Rhapsody – The Frozen Tears of Angels

“Liber scriptus

Liber proferetur

in quo totum continetur

Liber scriptus

Liber proferetur

Unde mundus judicetur.”

Reign of Terror

Immediatamente dopo l’uscita del disco Triumph or Agony tra i Rhapsody of Fire e la Magic Circle Music di Joey DeMaio si ruppe qualcosa. Tutt’oggi entrambe le parti mantengono il riserbo riguardo la causa legale che li vide coinvolti, perciò è solo possibile fare delle congetture, sta di fatto che non ci fu un vero e proprio tour a supporto del disco e alla band non fu consentito nemmeno (almeno si suppone) suonare nel suo paese natio. È da notare che ancora adesso, sul canale YouTube dei Rhapsody of Fire, tra le playlist dei vari album l’unico a mancare all’appello è appunto Triumph or Agony: nemmeno un singolo video a ricordarne l’esistenza. Inutile ormai disquisire sulle cause e sulle ragioni di quanto accadde all’epoca: quello che conta, alla fine della storia, è che per alcuni anni la sopravvivenza stessa dei Rhapsody of Fire sembrò seriamente compromessa.

Nel frattempo i membri della band si dedicarono ognuno ai propri progetti: Staropoli lavorò a un mai realizzato progetto con il cantante dei Crimson Glory (Midnight, scomparso nel 2009), Lione rientrò nei Vision Divine (band che aveva lasciato negli anni precedenti) e Turilli mise in piedi il suo corso di chitarra chiamato Neoclassical Revelation. Per un gruppo musicale che, sin dai tempi della sua nascita, si era contraddistinto per aver immesso sul mercato praticamente un’uscita ogni anno, uno iato di ben quattro anni fu un presagio funesto. Eppure, nella migliore tradizione della narrativa fantasy, proprio quando ormai le speranze si stavano assottigliando le beghe legali furono apparentemente risolte e i Rhapsody of Fire tornarono sotto l’egida della Nuclear Blast con The Frozen Tears of Angels.

L’album si presentò con una bella copertina ad opera del quotato Felipe Machado Franco, il cui stile moderno si distaccava parecchio dalle illustrazioni fantastiche utilizzate per le uscite precedenti; colori saturi, computer grafica e un approccio più vicino al fotorealismo.

Per quanto riguarda la musica i Rhapsody of Fire ridussero in parte l’apporto ridondante di orchestra e voci di attori per tornare a un impatto più diretto e “suonato”: The Frozen Tears of Angels si presentò come il lavoro di una band compatta e perfettamente in grado di bastare a se stessa, sia in studio sia dal vivo. A questo proposito è da notare come le esperienze dei singoli musicisti durante la pausa forzata contribuirono a rafforzare il loro apporto sia in fase compositiva sia esecutiva. In particolare è degna di menzione la prestazione chitarristica di Turilli, mai come in questo caso varia e colorita tanto nei suoni quanto negli arpeggi e nelle scale, alla ricerca di soluzioni nuove (nell’economia della band, s’intende) ed efficaci.

Lione, dal canto suo, dimostrò di aver raggiunto una piena maturazione artistica e di saper giostrare alla perfezione la sua gamma espressiva, dai passaggi maggiormente folk a quelli tipicamente power metal. Il cantante contribuì anche alla stesura di alcuni pezzi, per la prima volta in collaborazione con i due compositori principali, spostando gli equilibri del gruppo verso una dimensione più corale e allargata.

Sul tema dei testi e della narrazione è purtroppo da notare come la tendenza a rarefare gli avvenimenti continuasse imperterrita. Sebbene infatti la capacità lessicale di Turilli fosse cresciuta, di pari passo con l’espressività, per buona parte delle canzoni i Rhapsody (tramite il personaggio di Re Uriel, interpretato da Christopher Lee, e di Iras Algor) non fanno altro che ripetere quanto sia grave la minaccia rappresentata dall’Oscuro Segreto che dà il titolo a questa seconda saga. Un continuo tirare la corda dell’aspettativa che però, di fatto, viene smentito dalla mancanza di avvenimenti tragici o spaventosi che giustifichino questa tensione ostinata, specialmente alla luce di quanto invece era avvenuto nella Emerald Sword Saga, foriera di battaglie, rapimenti e perdite tragiche.

