Il mio viaggio a Creta inizia un pomeriggio d’estate.
Sono sdraiato sul divano, il caldo mi fa desiderare nient’altro che bivaccare sul divano con un libro in mano. C’è anche la mia ragazza, china sul pc; è concentrata come ogni volta che punta una buona idea. In effetti, quando si volta, il suo viso è pieno di soddisfazione: «Guarda» mi dice, «c’è un volo diretto da Catania a Creta per fine settembre. Una buona offerta.»
Infilo un dito in mezzo alle pagine del libro, rimango oziosamente a rimuginare. Creta, Heraklion. A pochi chilometri più a sud sorge l’antico palazzo di Cnosso, con i suoi porticati e gli affreschi che riempiono i libri di storia.
Ecco, mi dico, ho l’occasione di compiere un viaggio che ho sempre desiderato.
A Creta, nei meandri della protostoria egea, alla scoperta di una civiltà che anticipò oltre un millennio la Grecia Classica. A Creta, dove Zeus fu dato alla luce in un antro del Monte Ida e allevato dai Cureti che agitavano i tamburi per scacciare la malinconia del dio evitando così che il suo pianto attirasse l’attenzione del padre, il titano Crono. A Creta, la patria del Minotauro, creatura nata dall’unione sacrilega della Regina Pasifae con il toro divino di Poseidone.
Quando giunge il giorno della partenza, impilo ordinatamente i vestiti all’interno dello zaino da viaggio; immancabile, la Moleskine per prendere appunti e il cappello Panama ben calcato sulla testa. Una lettura tematica accompagna il mio viaggio, «La Vita Quotidiana ai Tempi di Minosse» di P. Faure [1]. È tutto quello che ho bisogno, il resto è dentro la mia testa: reminiscenze di antichi miti mediterranei, immagini fugaci di avventure ancora da scrivere e tutto l’entusiasmo per un viaggio in solitaria.

Seguite la Stella Cadente… e fermate la vile stregoneria di Minosse!».
Gettò via il pesante scudo a forma di otto, troppo pesante per un’azione rapida. Il suo corpo di bronzo, nudo a eccezione del perizoma, corse attraverso il ponte della galera pirata. Una freccia gli sibilò sopra i capelli, e una pietra lo colpì al braccio. La spada lucente parò il colpo di un’altra freccia, e Teseo balzò dal ponte.
I suoi piedi sfiorarono la balaustra. Balzò di nuovo, dal tetto di scudi che copriva una squadra di lancieri in attesa, e si fermò sul ponte di comando. La sua spada nuda minacciò il nero sacerdote minoico, e la sua voce sibilò: «Dov’è adesso la nera magia di Minosse?» Osservò che negli occhi acquosi del prete l’esaltazione selvaggia cedeva il posto al più abietto terrore. Vide un lampo astuto passare per un istante in quegli occhi, e con un rapido movimento del capo vide che le mani del prete schiacciavano gli occhi del vaso a forma di testa di toro che stringeva in pugno
Jack Williamson, L’Impero dell’Oscuro (1940)
L’Isola delle novanta città
Un soffio di aria condizionata, due sedili vuoti accanto a me e il rombo costante dei motori dell’aereo. La luce di lettura è troppo intensa, la spengo; sto sorvolando il Mediterraneo e fuori dal finestrino è una completa oscurità. Disegno mentalmente la traiettoria di volo: Creta sta proprio lì, distante tanto dalle coste greche quanto da quelle africane; abbastanza vicina alla mezzaluna fertile da subire gli influssi delle grandi civiltà che fiorirono nel Medio Oriente, ma distante abbastanza da sviluppare una civiltà dai caratteri originali.
La storia antica di Creta si sviluppa per ondate migratorie che ebbero inizio nel VII-VI millennio, in età neolitica, per susseguirsi a più riprese fino al II millennio a.C., con l’arrivo di popolazioni già in possesso di armi in bronzo. Studi antropologici effettuati su una base di centododici scheletri permettono di distinguere due gruppi etnici prevalenti, entrambi di origine europea-mediterranea. Paradossalmente, la vita a Creta non inizia sulle coste, come ci si aspetterebbe da un’isola, bensì sulle montagne, su quelle alture che domineranno l’universo religioso dei minoici già nelle prime fasi della civiltà [2].
