I racconti di Satampra Zeiros – “I vermi della roccia” di Juri Villani

Anche stavolta, a rinverdire i fasti della nostra rubrica è la penna di Juri Villani, che torna a dar vita al suo personale “Ciclo dei Berserkir“, con un racconto intitolato…

I vermi della roccia

 

Il vento e il mare sferzavano il drakkar furiosamente, ma il legno sembrava felice di accogliere quella sfida, come lo era l’equipaggio. Giovani muscoli guizzavano per imbrogliare la forza dei marosi, facce barbute bestemmiavano, a volte arrabbiate, altre divertite. Era dunque questa la punizione degli Dei per coloro che osavano dirigersi verso l’Isola Proibita?

Un solo uomo, quasi un ragazzo, se ne stava immobile a prua ,con una pelle d’orso sulle spalle, mentre gli altri non avevano un attimo di requie. Sulle linee delicate del volto, quasi femminili, si stagliavano due occhi velati da tristezza e laceranti pensieri. I lunghi capelli lunghi erano agitati dalle correnti d’aria. Il suo nome era Buri, e coloro che lo seguivano erano la sua banda di combattenti senza legge, i suoi bersekir.

Si erano lasciati alle spalle tutto: le terre e il culto degli Asi, i padri, il focolare, l’onore tra i guerrieri, il rispetto della famiglia. Senza esitazione avevano seguito Buri nell’esilio a cui era stato condannato per tre anni. Il sangue del suo rivale da lui ucciso in duello era ancora fresco sull’erba quando avevano preso il mare.

“Dove andrete?”, avevano domandato gli anziani.

“Dove le vostre sciocche leggi non potranno raggiungerci.”, aveva egli ribattuto, con le membra ancora tremanti per la furia del berserker che andava placandosi, un pesante respiro dopo l’altro, e le mandi arrossate.

Raccolte in fretta poche scorte, si erano diretti senza indugi verso una rotta che da secoli, forse millenni, nessuno seguiva più; tra Nord e Levante, e il terribile monte Moruna, sempre avvolto dalle nebbie, come riferimento. Il mare era poi diventato quasi ghiacciato. Oltre, si diceva che il mondo finisse.

Ecco allora, al limitare di un deserto di gelo, che l’Isola apparve come la dimora di un mostro delle leggende. Impervia, rocciosa e spoglia. Andatevene, sembrava dire. Solo sciagure vi attendono qui.

“C’è aria di tempesta.”, gridò Buri, indicando l’orizzonte. “Guardate, miei fratelli.”

Dal Moruna, che dominava il cielo, si erano levate nubi nere come le tenebre, e fulmini ne suonavano la carica come corni da battaglia.

“Ce la ritroveremo addosso!”, mormorarono.

E a lui parve di udire una ciclopica ristata in lontananza, roboante come se provenisse dalle profondità della terra.

Buri. Mio berserker. Ti aspetto.

Ma si sforzò di convincersi che fossero solo i tuoni, ingigantiti dalla propria immaginazione di giovane uomo.

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Egli riacquistò coscienza lentamente, appena capace di aprire gli occhi e riuscendo a muoversi con estrema fatica. Sentiva i muscoli di tutto il corpo abbattuti, come se avessero lottato contro una forza immane.

Una carezza gelida lo toccò. Era riverso su una spiaggia, poggiato contro uno scoglio. Il sole tramontava, spandendo una luce metallica e abbagliante sul suolo, sul mare e sul cielo.

La furia degli Asi del mare non aveva lasciato scampo ai suoi; ciò che restava della nave e dei berserkir giaceva abbandonato sulla sabbia: un ammasso distrutto di pezzi di legno. Cadaveri. La maledizione era dunque vera…

Udì un rumore, poco distante, in mezzo a tutta quella immobilità di sogno. Un’imprecazione… un borbottio! E improvvisamente un rumore secco, come un’ascia che si abbatte. Era il suono del ferro che lacera la carne, troppe volte il berserker l’aveva sentito.

Muovendosi a fatica ─ la violenza del naufragio esigeva ancora un pesante tributo ─ si rintanò dietro a uno scoglio, e sporse la testa verso i sinistri suoni che aveva udito.