A ogni modo, sono trascorse 50 lune da quando gli eroi inviati dal White Dragon’s Order hanno recuperato il terribile libro nero di Nekron. Da allora, mentre le genti delle Terre Incantate vivono pacificamente le loro vite, inconsapevoli delle minacce che incombono all’orizzonte, i discepoli di Nekron hanno accelerato le loro diaboliche attività per preparare la resurrezione del loro signore. Nel frattempo il saggio Iras, insieme agli altri capi delle forze del bene, è riuscito a decifrare un messaggio nascosto all’interno delle pagine del tomo maledetto, un messaggio sovrascritto in tempi più recenti dagli stessi discepoli del Black Order, nel quale viene confermata l’esistenza del mitico Libro Bianco, scritto dall’angelo guerriero Erian in tempi remoti. Questo libro sacro rappresenta l’unica concreta minaccia per l’Ordine Nero e, se ritrovato, consentirà di decifrare completamente la profezia di Nekron e di fermarla. Secondo gli appunti aggiunti dai discepoli del Black Order, il prezioso White Book è stato nascosto da qualche parte nelle terre del nord, tra ghiacci e montagne innevate. È là che il gruppo di protagonisti dovrà dirigersi per scongiurare la funesta profezia.

Ebbene sì, dopo aver passato due album interi a raccontare la ricerca di un tomo misterioso, i Rhapsody of Fire interrompono il lungo digiuno discografico… facendoci partire alla ricerca di un altro libro! Al tempo fu inevitabile alzare più di un sopracciglio alla luce di questa “svolta” narrativa. Cionondimeno quello che contava davvero alla fin fine era la musica e, da questo punto di vista, i risultato fu tutt’altro che deludente. Anzi.

Come da prammatica l’intro strumentale Dark Frozen World apre le danze, preceduta dalla cavernosa e stentorea voce di Lee. L’impatto cinematografico è bello presente e non manca di risultare coinvolgente, tra cori che si sovrappongo, tastiere magniloquenti e orchestrazioni epiche. Da qui si passa fulminei alla bella Sea of Fate. Nel testo si respira l’aria di minaccia incombente rintracciabile nei presagi e nei segnali che la natura lancia a chi è capace di ascoltare, mentre la musica è una bella cavalcata che si apre in un ritornello arioso e suggestivo. In fase solistica Turilli dà un assaggio di novità inserendo qualche passaggio dal vago sapore orientale per poi rituffarsi, insieme a Staropoli, in una tipica esibizione neoclassica, breve ma che reca impresso a fuoco il marchio di fabbrica della band e in cui anche il bravo bassista Dominique Lerquin riesce a farsi sentire senza essere soffocato dagli altri strumenti. Completa il quadro la voce luminosa di Lione, con il suo amato/odiato vibrato, altro biglietto da visita del gruppo. L’impatto generale è decisamente più asciutto rispetto al passato, come testimonia anche il sobrio (se le parole sobrietà e Rhapsody possono coesistere) video.

Si passa a Crystal Moonlight, un up tempo canonico improntato su un bel riff di chitarra. Il testo di nuovo rimarca la presenza di spettri e fantasmi dannati che attendono di varcare la soglia che separa questo mondo dall’aldilà. L’idioma italiano torna qui a fare capolino, mentre dall’italiano si passa al latino nella terremotante Reign of Terror. Il pezzo risulta essere non solo il più selvaggio e aggressivo del disco, ma probabilmente dell’intera carriera dei Rhapsody (almeno fino a quel momento). Voci sussurrate poi sempre più presenti declamano sin dal principio quello che sarà il ritornello della canzone, prima che parta un graffiante pezzo metal sorretto magnificamente dalle orchestrazioni “bombastiche” e dai singoli membri del gruppo: in particolar modo dalla batteria di quella macchina da guerra che risponde al nome di Alex Holtzwarth. Su tutto l’impianto svetta lo screaming furioso di Fabio Lione, mai così acido e tagliente, alternato alla voce pulita in cambi repentini quanto efficaci. Ad onta di coloro che avevano bollato i Rhapsody of Fire come una band da studio, incapace di riprodurre dal vivo i passaggi intricati e le sovraincisioni realizzate in sala, il bravo cantante pisano dimostrò durante il tour promozionale dell’album di essere perfettamente in grado di effettuare quegli stessi cambi con una velocità sorprendente, quasi senza soluzione di continuità da uno stile all’altro. Le liriche rimandano alla storica rivalità tra le forze del bene e del male e alle turpitudini contenute nel Libro Nero.

Con una completa inversione di rotta la seguente Danza di Fuoco e Ghiaccio riporta gli ascoltatori sul territorio della musica folkloristica e i Rhapsody of Fire si lanciano in un sentito omaggio a Branduardi e alle tradizioni popolari italiane. Non a caso l’intera canzone è cantata in italiano, con un approccio delicato e con un’emissione vocale estremamente dosata, a maggior contrasto con quanto appena sentito. Diventano inoltre protagonisti i flauti di Manuel Staropoli, che si ritagliano un ruolo di primo piano per tutta la durata del pezzo. La distorsione sparisce dalla chitarra di Turilli e il nostro si esibisce con successo su un terreno meno consueto del solito, in cui la velocità viene messa al servizio di un tocco più personale e di un’atmosfera danzerina. Per chi scrive, uno degli apici del disco.