Click, Click! Rettifico le cifre sul mio orologio Casio per tenere conto del fuso orario. L’aeroporto di Heraklion dista appena tre chilometri dalla città, ma l’ora è tarda e non ci sono più corse degli autobus urbani. Mi dirigo verso l’area di sosta dei taxi, un uomo tira un’ultima boccata di sigaretta e mi fa cenno verso l’auto. L’autista è taciturno, ha bisogno soltanto dell’indirizzo di destinazione. Poco male, penso, non mi dispiace affatto il silenzio. Colgo l’occasione per guardare fuori dal finestrino. Il mare, un viale costeggiato da ulivi, la forma scura delle montagne all’orizzonte.
Vista così, Creta non sembra poi molto diversa dalla mia Sicilia.

Questo pensiero mi dà modo di riflettere su un aspetto importante dell’intera questione, ovvero su come la geografia dell’isola abbia condizionato lo sviluppo delle prime comunità di coloni. È possibile distinguere quattro macro-aree di habitat omogeneo: la costa settentrionale e orientale, le colline e le dolci montagne della zona centro-orientale dell’isola e le montagne più impervie dell’area centrale e, infine, la pianura costiera meridionale. A queste aree geografiche corrispondono altrettante unità culturali [3-4]. Non deve sorprendere, quindi, scoprire che la civiltà dei Palazzi non ha mai sfiorato le vette del monte Ida, né che la città di Festo, abitata dai discendenti del mitico Re Radamanto, fosse in conflitto con la città di Cnosso, popolata dai discendenti dell’altrettanto mitico Re Minosse. Dobbiamo immaginare la Creta minoica come una pluralità di entità culturali, al punto che lo stesso Omero parla di «Kretai», cioè «le Crete» alludendo alla pluralità di popoli e lingue distribuite sull’isola.
Siamo fermi a un semaforo, l’ultimo che il taxi incontra nella periferia di Heraklion. Davanti a noi, la città si fa più fitta e le strade sono popolate da giovani che si riversano in centro per poi disperdersi fra i tanti locali notturni. Insegne accattivanti, il tintinnio del ghiaccio nei bicchieri accompagna il chiacchiericcio nei tavoli. Mi chiudo alle spalle la porta del B&B, tiro giù lo zaino sul letto e scopro che l’host ha avuto cura di recapitarmi dei tappi otoprettori nella speranza di conciliare il sonno con la musica del locale oltre l’angolo.
La vitalità di questa città è contagiosa, mi dico.
Chissà come doveva apparire in passato quest’isola, descritta da Omero nel periodo del suo massimo splendore, con una popolazione numerosa e novanta città fra cui Cnosso: «dove Minosse per nove anni regnò, che solea favellare con Giove [5].»
Esagerazione poetica? Stando all’analisi linguista proposta da P. Faure, è possibile rintracciare nella toponimia cretese centotrentadue nomi di città esistenti in epoca ellenica, rilevate da iscrizioni, monete, carte geografiche e citazioni di testi letterari. Di queste, se si sottraggono tutti i nomi la cui etimologia è chiaramente riferibile all’epoca achea e dorica, successiva alla civiltà minoica, si ottiene un quadro di novantatré centri abitati, cifra congruente con quanto afferma l’autore dell’Odissea.
Giovenale schiantò le assi di legno che rattoppavano il tetto e si lasciò scivolare all’interno della stanza, un buco scuro rivoltato da cima a fondo. Tossì nell’incavo del gomito a causa della polvere sospesa nell’aria, poi sollevò la torcia davanti a sé: il corridoio era largo, sorretto da tozzi pilastri amaranto e ingombro di macerie. Si avviò con i sensi in allerta ma scoprì che non era semplice orientarsi e si trovò a vagare in un susseguirsi di stanze e gradinate. Le pareti mantenevano ancora la vivacità degli affreschi. Non aveva già visto quella donna dalla pelle bianca che reggeva dei fiori? Pensò di essersi smarrito e sobbalzò quando un rumore lo sorprese alle spalle. La torcia descrisse un arco luminoso, d’istinto Giovenale portò una mano ai pugnali. Il bronzo delle figure danzanti non gli restituì, al tocco, alcuna sensazione di allarme; poco dopo un topo squittì e sparì dalla sua vista. L’oscurità odorava di calce umida e muffa.
