White Skull – Roma antica e metal

No, kingdoms are clay

If there’s no chief

All falls in ruins

Greedy Rome, immortal town

You always kill the ruler you’ll need”

No, i regni sono d’argilla

Se non c’è un capo

Tutto cade in rovina

Avida Roma, città immortale

Uccidi sempre il governante di cui avrai bisogno”

Greedy Rome

white skull cover

Nell’ambito delle rievocazioni storiche in musica, ai fruitori più giovani il nome dei White Skull potrà suonare poco noto, ma questi alfieri del power heavy metal più verace e granitico sono una realtà consolidata della scena italiana (e non solo). Fondati dal chitarrista e principale compositore Tony “Mad” Fontò, i vicentini sono meno celebrati rispetto ad altri gruppi più blasonati, ma nel corso di ben 30 anni di carriera, hanno sfornato album più che validi e hanno confermato più volte di essere una garanzia in sede live, ancora oggi A.D. 2022.

Giusto per dare qualche coordinata di riferimento: a differenza di molti gruppi del genere, improntati su voci pulite, melodie allegre e partiture sinfoniche e ampollose, i White Skull si sono sempre contraddistinti come la risposta italiana ai cugini tedeschi Grave Digger, da cui hanno tratto non poca ispirazione (e non a caso il buon Chris Bolthendal è loro amico e collaboratore più o meno fisso). Sonorità ruvide, quindi, strutture generalmente semplici delle canzoni e un’attitudine da “true defender” poco incline a sperimentazioni o eccessivi ammorbidimenti. Prevedibili sì, ma di sicuro impatto. La batteria pesante di Alex Mantiero (tra i membri fondatori), le chitarre corpose e aggressive ma non prive di gusto e tecnica in fase solistica e, soprattutto, la voce abrasiva di Federica “Sister” De Boni sono i marchi di fabbrica della band.

In particolare la voce tagliente, lo stile viscerale e un’articolazione “a denti stretti” della bravissima Federica fanno sì che i White Skull siano immediatamente riconoscibili a chi li ha sentiti almeno un paio di volte. Questa sorta di regina barbarica ha un approccio totalmente diverso sia rispetto alle cantanti dotate di un’impostazione pop/operistica sia rispetto alle vocalist più estreme che ricorrono a tecniche quali il growl e lo screaming. La voce di Federica è raschiante, sporca, grintosa e dannatamente Rock n’ Roll; ma sa essere capace anche di momenti di notevole pulizia, estensione e bellezza nei momenti più melodici.

Venendo al disco che è materia di questo articolo basta dire che, dopo aver dato alle stampe in tempi non sospetti un concept album basato sugli ormai abusati vichinghi, quel Tales from the North che forse è rimasto il loro lavoro più celebre, nel 2000 i White Skull pubblicarono Public Glory Secret Agony, un lavoro incentrato su due figure di spicco della storia: Giulio Cesare e Cleopatra.

Un ottimo album, diretto e a tratti suggestivo, con alcune fugaci incursioni di chitarre e tastiere nel mondo neoclassico tanto caro a mille gruppi da Malmsteen in poi.

Dopo l’intro strumentale Burn Rome Burn, la band attacca con High Treason, una bella tirata power dove ogni componente della band ha modo di esibire il proprio biglietto da visita. Il testo vede Giulio Cesare raccontare in prima persona il momento del suo assassinio per mano dei senatori congiurati, con tanto della celebre frase “Tu quoque Brute, fili mi”. Si respira tensione in attesa del delitto e dello spargimento di sangue. Degno di nota il fatto che il ritornello reciti “the roman king has perished”, dal momento che una delle ragioni principali alla base della congiura era il timore che Cesare assurgesse proprio a figura di re, sovvertendo di fatto la Repubblica. Si parte dalle Idi di Marzo quindi, cioè dalla fine, per poi proseguire in ordine sparso a dipingere vari affreschi dell’epoca, senza particolari pretese di ricostruzione storica.

Con The Roman Empire si balza indietro al momento in cui le legioni romane celebravano un grande condottiero capace di espandere i confini di quello che sarebbe diventato a tutti gli effetti l’impero di Roma; una sorta di flashback cinematografico, che mostra l’ascesa del potere militare di Cesare verso la conquista di terre fino ad allora addirittura quasi ignote, come la Britannia. In questa canzone i ritmi si fanno ancora più incalzanti, la voce di Federica De Boni graffia e vola alta accompagnata dai cori maschili dell’esercito, per uno degli inni più epici del gruppo, tutt’oggi presenza imprescindibile delle scalette nei concerti.

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Greedy Rome, ovvero, come suonare metal teutonico in Italia. Difficile infatti trovare qualcosa che sia maggiormente accostabile ai canoni stilistici quadrati e diretti del power germanico. Una discreta “botta”, come si suol dire. Il testo qui funge da raccordo tra le due canzoni precedenti, sottolineando l’incontenibile spinta di conquista della grande città di Roma e di come in seno a essa nascessero uomini come Cesare, destinati a diventarne in qualche modo gli spregiudicati campioni e capi. Ma, a coronamento di quanto narrato poco prima, nel ritornello viene cantato che le rivalità di potere all’interno dello stesso impero portavano Roma a “uccidere gli uomini di cui aveva maggior bisogno”.