A pochi passi di distanza, sul bagnasciuga, vide una bizzarra e terribile figura. Sembrava un uomo, ma c’era qualcosa di strano nelle sue proporzioni. Era decisamente più basso e tozzo di un figlio degli Asi, e aveva muscoli possenti, talmente grandi da risultare sproporzionati. Vestiva dei pantaloni di cuoio lunghi fino al ginocchio e i piedi nudi gli affondavano nella sabbia. Il busto era coperto da un’abbagliante armatura in cotta di maglia, dalla fattura che appariva magnifica, quale Buri non aveva mai visto prima. E brandiva un oggetto dall’aspettp ancor più meraviglioso: un’ascia bipenne che sembrava fatta d’oro e di gioielli incastonati, grondante sangue. Il volto arcigno era scolpito da rughe di pietra, gli occhi erano piccoli e bui, quasi come una talpa. Portava una barba, grigia, lunghissima e intrecciata.

Un nome leggendario tornò alla mente del berserker, uno di quelli sentiti da bambino, alla penombra del focolare, nelle storie paurose delle norme. Esseri che appartenevano al mondo antico. Nani. Dvergr. Abitanti delle profondità della terra, più piccoli degli uomini ma altrettanto forti e più robusti; instancabili lavoratori della roccia e del metallo, generati per volere degli Asi dai vermi che proliferavano nel corpo quasi morto di Ymir, il gigante della Brina…

Un brivido terribile corse lungo la schiena di Buri. Vide il nano che con una mano nodosa rivoltava uno dei suoi compagni, riverso sulla spiaggia, più morto che vivo. Esaminò con cupa attenzione i monili, la lancia, l’ascia alla cintola… ma non parve trovare niente di interessante. Con una bestemmia la grande ascia ingioiellata calò, abbeverandosi di sangue.

Poi Buri ebbe l’impressione, per un istante, di incrociare lo sguardo del dvergr. Si ritirò istintivamente dietro la rocciosa copertura.

Il nano mosse pesanti passi nella sua direzione. Il cuore di Buri iniziò a tamburellare; Aveva perso tutte le armi, perfino il pugnale. Si guardò disperatamente intorno.

Per qualche attimo il mare e il vento parvero trattenere il fiato. Poi il nemico arrivò all’improvviso, brandendo l’ascia dorata e gridando minacce di morte nella sua lingua; quei suoni ricordarono a Buri l’eco della voce di uomini perduti in caverne sotterranee.

Il berserker riuscì solo a sollevare il braccio destro, coperto da un bracciale di ferro, per intercettare il colpo. Sapeva che non sarebbe stato sufficiente a fermare un colpo mortale…

Ma accadde qualcosa di prodigioso. La terra tremò per un istante e un fulmine si schiantò lì vicino, facendo esplodere sabbia e detriti fino al cielo. Investito dall’onda d’urto, l’uomo ebbe l’impressione di sentire, in sottofondo, una risata inumana, immensa, maschile e selvaggia. Pareva venire dalle vette delle montagne e al tempo stesso dalle profondità della terra. Ahahah! Vieni, figlio mio!

Il berserk non ebbe il tempo di riflettere su tutto ciò. Sentì una scarica elettrica irrorargli i muscoli come acqua fresca, e il vigor del guerriero bruciare magicamente dentro di sé. Si gettò sul nemico, vedendolo a malapena nella nube che si era alzata, e l’istinto non lo tradì. Lo sbilanciò con una spallata, lo tenne a terra gli istanti necessari a impugnare una grossa pietra e, con tutte le forze che aveva, restituì l’anima del nemico allo sconosciuto abisso da cui era venuta. La risata ultraterrena, che avrebbe potuto essere quella di un gigante, svanì.

Il vento e il mare tacquero, pacifici, come se l’improvviso rivolgimento di poco prima non fosse stato che un sogno; solo un piccolo cratere, dove era scivolato, trascinato dal mare, il cadavere del nano, ne testimoniava la realtà. Buri si trovò a impugnare, quasi senza volerlo, la formidabile arma, e la sentì come incollata alla mano da una forza magnetica. Non fu sicuro di poterla abbandonare, se avesse voluto.

Volse lo sguardo al mare, e la spaventosa tempesta che aveva distrutto il suo drakkar e trucidato i suoi berserkir sembrava prossima a devastare la terra. Si voltò dalla parte opposta, verso l’entroterra. Irta di rocce, sovrastata dalla crudele montagna detta Moruna che si stagliava davanti al cielo… l’Isola Proibita sembrava attenderlo.

