde piuttosto al profilo di un narratore immediato, fondato su psicologie sempre reattive all’evento avventuroso e su escamotage narrativi che badavano più all’efficacia, primo tra i quali l’uso e forse anche l’abuso di deus ex machina. In sintesi, Burroughs è stato di gran lunga migliore rispetto al ritratto che molti detrattori negli anni hanno fatto di lui, di contraltare si potrebbe dire che nel romanzo fantastico si sono visti scrittori tecnicamente più dotati. Ma anche stavolta da ciò che si presenta come un difetto relativamente incontestabile scaturisce un contraccolpo che rivolta la situazione. Se Burroughs avesse avuto Lord Dunsany, Eddison o perfino Howard come coach e consiglieri, non sarebbe incappato nell’uso della narrazione in prima persona, talvolta infausto nel Ciclo di Marte eppure, è proprio da quello strano “parlarsi addosso”; è proprio da quella particolare indistricabilità tra “io narrante” e descrizione dei pensieri che lo scrittore arriva quasi ad un linguaggio fumettistico.
A questo proposito, in una amichevole conversazione con il buon Andrea Gualchierotti, da noi conosciuto come scrittore di Fantasy Mediterranea nonchè direttore di Hyperborea, è emersa una considerazione piuttosto interessante nelle inerenze di fondo di un potenziale impatto del Burroughs sul fumetto, e sulle connessioni pulp-letterarie e il fumetto vecchia scuola:
“Effettivamente, c’è stato un passaggio di Medium. Il tipo di modalità comunicativa cambia, ma l’estetica che si voleva comunicare rimane sempre la stessa; avventura, esotismo, senso del meraviglioso. Il tutto passa attraverso un processo di adattamento ad uno strumento diverso delle stesse sensibilità”
Il Gualchierotti, in questo commento, si riferisce al passaggio ereditario dei contenuti pulp-eroici nel fumetto. Nel recente passato ammettiamolo pure, anche se per uno scampolo di poche righe, non si è parlato proprio bene dei fumetti marvel, ma si deve riconoscere che l’affermazione dell’autore di Stirpe di Herakles è piuttosto condivisibile e trova un riscontro incontestabile nella storia. Tutte le simbologie e i contesti vengono effettivamente trasferiti e gli evocativi artworks delle pulp magazines reclamano uno spazio interno che si esprimerà nel fumetto. Torna quindi Inevitabile riflettere a riguardo dello specifico di Burroughs che è protagonista in questa vicenda. I fumetti avventurosi, compresi i Marvel di fine anni ’30 e inizi ’40 richiamano molto più al linguaggio letterario di Burroughs che non alle strisce fumettistiche di Yellow Kids o Buster Brown, anche se le implicazioni di quest’ultimi sono ovvie e sarebbe inutile specificarle.
Tralasciando l’impatto di Burroughs sull’arte fumettistica e tornando a questioni letterarie vi è una considerazione di fondo da fare a riguardo di questo inusuale narratore. Uno scrittore tecnicamente scarso o poco attrezzato, cercherebbe di semplificare la sua narrazione il più possibile in modo da mantenere un linguaggio fluido, creare uno standard confortevole da mantenere e coprire di conseguenza le potenziali lacune per una narrazione omogenea in grado di reggere massimalmente i paragoni con scrittori più eruditi. Abbiamo visto questo comportamento in centinaia di romanzi. Burroughs in parte potrebbe aderire a questa strategia, ma in certi tratti fa anche qualcosa di completamente diverso, ed elabora una tecnica e un tipo di organizzazione adatti alle sue esigenze e a toni più alti, aulicamente stoici e funzionali a mantenere l’alto profilo titano-romantico di John Carter più di quanto la sua tecnica avrebbe permesso, creando uno standard proprio e questo lo ha portato ad essere importante anche da un punto di vista tecnico. Che venga ammesso o meno, da un punto di vista puramente tecnico, le grandi colonne della fantascienza modernista o quantomeno moderna come quelle nel contesto New Wave, sono tre; Minimalismo (Hemingway), Flusso di coscienza (Joyce), e uno stile dalla suggestione visiva, con elaborazioni come il cliffhanger e con una succinta efficacia descrittiva. Tutto ciò è senza dubbio espressione dell’ eredità di Burroughs. Il fatto che c’entri anche un suo omonimo, William S. Burroughs e il cut-up potremmo definirla semplicemente una coincidenza, tanto per non farci mancare un po’ di confusione. Ma di questo si è accennato anche nell’articolo su Conan il Barbaro. Fu curioso il fatto che coloro che cercarono di riformare la fantascienza secondo un’estetica “retoricamente attualizzata” ma al tempo stesso “tradizionale” non inclusero – forse per motivi politici – il lavoro letterario di Burroughs nella loro agenda, che paradossalmente, pur essendo lui portatore oltre il 900 dell’avventura classico-fantascientifica, influenzò la fantascienza moderna. Perfino Bradbury, influenzato da Burroughs individualmente, ma al tempo stesso esponente di una fantascienza non propriamente burroughsiana dichiarò – come riportato dalla BBC – che Burroughs è stato uno – se non “il più” – degli scrittori più influenti della storia. Ma anche di questo, si teme, sarà necessario parlare in altre occasioni.
Una riflessione panoramica, critico-giornalistica di questo scrittore potrebbe effettivamente terminare anche qui, nel renderci tuttavia conto che l’argomento specifico del Ciclo di Barsoom non è affatto esaurito. Oltre al successo e alla sua capacità di trasformare difetti in caratteristiche sensibili e influenti, – che è stato il tema principale di questa trattazione – sarà necessario parlare di Burroughs a riguardo della sua eredità della fantascienza, e forse anche secondo la linea dei suoi personaggi.
Note
Fonti consultate per le statistiche e per dati giornalistici vari: Wikipedia, Letture.org, John Carter Files, Penguin, New York Times, Answer, Washington Post, The New Yorker