The Eyes of the “Overnifft”

Negli anni in cui la Fantasy Classica contendeva il dominio del genere ad altre correnti, come la “scuola celtica” o altre motivate da impulsi innovativi e progressisti, Michael Shea lavorava in una maniera parzialmente indipendente con La Saga di Nifft, adoperando lezioni preziose nel cui specifico caso è doveroso a mio avviso menzionare soggetti come il troppo poco citato J.K. Bangs, Mark Twain e “di conseguenza” – in merito ovviamente a tale ragionamento – anche Lin Carter, il quale è probabilmente il primo a portare dei sentori “Bangsian” davvero concreti nell’Heroic Fantasy, ma anche quella dantesca non è certo da trascurare, e non meno un certo stile pittorescamente fiammingo si fa indubbiamente rintracciare. Ma un solo nome in questo contesto predomina su tutto in maniera quasi prepotente, ed è quello di Jack Vance, che non si limita ad ombreggiare la scrittura di Shea solo nell’ambito di Nifft, bensì entra pervasivamente in tutto l’operato dello scrittore californiano. Yana, ad esempio, non fa eccezione neanche lontanamente.

Già negli esordi Shea esprime piuttosto chiaramente quale, nella sua carriera, sarà la sua dinamica dominante. Il suo lavoro di debutto non si limita ad essere un “pastiche” vanceano, ma è riconosciuto come ufficiale nel Ciclo della Terra Morente, nonchè episodio ambientato dopo la saga di Cugel l’astuto. Osservandolo panoramicamente, a Quest for Simbilis, uscito nel 1974, è indubbiamente un buon romanzo e mette in luce una invidiabile disciplina da parte del suo autore, tanto da risultar facile riconoscerne in maniera davvero “isotopica” i tempi e le gerarchie metodologiche in termini di obiettivi e risultati prefissati da raggiungere. Appare infatti chiaro che Shea, nel delineare i suoi obiettivi, tra le altre cose, abbia puntato anzitutto sull’allegerimento della prosa speziata ed elaborata di Vance senza tuttavia mortificarla eccessivamente, assommando a questo fatto una preferenza per degli elementi e degli avvenimenti decisamente più cupi, sulfurei e malvagi. In secondo luogo occorre riconoscere il merito a Michael Shea di aver innestato la sua personalità in questo racconto canonico – e non apocrifo – della Terra Morente, principalmente nel predisegnare quasi come un antipasto quell’approccio catabasico che poi caratterizzerà la sua saga principale nell’ambientazione infernale di Nifft. Anche da un punto di vista della riproposizione della mentalità e del temperamento di Cugel l’Astuto, il narratore di Los Angeles raggiunge degli ottimi livelli che almeno alle prime sembrano davvero immortalati con una “fotoreattività” quasi da polaroid, senonchè mostrando un po’ di “tremarella” nel portare l’istantanea ad essere sequenza fotografica, poichè Cugel – occorre dirlo – rimane un pochino in ombra in termini di protagonismo centrale, e si fa rubare lievemente la scena dai gregari contentandosi di avere un bel ritratto a colori.