Unico essere vivente, all’apparenza, nel proprio raggio di vista, il berserk aveva scrutato con circospezione il territorio attorno a sé. La poca luce rimasta era strana e accecante, nebbiosa, tanto che che non riusciva a focalizzare bene la vista. Da tempo la testa aveva cominciato a fargli male. Aveva continuato ad avanzare in quella distesa rocciosa, e il silenzio era rimasto totale. I pochi alberi, scuri, e qualche ciuffo d’erba nascosto qua e là, gli erano sembrati spiriti malevoli che lo deridevano.

Senz’altra scelta, Buri aveva continuato a proseguire, incespicando su rocce e piccole gole che parevano essere l’unica via percorribile. Si sentiva stranamente stanco. Il cuore gli batteva più forte di quanto avrebbe dovuto.

Poi, come se fossero state sempre lì, ma solo nascoste, delle piccole presenze si animarono attorno a lui. Erano facce barbute e grigie, che facevano capolino ─ occhi piccoli e neri ─ per poi tornare a nascondersi dietro un sasso, in una gola, o in un tronco cavo.

“Buri. berserker della stirpe degli Asi. Vattene! Quest’isola è proibita per la tua gente. Segreti antichi come il mondo si annidano qui e devono rimanere inviolati. Gettati in mare e liberaci dalla tua presenza. Via!”

“Zitti, stupidi esseri!”, e agitò l’ascia ingioiellata con movimenti lenti e goffi. I volti lo derisero, e lui, come se ormai fosse perso in un sogno, a testa bassa continuò ad avanzare. Il sole parve rimanere sull’orlo dello scomparire per un tempo indefinito. Buri aveva sete, sentiva la gola secca e gli pulsavano le tempie dal dolore. Le gambe, un passo dopo l’altro, gli erano diventate di piombo.

Di colpo, spazientito, si voltò in tutte le direzioni, bramando solo di poter scorgere un nemico in carne e ossa. I volti dei nani non avevano mai smesso di tormentarlo, facendo capolino qua e là, per poi sparire magicamente. Per Odino! Venite fuori maledetti, e affrontatemi da uomini. Farabutti!

Qualcosa iniziò a pungerli la pelle; insetti forse, anche se non li vedeva. Sentiva tuttavia il suono che emettevano, simile a una vigorosa soffiata.

Un paio di volte l’ascia quasi gli cadde dalle mani, la presa indebolita. Poi incespicò e cadde, sbattendo la testa sui sassi. Stringendo spasmodicamente il manico dell’arma riuscì solo a voltarsi a faccia in su.

Era pieno di diavoletti dalle facce barbute. Maledetti dvergr.

Non si mossero né dissero alcunché.

La tenebra dell’incoscienza calò pesante su Buri. Nell’ultimo barlume di lucidità avvertì la tempesta montare in lontananza. E poi, sotto terra, o dentro di sé, la risata del gigante. Era ormai prossimo alla follia?

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La coscienza riemerse grazie a un po’ di acqua fredda gettatagli in faccia e a un sonoro ceffone. Buri capì d’istinto che era trascorso un po’ di tempo, ore, e che si trovava sottoterra.

Prima di distinguere dalla semioscurità le molte figure che lo attorniavano avvertì chiaramente una voce, strana. Era crudele, antica, e usava termini in disuso; tuttavia la comprese fin troppo chiaramente.

“Spregevole intruso, come osi calpestare la nostra terra, che fu bandita alla tua stirpe millenni orsono?”

Si rese conto di essere in grande salone, scavato nella pietra. Un coro sommesso di borbottii si levò dalla folla che era assiepata attorno a lui. Occhi, piccoli e neri, carichi di disprezzo, lo osservarono. Troppo giovane per essere un signore degli uomini; pazzo per aver tentato di attraversare la loro terra. Quale esemplare condanna gli sarebbe toccata?

“Parla!”. La voce tuonò tra le pareti della sala come un terremoto sotterraneo.

Il berserk alzò lo sguardo, incrociandolo con colui che aveva parlato. Comprese subito di trovarsi di fronte a un re. La faccia barbuta che aveva era intrisa di solennità e tempo trascorso lentamente. Secolari silenzi parevano averne scavato i solchi. Quali abissi, quelle iridi del colore della tenebra, avevano sondato?