G. Cerniglia – Frammento inedito degli Inquisiters; in copertina, Ostraka (2022)
All’interno del Palazzo di Cnosso
La sveglia suona presto, sono frastornato; il solco delle occhiaie allo specchio parla di fuso orario, di poche ore di sonno, della musica dei locali che entra dalla finestra, degli schiamazzi giù in strada. Al mattino Heraklion mostra un volto diverso: il silenzio, le sedie sui tavoli, qualcuno che spazza il bordo della strada.
Inizio la giornata con un caffè, quello fatto a regola d’arte; chicchi dell’Etiopia, forti note aromatiche che rendono superflua ogni aggiunta di zucchero. Sono galvanizzato dall’idea di visitare Cnosso. Mentre sono sul bus ripasso i miti che intersecano il Palazzo: Minosse, figlio di Zeus ed Europa; Dedalo, Icaro e la costruzione del labirinto; Teseo, il filo di Arianna e l’uccisione del Minotauro.
Tanta mitologia, tanta storia qui a Cnosso.
Fortunatamente, il sito non è sovraffollato come in alta stagione; gruppi di turisti si raccolgono attorno alle guide che spiegano gli aneddoti legati al Palazzo: qui, il corridoio con lo stucco decorato con una coppia di portatori di Rhyton; là, delle corna monumentali consacrano uno degli ingressi al complesso. Il sole settembrino è rovente, mi calo il cappello sul viso senza rinunciare alla lettura delle tante didascalie bilingue di cui è disseminato il sito.
Il Palazzo di Cnosso, come gli analoghi complessi dei siti di Festo, Malia e Zakron, costituisce un insieme organico di quartieri abitati che si apre su un corte centrale orientata in direzione nord nord-est. È un’architettura originale risalente al 1500 a.C., il cosiddetto periodo neopalaziale, che differisce dai modelli mesopotamici ed egizi per la presenza di pozzi luce, cortili interni e partizioni create da balconate e pilastri, tutte soluzioni in grado di garantire luminosità e ventilazione al complesso.

La storia di Cnosso è anche la storia di Sir Arthur Evans.
Era il 1900 quando l’archeologo inglese iniziò gli scavi su un appezzamento di terreno che aveva acquistato nell’area in cui, nel 1878, l’antiquario Minos Kalokairinos aveva riportato alla luce due magazzini minoici. Gli scavi di Evans durarono un trentennio e fornirono una moltitudine di reperti, oltre alle vestigia di un complesso architettonico esteso su un’area di 20.000 m2. In cosa si era imbattuto Evans? Qualcosa più antico persino delle vestigia di Micene restituita dagli scavi di Schliemann appena un ventennio prima. Non si trattava della Creta del racconto omerico, la Creta di Idomeneo che condusse a Troia una flotta di ottanta navi alleate degli achei, ma di una civiltà ancora più antica e – cosa ancora più sconvolgente – estremamente progredita e raffinata. La Creta di Minosse era dotata di sistemi di canalizzazione delle acque e di due forme di scrittura, il geroglifico cretese e il lineare A, antecedente alla scrittura in uso a Micene. Le evidenze raccolte nell’ultimo ventennio dell’ottocento costrinsero la comunità accademica internazionale ad accettare due conclusioni: la fondatezza dei testi omerici da una parte e l’esistenza di una civiltà precedente alla Grecia classica dall’altra.
Sembrò necessario, allora, riscrivere l’intera storia dell’area egea.

Il lavoro di Evans a Cnosso non si limitò soltanto a restituire le rovine di quello che l’archeologo inglese identificò con il Palazzo di Minosse ma, attingendo a un’abbondante iconografia, propose un’immagine del complesso di Cnosso e dell’intera civiltà minoica [6]. Un’immagine per certi versi controversa, come testimonia la ricostruzione dell’affresco del Principe dei Gigli, ricomposto a partire da frammenti di immagini diverse.
Le condizioni di alcune sezioni del Palazzo di Cnosso costringono Evans a una massiccia opera di consolidamento per evitare, come nel caso della Grande Scalinata, che le rovine appena riportate alla luce possano crollare. In un articolo pubblicato sul quotidiano The Times nel 1905, è lo stesso archeologo a spiegare come fu costretto a smantellare parte della gradinata superiore per consolidare la parte sottostante, introducendo cemento e putrelle di metallo al posto delle colonne e degli architravi distrutti dall’incendio che decretò la fine del Palazzo.