Visto che di colori si è parlato, effettivamente, non ci sono preoccupazioni “fotografiche” ne La Saga di Nifft e nel primo e gradevole romanzo della trilogia. La Leggenda di Nifft (1982) che invece porta un maggior livello di descrizioni brillanti ed estrose, unendo un approccio – e non solo in termini figurativi – pittoresco dalla suggestione quasi fiamminga, bruegeliana o alla “Hieronymus Bosh”, insieme a quell’inclinazione al picaresco che, ovviamente, risulta quanto mai facile ricondurre allo stesso Vance, ma in realtà si può ben immaginare come compaiano anche degli umori relativamente simili a quelli di Fritz Leiber che sembrano permeare i due protagonisti – Nifft e Haldar – nelle avventure dei “quattro inferni”. Per essere precisi, si vuole intendere un’attitudine al picaresco che in principio, con Lord Dunsany, aveva dei toni spietatamente sardonici in racconti simil mitologici o di Heroic Fantasy anticlimatica e non convenzionale, e che poi si conclamava a pieno titolo nelle avventure ambientate nella Shadow Valley con protagonista Don Rodriguez. Indubbiamente quest’ultima potrebbe anche essere una lettura per i completisti fanatici di Lord Dunsany. Essa presenta toni magico-fantastici decisamente inferiori al Dunsany più Heroic Fantasy e al Cabell di Don Manuel e si può trovare la sua evoluzione in Clark Ashton Smith, e non solo nel suo esercizio di stile dunsaniano di Satampra Zeiros. Smith esibiva il suo temperamento narrativo essenzialmente tramite la sua capacità poetica trasformata in descrizione utile ad accumulare tensione per il culmine finale, e in maniera minore con puntualizzazioni cronistiche in stile “Poevecraftiano”, ma con una resa decisamente diversa nei toni, mentre soprattutto Vance e in parte minore anche Shea operano in modo lievemente più macchinoso, attraverso una ricerca capillare terminologica, e probabilmente questa non rappresenta una evoluzione rispetto al simil picaresco di Smith, ma è comunque nel complesso coinvolgente, lo è ovviamente in Jack Vance ed è gradevole nel suo inguaribile discepolo Michael Shea. Ovviamente questo non deve fuorviarvi, l’ironia che usa Shea non è un qualcosa che mitiga pessimismo e oscurità, e i toni parodistici sono – come si diceva – quelli leiberiani e non decampiani. Non sono quest’ultimi finalizzati ad ammansire, migliorare, correggere, ridimensionare o deridere, bensì – si spera perdoniate questa forma apparentemente così cervellotica – è una “parodia della dimestichezza e della didascalia”, del tutto simile ad una prova di giocoleria. Leiber scherza sulla sua materia non per deriderla, ma per dimostrare che può maneggiarla con scioltezza, come un giocoliere maneggerebbe il suo vaso costoso preferito palleggiandolo da una mano all’altra senza romperlo. Il tutto serve a dimostrare una incredibile destrezza manuale con archetipi e stereotipi, e in questo Shea – nonostante il difetto di avventurieri troppo abbottonati – è inevitabilmente molto simile almeno nella formalità tradizionale, e il perchè non esclude certo che alla fine egli – come d’altronde lo stesso Leiber – abbia perseguito l’obiettivo di concretizzare un qualcosa che non a caso fu espresso da un soggetto a cui oggi sono fischiate le orecchie a lungo, in uno dei suoi romanzi che in italiano troviamo nella amatissima veste cosmo argento:

La parodia esiste solo perché fare affidamento sull’astrazione ti ha reso la realtà incomprensibile” (Jack Vance, Il Principe Grigio)

il principe grigio (vance)Sebbene queste metodologie vengano espresse così bene nella frase de “Il Principe Grigio” in questo tipo di ironia praticata da Shea e nel suo modo di scriverla c’è un qualcosa di “prestigiatorio” che fa indubbiamente pensare a Leiber e forse è un effetto dovuto all’allegerimento terminologico rispetto al linguaggio di Jack Vance. Il modo di lavorare stereotipato e ironico di Leiber è diverso dall’ironia swiftiana di De Camp. Entrambi hanno una loro dimensione didattica e formalizzata del topos, ma quella di De Camp è finalizzata ad isolarlo consapevolmente; quando irridendolo, quando infrangendolo o quando schivandolo del tutto per fini modernizzanti e restaurativi, rendendosi pertanto più scientifica e latentemente postulante, mentre in Leiber è una didattica basata puramente sulla capacità di maneggiare lo stereotipo, è un qualcosa di “manuale” che certamente non raggiunge l’artigianalità di Lord Dunsany e Smith, che possiedono quel tipo di artigianalità, si intende, che fa sentire il sapore di “capolavoro e autorialità senza sforzo”, ma rimane comunque – tanto per rimanere su questo tema che abbiamo “levigato” – una buona “maestranza”. D’altro canto, anche lo stesso Vance, pur utilizzando un linguaggio così virtuosisticamente geometrico  e bizantinamente tassellato e non solo con termini generalmente ricercati, ma anche con parole universalmente tecniche e didattiche, non lascia percepire quella maestria poetica e artigianale della lingua come in Lord Dunsany o in Clark Ashton Smith, ma “solo” – e fosse poco, intendiamoci – uno sforzo di ricerca terminologica dalla dimensione flaubertiana. Ed è anche per questo che trovare un inaspettato leiberismo oltre i termini previsiti o prevedibili in un “clone” di Vance – perdonando questa formula così ingenerosa, e in minima parte smentita ora – risulta un qualcosa di interessante.