“Non era nostra intenzione recarvi offesa, maestà. Io e i miei uomini abbiamo lasciato la nostra casa, banditi come fuorilegge… “

“E siete venuti qua, nel nostro regno, a portare la vostra cattiva condotta.” Nell’impeto del parlare il sovrano si era alzato in piedi, e i suoi gesti erano accompagnati da un metallico quanto delicato rumore, come se sotto la tunica regale e polverosa indossasse una cotta di maglia dalla squisita fattura, e così leggera da non poterla intravedere. “Non è un’arma del mio popolo quella che brandisci? Non hai ucciso, per appropriartene?”

Uno scatto involontario ricordò a Buri di essere in catene. “Mi sono difeso! Il vostro suddito stava per uccidermi!”

“Ahahahahahahah!” la risate che venne dal re dei dvergr non aveva niente di umano; pareva lo sciabordio di un fiume sotterraneo, mai udito da orecchio umano. “Sì, sappiamo ormai come la vostra stirpe ─ maledetti siano gli Asi ─ sappia affabulare e mercanteggiare; oggi una mezza verità, domani una piccola bugia. Maledetti! Mentitori! Tiranni! Secoli fa abbiamo convissuto per generazioni e generazioni in pace. I vostri signori hanno vestito le nostre cotte di maglia, fatte con metalli ineguagliati e intessute con un’arte per voi inarrivabile; e molti e ricchi doni furono portati agli ingressi delle nostre caverne; tutto ciò che la vostra terra baciata dal Sole può offrire.

Ma il vostro cuore muta come la marea, e la vostra parola si dissolve come le nuvole che vi stanno sulla testa.

Non più cornucopie colme di messi e frutti, ma pugnali, vili come la mano che li brandiva. E allora il sangue scorse tra le nostre stirpi, come quando si sciolgono i ghiacciai e i fiumi a valle traboccano. Tante vittorie, tante sconfitte, inutili. E bada bene che io le ho viste! Con questi occhi.” Erano tetri come una scogliera vecchia di millenni.

“E ora, dopo secoli di faide mortali, con le quali ci avete spinto qui alla fine del mondo, in questa isola maledetta dov’è imprigionato… ”.

Sì interruppe, come a voler celare ciò che stesse dicendo. “Come dovrei accoglierti, io, Sindri, ultimo della mia stirpe? Tu che ti presenti con le mani lorde di sangue e ti appropri dei nostri averi?”

Buri ormai temeva di essere spacciato e parlò perciò senza paura.

“Non sono responsabile di ciò che mi accusate! Che colpa ne ho io, se i miei progenitori si sono macchiati di tali crimini prima che nascessi? Io, proprio io, che sono stato bandito per aver infranto le loro vecchie leggi della mia gente! Nemmeno lontano, su quest’isola, posso dirmi un uomo libero dal mio popolo, che ho volutamente abbandonato. Ma sono sicuro che niente succede per caso! Ci sarà una ragione se il destino mi ha condotto qui. Perciò avanti, lasciatemi morire con un’arma in pugno e facciamola finita ,che gli Dei non amano chi perde tempo.” Non appena ebbe finito di parlare fu colto come da una vertigine. Per un istante, con gli occhi della mente, vide il volto del gigante, barba e capelli selvaggi, occhi di lava.

Anche il re dei nani parve essere assorto in una meditazione. “C’è saggezza nelle tue parole, benché tu sia giovane.”, disse, guardando Buri con un velo di pietà sugli occhi. “Ma i nostri destini sono già stati scolpiti nella roccia viva della terra da artefici ineffabili. La vera saggezza, per chi è in grado di discernerla, è assecondare ciò che è già stato deciso.”, e per qualche interminabile secondo osservò ancora il giovane; gli occhi del dvergr sembrano due laghi sotterranei di caverna, nere superfici lontane dalla luce del sole e aliene dai sentimenti che fanno vibrare il cuore degli uomini. “Nel pozzo!”, gridò seccamente. “Vieni a vivere alla nostra maniera! Come nessuno dei tuoi padri ha mai osato.”