E si procede così con un terzetto di brani validi e vari che accompagnano gli eroi verso le terre del nord, raccogliendone suggestioni e pensieri: Raging Starfire, Lost in Cold Dreams e la possente On the Way to Ainor. Nella prima, una veloce tirata power, sono rimarchevoli l’interludio strumentale e l’utilizzo di voci a canone, mentre la seconda è una ballata con un testo particolarmente intimista, che celebra l’incontro del gruppo di protagonisti con il fantasma di un’innocente barbaramente uccisa. Il pezzo in sé è bello anche se probabilmente non tra i lenti più memorabili del gruppo. Discorso a parte merita On the Way to Ainor, vero e proprio trionfo dei Rhapsody vecchia maniera; bilanciata tra parti rallentate e melodiche e cori epici che più epici non si può (il ritornello vince tutto praticamente a mani basse). Da apprezzare in questa sede anche il ritorno più che gradito della soprano Bridget Fogle, per un richiamo ai Goblin che furono. Splendidi anche gli assoli di chitarra, lunghi e vari. Con questa canzone Iras, Dargor, Khaas, la principessa Lothen e Tarish salutano le terre verdeggianti e si inoltrano nell’ultima città vivibile prima del desolato e ghiacciato nord: la nobile Ainor.

Mentre sono accolti con tutti gli onori e le comodità dagli ignari abitanti della città, a Iras viene dato accesso alla torre più alta e lì indaga tra le migliaia di libri e documenti scritti da uomini ed elfi nel corso degli ultimi secoli. Scopre così un indizio occulto su dove possa trovarsi precisamente il Libro Bianco di Erian. Tremila anni prima le orde dei signori oscuri sconfissero le forze del nord e trafugarono il sacro testo proprio dalle mura di Ainor, dov’era custodito; il tomo venne poi portato nella fortezza di Har-Kuun, uno dei leggendari cancelli infernali di Nekron, e lì conservato perché non potesse più nuocere ai suoi nemici. La suadente voce di Susannah York, che interpreta il personaggio di Eloin, riassume questa scoperta e introduce il brano più lungo dell’album: l’eponima e conclusiva The Frozen Tears of Angels. In questa mini-suite c’è praticamente di tutto, a partire dai suoni gelidi delle tastiere di Alex Staropoli che ben evocano le atmosfere nordiche. Stridente e straniante, rispetto alle abitudini “Rhapsodiane”, attacca il riff di chitarra, con un piglio leggermente più moderno. The Frozen Tears of Angels offre ripetuti cambi di tempo, sempre ben amalgamati tra di loro, un ritornello particolarmente riuscito ed evocativo, la voce su toni alti di Fabio e dei begli assoli a coronare il brano più articolato del disco, che si dipana per oltre undici minuti; una metaforica alzata di sipario verso le terre ghiacciate che saranno le protagoniste del successivo EP.

Per concludere, l’edizione speciale del disco uscì con due tracce bonus: la strumentale Labyrinth of Madness, ulteriore passerella per il ritrovato virtuosismo di Turilli, e una versione orchestrale di Sea of Fate. Inoltre, alla fine del libretto, sono presenti dei commenti dei due compositori principali per ogni singola canzone dell’album, con aneddoti, opinioni e preferenze personali. Uno sguardo dietro le quinte piuttosto gradevole, che permette di vedere l’approccio alla materia dall’altra parte della barricata, per così dire.

The Frozen Tears of Angels segnò la rinascita di una band che si temeva avesse concluso anzitempo la sua corsa, e per le ragioni più sciocche e frustranti. Un’ottima uscita, prodotta magnificamente, ben suonata e con una bella varietà stilistica; più bilanciata tra vecchio e nuovo rispetto a quanto sperimentato con il disco precedente e che permise ai Rhapsody of Fire di tornare a finalmente a esibirsi sui palchi di mezzo mondo e a infiammare le folle, presentati ogni volta dalla possente voce di Christopher Lee.

“Gloria a te o Padre Sole, il tuo fuoco domerò

Gloria a te o Madre Luna, dal tuo pianto io berrò

Della notte senza stelle il lupo or sarà

L’occhio vigile, il custode di rispetto e di lealtà.”

Danza di Fuoco e Ghiaccio

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