I lavori di restauro riportano intere sezioni di Cnosso allo splendore immaginato da Evans nel contatto quotidiano con le vestigia dell’antico palazzo, senza disdegnare scelte invasive come il ricorso al calcestruzzo, materiale di cui in quegli anni si lodava la plasticità e la resistenza sismica. L’opera visionaria di Evans non mancò di suscitare critiche già fra i suoi contemporanei che lo accusarono di essere un «costruttore di rovine».

Passeggio senza fretta per Cnosso, risalga l’ampia scalinata che conduce al primo piano, da cui godo una vista, di cui è visibile soltanto il tracciato degli ambienti. Cnosso è un sito suggestivo, che qualcuno – anche a ragione – può giudicare fittizio; eppure, essere in fila sotto il sole per dare un’occhiata ai grifoni che decorano l’interno della cosiddetta Sala del Trono mi provoca una profonda suggestione: condivido quanto scritto da A. Farnoux per cui Cnosso è «il palazzo sognato da un archeologo che era un uomo della sua epoca e, al contempo, di tutta una generazione di studiosi e curiosi [8]».
Una flotta di turisti boccheggia in cerca d’ombra sotto la tettoia che protegge la Grande Scalinata, purtroppo l’ala est del Palazzo è momentaneamente chiusa per lavori di consolidamento. Cerco qualche zona d’ombra, uno scatto inedito rispetto a quanto ho già visto sui libri. Eccole lì, le colonne color porpora lungo l’ingresso settentrionale; quelle colonne che danno a Cnosso il suo aspetto iconico, seppur artificioso.

Una domanda mi frulla per la testa.
Davvero Cnosso rappresenta il Palazzo di Minosse così come proposto da Evans?
In realtà, è probabile che il complesso rappresenti il centro vitale di una comunità economica dai forti connotati religiosi. Certo, la complessità di ambienti può indurre a un’identificazione fra Cnosso e il leggendario labirinto costruito da Dedalo per volere di Minosse e, in effetti, la parola stessa «labirinto» viene messa in relazione con il termine «labrys» usato dalla popolazione anatolica dei Cari per indicare l’ascia bipenne, uno dei simboli della cultura minoica [9]. D’altro canto, tuttavia, una serie di tesi depongono a sfavore della suddetta identificazione fra il labirinto e il complesso di Cnosso [10]: se il termine «labirinto» avesse designato un palazzo reale, allora lo si ritroverebbe applicato ad altri edifici analoghi, mentre i testi antichi lo indicano in relazione alle gallerie scavate nella roccia come corridoi di santuari, tombe sotterranee e mai per la dimora di Minosse; inoltre, il complesso di Cnosso presenta gli stessi attributi dei templi mesopotamici di Urul o Lagash, o del Grande Tempio di Gerusalemme, esso stesso indipendente dalla casa del re.
La presenza stessa di un Re-Sacerdote è ugualmente dibattuta, in quanto non suffragata da dati iconografici; quest’ultimi, tuttavia, vanno interpretati alla luce delle specificità della religione minoica rispetto alle altre religioni mediterranee: a Creta non sussiste la necessità di garantire l’immortalità del Re tramite la sua raffigurazione, come in Egitto, né di mettere in relazione il Re con gli Dei, come accadeva in Mesopotamia [11].
«Il Coppiere», «l’Affresco della Processione», «la Parigina» e gli altri affreschi minoici ci parlano della abilità di evocare un’apparenza di vita, una visione, non del tentativo di ricreare l’esistenza.

Una presenza al mio fianco mi riportò al presente. Dedalo. Eravamo soli, per la prima volta da quando era arrivato sulla mia isola. Aveva schizzi bruni sulla fronte. Le braccia imbrattate fino ai gomiti. «Posso bendarti le dita?»
«No. Grazie. Guariranno da sole.»
«Signora.» Esitò. «Ti sarò debitore per il resto dei miei giorni. Se non fossi venuta, avrei dovuto farlo io.»
Le sue spalle erano rigide, tese come per parare un colpo. L’ultima volta che mi aveva ringraziata, gli avevo fatto una scenata. Ma adesso capivo meglio: sapeva anche lui cosa significasse creare un mostro.