Prima che il berserk avesse tempo di fare alcunchè le guardie del re furono su di lui. Il manico di quercia di un’ascia gli si abbatté sulla nuca e il buio gli offuscò la vista.

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Un forte sferragliare riportò Buri alla coscienza. Aprì gli occhi e vide sopra di sé una grande catena che si perdeva nel buio. Guardatosi attorno, si rese conto di essere stato gettato in un enorme recipiente di metallo, talmente capiente da poterci stare dentro, e la cui superficie era incisa di rune maligne. Si sporse, e il movimento fece rollare il gigantesco secchio nel vuoto. Nient’altro, sotto, era distinguibile, se non oscurità e abisso.

Sopra di lui distinse alcune naniche e malevole facce, assiepate forse sull’orlo di un pozzo, e accomunate da una gioia crudele.

Chiuse gli occhi e si addormentò.

Fu ridestato da un suono un ticchettio, regolare e lontano. Ebbe la certezza di averlo udito per molto tempo, ma di aver aperto gli occhi solo allora, e di trovarsi, come un uomo d’istinto percepisce di essere a una certa altezza o in un certo momento del giorno, nelle profondità della terra. Nell’abbandonare, barcollando, la struttura di metallo che fin lì lo aveva trasportato, si rese conto di avere accanto a se l’ascia dorata, tempestata di gioielli, dei nani… chissà per quale motivo gli avevano concesso di tenere la loro arma. Mentre i giovani muscoli del berserk ne stringevano il manico con la forza delle radici di una quercia, le gemme multicolori di cui era cosparsa brillarono sinistramente. Si alzò, trovandosi in un antro avvolto dall’oscurità. Il rumore, distante, regolare, lo guidò.

Percepì la presenza di molte creature ancor prima di vederle. Sembrava, a giudicare dal riverbero dei suoni, che la caverna in cui egli si trovava si aprisse presto in uno spazio molto grande e animato da una frenetica attività.

Un passo dopo l’altro, istante dopo istante, una scena di meraviglia si formò davanti agli occhi del berserk. Picconavano la pietra ed erano numerosissimi. Dvergr nudi fino alla cintola, col petto e le braccia muscolosi e sudati. Cantavano, inoltre, con il ritmo del duro lavoro del minatore. Buri comprese chissà come le parole, certo che non fossero di un idioma a lui conosciuto.

Scaviam, scaviam,

Senza requie, senza requie,

Piccona, piccona,

Finché la forza reggerà il braccio,

Finché il fiato, come il grande mantice,

Soffierà nei polmoni.

E poi? E poi?

Che ne sarà di noi?

Miseri, resi in schiavitù, condannati

A mai più riveder la luce

del Sole.

Noi miseri, che abbiamo forgiato

Monili per gli Dei,

Corone per i Re,

Corazze per gli Eroi,

Siam qua a condividere

Il dolore di questa prigionia

Col maledetto gigante Ymir.

Noi poveri,

Noi sciagurati,

Noi, Vermi della Roccia.”

Mille e più nani si affaccendavano al lavoro in uno spazio enorme, di sogno, che appariva come una vastissima miniera scavata nelle viscere della montagna. I picconi si alzavano e calavano continuamente e i muscoli di chi li brandiva guizzavano, illuminati da molti fuochi. Le barbe e i capelli dei lavoratori erano lunghe, intrecciate e ornate con anelli d’oro e gioielli. Tutti a torso nudo, avevamo epe prominenti che suggerivano il piacere di indugiare al tavolo tra ossa ripulite e boccali svuotati. Nei loro occhi piccoli e neri, serrati per lo sforzo, pareva bruciare una volontà ferrea e incrollabile, come il metallo e la terra fusi assieme nel ventre della terra.

Il berserker si mosse come lento, meravigliato, non sicuro che ciò che vedeva fosse realtà. Dalle roccia viva, che lì costituiva terra e cielo, fuoriuscivano esalazioni nebbiose, che facevano sudare e obnubilano la vista. La cortina di fumo era parzialmente vinta dagli innumerevoli piccoli bagliori emessi dai gioielli, che spuntavano qua e là senza senso, ovunque, con riflessi danzanti di vita propria.