I ritmi rallentano nella seguente In Caesar we trust, dove, dopo un’intro melodica, i passi delle legioni romane scandiscono l’incedere del pezzo al coro di “Hail Caesar”! E di nuovo i White Skull ripartono in pompa magna descrivendo l’arrivo delle truppe di Cesare in Egitto, presentando così l’altra anima dell’album e del concept. Il fascino esotico della terra delle piramidi aggiunge infatti spessore e atmosfera a un disco altrimenti fin troppo monolitico. Sul finale del brano strumenti e voce si addolciscono e colorano con note melodiose un paesaggio mistico; un tocco di magia a contrasto con la violenza brutale delle spade.

Neanche a dirlo, Valley of the Sun risponde con uno schiaffo diretto, buttandoci in faccia i misteri dell’antico Egitto attraverso un pezzo breve e tirato. Tra mummie, faraoni divini, maledizioni, dinastie e rituali mortuari vengono percorsi in poche strofe tutti i cliché possibili sulla terra del Nilo. In questo caso si tratta di un mero pretesto per un’altra breve cavalcata metal, meno incisiva rispetto a quanto sentito fin qui. Più o meno lo stesso discorso vale per Anubis the Jackal, il cui titolo dice già tutto. I White Skull ci presentano il dio del mondo dei morti, colui che traghetta nell’aldilà i trapassati. La canzone non offre particolari scossoni, ma si conclude con una simpatica nota di colore: la band si chiede se per caso Anubi non sia uno di quegli alieni di cui si parla tanto e che avrebbero aiutato gli egiziani a costruire le piramidi!

band

Proprio da qui prende le mosse The Mangler, un giro di giostra ad alta velocità e ad alto tasso di epicità che ci tuffa direttamente nel mondo di Stargate (nientemeno!), con tanto di razze aliene che vogliono soggiogare l’umanità e portali che si aprono solo combinando correttamente i sette simboli. Una deviazione dal concept del disco che, a questo punto pare chiaro, più che raccontare una storia fa semplicemente da sfondo a un immaginario estetico da Sword&Sorcery che ben si sposa con il tipo di musica sanguigna dei nostri.

E quale immaginario più suggestivo della figura di Cleopatra, la tragica e seducente regina d’Egitto? Compagna di Cesare, madre di uno dei suoi figli e resa famosa anche dalla sua drammatica fine. La grandezza del personaggio è alla base di uno dei brani più riusciti di Public Glory Secret Agony: maestoso, con una batteria martellante e un ritornello orecchiabile che non può fare a meno di stamparsi in testa di chi lo ascolta. Anche l’assolo di chitarra di BB Nick Savio è, come sempre, ficcante.

Con un inizio che ricorda un pezzo di Bonnie Tyler, The Field of Peace è il lento dell’album. Federica De Boni può toccare altre corde della sua espressività, con toni drammatici e voce pulita, mentre la band concede e si concede un parentesi di respiro che alleggerisce il clima da musica dura del disco. Purtroppo la canzone va in dissolvenza durante il bell’assolo di BB Nick Savio, quando forse avrebbe potuto indugiare ancora un po’ in questi lidi più tranquilli. Ma a quanto pare è il momento della conclusiva Time for Glory, un altro dei pezzi vincenti del lotto e forse il più epico in assoluto. Le tastiere alzano per l’ultima volta il sipario sull’affresco di questa epoca antica (rivisitata ovviamente in chiave piuttosto leggera) riunendo insieme le figure dei suoi due principali protagonisti: Cesare e Cleopatra. Anticipa inoltre quella che sarà la fine della regina d’Egitto, che lotterà fino alla fine contro l’erede di Cesare, vale a dire Ottaviano. I cori del ritornello sono semplici ma magniloquenti, e l’interpretazione della cantante è come sempre grintosa.

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Public Glory Secret Agony è un gran bell’album, solido, composto da canzoni valide, d’impatto e con un pizzico di atmosfera; una di quelle chicche nascoste della discografia italiana che ogni tanto vale la pena riscoprire, soprattutto perché non pompate da produzioni ipertrofiche o nomi altisonanti. E anche perché i White Skull sono un’ottima band che è possibile trovarsi proprio sotto casa, magari in situazioni particolarmente suggestive come quella del Metal Fortress dello scorso settembre. Nel bellissimo castello di Gradara, ove si consumò la tragedia di Paolo e Francesca resa immortale dai versi di Dante, i White Skull hanno infiammato il palco in compagnia di altri nomi noti quali Trick or Treat e Domine. A dimostrazione di come il binomio metal e rievocazione storica/medievale continui a funzionare meravigliosamente bene. Ascoltare The Roman Empire e altri classici del gruppo alla luce della luna, circondati dalle mura della rocca del 1200, insieme a qualche centinaio di ragazzotte e ragazzotti piuttosto alticci è un’esperienza che merita!

Per il resto, qualora voleste approfondire un pochino la famosa storia d’amore tra Cesare e Cleopatra, segnalo questo bell’articolo di letturefantastiche.com

https://www.letturefantastiche.com/cleopatra_e_giulio_cesare.html

Alla prossima!

 

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