«Sono lieta che tu non abbia dovuto» dissi. Accennai alle sue mani, incrostate e sporche come il resto. «Le tue non possono ricrescere.»
Abbassò la voce. «Può essere uccisa la creatura?»
Pensai a mia sorella che strillava di fare attenzione. «Non lo so. Pasifae sembra credere di sì. Ma se anche fosse, è figlio del toro bianco. Può essere protetto da un dio, o può scatenare una maledizione su chiunque gli faccia del male. Devo rifletterci.»Si passò una mano sulla testa e vidi la speranza in una facile soluzione abbandonarlo. «Dovrò costruire un’altra gabbia, allora. Quella non lo conterrà a lungo.»
M. Miller, Circe (2018)
Il museo archeologico di Heraklion
Il secondo giorno di viaggio inizia con una pessima colazione, ben pagata ma appena sufficiente, in un locale al centro della piazza di Heraklion. Come se non bastasse, a causa di Google Maps vado nella direzione esattamente opposta alla mia destinazione. Eh, caspita, maledetta connessione internet. Bip! Il lettore digitale riconosce il biglietto elettronico. Zac! il tornello compie uno scatto in avanti.
Sono all’interno del Museo Archeologico di Heraklion.
27 sale, 5.500 anni di storia, tesori che tanti di noi hanno sicuramente visto nei libri di storia. Oltre cinque ore di visita, faccio tutto con calma; ho letto, studiato i periodi della storia di Creta. Le sale, in questo, mi aiutano a ripassare e consolidare i concetti: periodo protopalaziale, neopalaziale, postpalaziale.
Il palazzo, se ancora non si fosse capito, è il metro di misura della storia di Creta.

Non trascuro nessuno dei tesori in mostra nelle teche. C’è uno straordinario afflusso di turisti che, come me, osservano incuriositi. Le ceramiche di Kamares, il Disco di Festo – mai decifrato – le asce votive, le tavolette in lineare B – loro sì, sono state decifrate – gli anelli con i sigilli, il rhyton a forma di testa di toro. C’è anche un curioso mucchio di ossa appartenente a un cavallo fatto e pezzi e infilato nella tomba di una principessa.
Il reperto che mi ha colpito di più è senza dubbio la Dea dei Serpenti.
Vita stretta, gonna a balze, seno scoperto, un serpente per mano e un copricapo sormontato da un animale. Una maiolica affascinante, intrisa di simbologia, che Evans riportò alla luce insieme al tesoro del tempio di Cnosso.
La cultura minoica al proprio apice fu un vero gioiello.
Un popolo dedito nelle diverse stagioni dell’anno all’agricoltura sulla terraferma e alla pesca e agli scambi commerciali in mare aperto. Creta non fu espressione di un popolo feroce, bellico. Vedo poche spade esposte nelle teche; spade meravigliose, con un cristallo di rocca incastonato nel pomo, ma sono armi da cerimonia e non da battaglia. A ripensarci, non ci sono mura difensive né attorno al Grande Santuario di Cnosso, né attorno alla città che vi sorse nei dintorni.
I cinquecento anni che vanno dal 2000 a.C. e al 1500 a.C. sono caratterizzata dalla talassocrazia cretese, ovvero il dominio sul mare e il consolidamento di rotte commerciali che includono la Grecia, l’Anatolia, la Siria e l’Egitto [12]. A riprova di ciò, è possibile rintracciare nelle tombe egizie ritratti di tributari stranieri dai tratti tipicamente minoici, designati col termine Keftiù.

Tengo la Moleskine in tasca, ogni tanto la tiro fuori e segno qualche appunto. La datazione di un periodo storico, un sito archeologico minore, un artefatto notevole. Non so a cosa serviranno questi appunti, ma oggi li reputo importanti. Le sale, una dopo l’altra, disegnano la parabola della civiltà minoica fino alla sua enigmatica scomparsa.
Cosa determinò la fine di Cnosso? [13]
Le cronache di Erodoto ci informano che in seguito alla spedizione in Sicilia e alla morte di Minosse, l’intera isola di Creta era spopolata ad eccezione delle due città di Praisos e Poliknè. I dati archeologici confermano che, ad esclusione del Palazzo di Cnosso, tutti gli altri grandi insediamenti minoici erano in decadenza intorno al 1450 a.C.