Non seppe mai perché ma continuò ad avanzare verso quello scenario, invece di voltare le spalle e scappare. Qualcosa lo stava chiamando, un brontolio profondo, al confine tra la percezione e l’immaginazione, come un terremoto che venisse da un dimensione immaginata. Rispondendo a questa oscura chiamata, Buri finì per fermarsi di fronte a uno strapiombo sotto al quale si svolgeva il lavoro dei nani. Allora strinse d’istinto l’ascia e vide e comprese molte cose.

In lontananza, come al termine di quell’abissale spazio sotterraneo, vide una figura colossale che non dimenticò per tutta la vita. Aveva tratti umani, le sembianze di un vecchio, anche se vigoroso nelle membra. Ma non poteva essere un mortale. Le sue dimensioni erano spaventosamente grandi. Più di una casa dalle grandi sale era alto. Più imponente della stirpe dei Giganti della Brina, di cui avrebbe potuto essere il padre. Incatenato alla roccia viva, era nudo. Aveva i capelli bianchi e scarmigliati, così come la barba, lunghissima. Era imprigionato alla roccia da possenti catene.

Sembrava addormentato, schiena poggiata alla parete e capo chino, eppure Buri ebbe l’impressione che celasse dentro di sé ancora una grande forza, un grande potere… e sicuramente una grande maledizione.

In quel preciso istante l’essere si destò improvvisamente, sbarrando gli occhi proprio in direzione del berserker: sembravano due pozzi aperti su una tempesta irrefrenabile.

Mio figlio, caro, sangue del mio sangue… ti aspettavo!” disse, e le parole rimbombarono nel sotterraneo e nella mente di Buri come tuoni nel cuore della notte.

“Vieni a me, aiutami, liberami dalla prigionia in cui questi dvergr mi hanno costretto, così che possa rivedere la mia casa e le vette delle montagne dove correvo con i fulmini e lottavo contro le tempeste. Figlio mio, spargi il sangue di questi vermi delle terra nella loro casa chiusa e fangosa e fuggiamo insieme dove l’aria è libera e il mare selvaggio. Aiuta tuo padre, Ymir! Vieni a me!”

Più che il significato delle parole fu la portata della rivelazione a liberare nel sangue di Buri un uragano di furore. Istantaneamente una scarica elettrica lo dominò da capo a piedi; strinse convulsamente l’ascia dorata con entrambe le mani, serrò i denti stringendo le mandibole fino a sbavare e ridusse gli occhi a due fessure ardenti.

Mai era giunto così in profondità nel cammino di furia e istinto del berserker. Ymir, padre della fuoco primordiale che si agita nel cuore dei guerrieri, lo aveva irrorato di tutto il suo potere e iniziò a muoverlo secondo la propria volontà, come una marionetta.

Il divino evento ruppe l’incantesimo che aleggiava sulla miniera… I nani smisero all’istante di lavorare e il concerto delle gole, dei martelli e dei picconi tacque. Centinaia di occhi, come se sapessero dove guardare, scrutarono all’unisono verso l’alto, da dove l’uomo era giunto. In quegli attimi di immobilità uno dei dvergr si fece spazio tra la folla, con arie regale, fissando il berserker.

Benché la distanza fosse molta, Buri fu sicuro di riconoscere in quel volto arcigno e pietroso, dagli occhi piccoli e neri come ossidiana,Sindri, il re dei nani.

“Vieni, giovane uomo, figlio di un’altra stirpe baciata dal sole, dai frutti della terra e dall’ingegno degli Asi. Battiti con me e riscatta la tua libertà. Qui, nel cuore della terra, dove il sole non giunge mai e i canti sono tristi e la voce gioiosa si perde in labirinti inesplorati.”

Quelle parole furono come un secchio d’acqua gettato in una fornace arroventata. Buri sentì qualcosa che provava a entrare nella sua mente ma che svanì. Ma non c’era più spazio per parlamentare. La dimensione del confronto si era spostata su un altro piano ed era il momento ─ finalmente ─ di combattere fino alla morte.

Serrando il manico dell’ascia tra i denti il berserker si gettò in una spericolata discesa che sarebbe parsa folle a un qualsiasi altro uomo. Ignorò un sentiero scavato nella pietra, più agevole, e facendo forza su appigli di fortuna, cadendo più volte e senza curarsi delle ferite, in poco tempo divorò la parete rocciosa che lo separava dai nani. In tutta risposta il popolo delle profondità si preparò ad accogliere l’intruso brandendo martelli e picconi.

Giunto a poca distanza dai nemici Buri ci si scagliò contro, mulinando l’arma dorata come una tempesta di fulmini. Non appena si rimise in piedi, con le mani imbrattate di sangue, non si curò dei nemici che lo fronteggiavano dappresso, ma cominciò una corsa disperata verso la mitica figura incatenata al lato opposto della caverna. Ymir, il padre dei giganti, rideva. E assieme alle sue risa un brontolio parve crescere da lontano, come nuvole che si preparavano a esplodere in un gigantesco temporale.

I dvergr serrarono i ranghi, con i canti degli antenati risuonanti nelle orecchie, ma non erano preparati ad affrontare un simile nemico. Le azioni del berserker non erano più guidate dall’intelletto umano, teso solitamente alla sopravvivenza. Forse, a ispirarlo, furono più i cuori pulsanti delle tempeste di Iperborea, o, al pari, il nucleo ribollente al centro della terra.

Inafferrabile, oltrepassò le file dei nani come la fiamma fende l’aria. Mai si soffermò in duelli singoli, o alcuno fu in grado di bloccarlo. Lasciò una scia di morti e mutilati dietro di sé. Solo un colpo istantaneamente mortale avrebbe potuto arrestarne la corsa.

Ma ciò non accadde. Accadde invece che egli giunse, ricoperto di sangue dalla testa ai piedi, di fronte al re dei nani. Per un istante i due si guardarono con un velo di amicizia e tristezza negli occhi; forse in un’altra vita avevano condiviso assieme avventure e banchetti. Ma non in questa.

Buri attaccò per primo facendo calare l’ascia come una saetta e il nano bloccò il colpo col suo martello, fatto di un metallo talmente brillante da sembrare argento. Buri ebbe l’impressione come di colpire una montagna e mai più in tutta la sua vita avvertì una tale forza in un nemico. Fu il turno del re di attaccare, con movimenti caricati di tutta la sua sovrumana potenza. Fu un miracolo, o forse il destino, che consentì a Buri di intercettare e deviare quei colpi violentissimi che ne avrebbero ridotto il cranio in poltiglia. D’improvviso la terra tremò e Sindri perse l’equilibrio, quel tanto che bastava per concedere un istante all’assalto di Buri. La testa del re volò via, tranciata di netto, e rotolò nell’oscurità fino a soffermarsi, eretta, ghignante, con gli occhi come due diamanti che avrebbero brillato nel buio per l’eternità.

Buri corse al cospetto di Ymir il Gigante, di fronte al quale non poté nascondere un istante di reverenza. L’ascia d’oro, tempestata di gemme dai colori di bifrost, si alzò e cadde. Bastò un unico colpo, e la catena che teneva prigioniera i polsi del gigante, intrisa di rune difensive, andò in frantumi con un fragore di tuono.

In quell’istante il berserker fu colpito da una stanchezza insostenibile e si accasciò in ginocchio a terra, capace solo di ansimare.

Ymir, terribile nell’aspetto, urlò gioioso, e l’aria attorno alla sua gigantesca figura fu come carica di elettricità. Alcuni dei nani fuggirono, impazziti. Altri, i più coraggiosi, giunsero ad afferrare Buri e lo trascinarono a terra, levando i coltelli per trapassargli il cuore.

La caverna allora esplose come se fosse stata sopra a un vulcano in eruzione. Le pareti collassarono, la terra sprofondò nell’abisso e i nani superstiti furono ingoiati in un buio impenetrabile.

“Così finisce la nostra stirpe, come una valle ombrosa che non riesce più a trattenere gli ultimi raggi di una sera d’autunno, quando il giorno si accorcia e le caverne si popolano.”, disse la testa di Sindri, il re dei nani.

Buri, appena cosciente, ebbe l’impressione di essere investito da una raffica di vento, e il calore delle profondità della terra lasciò presto il posto al morso frizzante dei venti all’aria aperta. Con un tuono e un fulmine si schiantò su una sconosciuta spiaggia, e allora rise, come la risacca in un mezzogiorno estivo. Si alzò in piedi, nudo, ferito, affamato, assetato, ma vivo.

All’orizzonte un drakkar solcava le onde.

“Ehi voi, figli di Odino!”

 

Juri Villani

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