Si sono avanzate diverse ipotesi: pestilenze, carestie, l’eruzione del vulcano Thera sull’odierna isola di Santorini. Quest’ultima teoria, già elaborata da M. Spyridon nel 1934 ed esposta pochi anni più tardi in un articolo sulla rivista Antiquity, riprese vigore nel 1967 in seguito agli scavi del villaggio minoico di Akrotiri, sulla costa meridionale di Santorini, distrutto da un’eruzione intorno al 1520 a.C.
Tuttavia, sarebbe erroneo traslare l’ipotesi vulcanica per spiegare la scomparsa della civiltà cretese. Innanzitutto, la distruzione dei grandi palazzi minoici è posteriore di almeno cinquant’anni rispetto alla catastrofe naturale di Santorini. Inoltre, cosa ancora più importante, gli strati degli scavi dei siti di Cnosso, Malia, Festo e Zakron non recano alcuna traccia di ceneri vulcaniche. Si ritrovano quantità di pietra pomice, ma la cosa è facilmente spiegabile dato l’uso che se ne faceva a scopo domestico, artigianale e magico-religioso.

È più probabile, invece, ipotizzare che un conflitto logorante oppose uno contro l’altro i sovrani dei piccoli stati minoici dell’isola. In mancanza di fonti scritte non è possibile avere cronache di tali guerre; l’unico riferimento rimane quello di Erodoto che, in epoca ben più tarda, ci tramanda un conflitto fra Minosse di Cnosso e i sovrani Sarpedonte di Lyktos e Radamanto di Festo. Eventi reali o racconti semileggendari? Poco importa, intorno al 1400 a.C. il vuoto creato dalla decadenza degli stati minoici fu colmato dall’arrivo di nuove popolazioni giunte dalla Grecia continentale che si insediarono nei palazzi preesistenti, ereditandone la cultura e, al tempo stesso, innovandone alcuni aspetti: le divinità minoiche sfumano nei culti delle nuove divinità provenienti dalla Grecia, a Cnosso viene costruita la Sala del Trono; un nuovo tipo di scrittura, la lineare B, soppianta quella precedente pur mantenendone la stessa funzione amministrativo-contabile. Un passaggio all’insegna della continuità ma che segnò al tempo stesso un cambiamento culturale radicale.
Era il tramonto dell’era minoica e l’inizio dell’epoca micenea.
Da lì a poco sarebbe sorta l’acropoli di Micene, sovrani guerrieri sarebbero stati seppelliti in tombe ricche di corredi funerari e una grande quantità di truppe – incluse quelle della Creta di Idomeneo – sarebbe salpata in direzione di Troia per combattere una guerra che avrebbe segnato la storia dell’occidente.
Ma quello è tutto un altro racconto.
Ti è piaciuto l’articolo? Rimaniamo in contatto: seguimi su Instagram @giuseppe.cerniglia.
Note
[1] . Faure, La Vita Quotidiana a Creta ai tempi di Minosse, Rizzoli (2018) [2] Nel periodo tardo prepalaziale e protopalaziale (2.200 a.C. – 1.700 a.C.) al culto domestico degli antenati, si affiancano i depositi votivi nei santuari istituiti sulle alture (fonte: Museo Archeologico di Heraklion). [3] Nel dettaglio, vi rimando a P. Faure, La Vita Quotidiana ai Tempi di Minosse, pp.110-114. [4] In epoca storica, la suddivisione dei dipartimenti istituiti durante la dominazione veneziana dell’isola nel XIII secolo d.C., ricalca all’incirca le suddette aree geografiche. [5] Omero, Odissea, XIX, 20 – 21 [6] Sui lavori di consolidamento e restauro operati da Evans si rimanda a A. Farnaux, Cnosso e l’Arte Minoica, Universale Electa Gallimard (1999) [8] A. Farnaux, Op. Cit., pag.90 [9] J. B. Rutter, minoan religion, consultato online [10] Sull’argomento si consulti P. Faure, Op. Cit, pag. 260 e seguenti. [11] F. Matz, l’Apice della Civiltà Minoica, in Storia del Mondo Antico Vol.2, L’apogeo delle Civiltà Orientali: Egitto, Mesopotamia, Egeo, Garzanti (1976) pag.508-509 [12] M. De Liguori, La Talassocrazia minoica, consultato online [13] Sull’argomento si consulti P. Faure, Op. Cit, pag. 158 e seguenti.