yanaIl Vanceismo rimane altissimo anche in Yana, uscito nel 1985, l’ultimo in ordine cronologico di questa panoramica breve su Michael Shea, un romanzo dove avviene un meccanismo in fin dei conti del tutto naturale: dopo aver colpito al cuore e al sistema nervoso lo stile e la mentalità di Vance, occorre estremizzarlo, tirarlo al limite del proponibile, un po’ come Moorcock estremizza ciò  che di sè stesso era già estremo da Elric arrivando a Corum. Ciò è fatto per mezzo di un antieroe che effettivamente non è tale in senso puramente Fantasy del termine, essendo bensì un antieroismo – quello di Bramt Hex, si intende – in senso spurio e generalista del concetto. Bramt Hex non è “Picarantasy” come Don Rodriguez e Morano che amavano fare il verso a Don Chishiotte e Sancho Panza, non lo è come Alveric del Tesoro dei Farfurelli, e neanche come Don Manuel di Poictesme; Satampra Zeiros e Tirouv Ompallios o Farfhd e The Gray Mouser, ma è piuttosto un Benito Cereno, una diversa forma di Fantozzi o un Akakij Akakievič del Cappotto di Gogol, appesantito ulteriormente non solo dal suo essere vistosamente sovrappeso, ma anche da arroganza e superficialità. La sua è una personalità indubbiamente all’antitesi degli eroi o protagonisti che come lui sono “non fisici” o “non combattenti” ma per contro del tutto edificanti come Bilbo, Frodo o un Demetrio Pianelli di Emilio De Marchi se si volesse uscire dal Fantasy. Il personaggio del romanzo di Shea è protagonista di un viaggio contro-percevaliano, che lo vedrà attraversare luoghi magici fisici e metafisici, intrapreso in seguito all’aver rinnegato la vita da accademico per ragioni sentimentali nutriti per una donna dalla moralità infima e caratterizzati da tappe che sempre più lo rendono capace di gesta ciniche, incuranti e malefiche, che di volta in volta diventano un fardello sempre più gravoso, anche se molte compiute con parziale sprovvedutezza. Agli orrori, alle bestie magiche, vampiri, demoni, alla rappresentazione pessimistica, cosmicista e predatoria dell’universo, viene unito il vanceismo estremo e i richiami alla Saga di Nifft per un risultato che alla fine sorprende addirittura con uno spiraglio edificante e di parziale ottimismo redentivo. Il commento sorto spontaneo dopo questa lettura fu o più o meno questo:

“Te lo devo proprio dire Mike, questa non me l’aspettavo da te”

yana a touch of undyingComplessivamente Yana è una lettura interessante e un lavoro sensato e brillante. Le affinità con la Leggenda di Nifft si trovano disseminate tra i vari passaggi della storia, e sembrano quasi venir fuori da un momento all’altro, ma questo, nel voler emulare la terminologia di quelli bravi, è in realtà uno “Stand Alone”. Anche se questo fatto potrebbe lasciare l’amaro in bocca agli amanti dei ricorsi delle storie, e certamente si potrebbe capire il desiderio di legare Bramt Hex all’universo di Nifft, la mancanza di un riferimento definitivo e quindi il suo essere un romanzo assolutamente singolo non è poi così male, in fondo, una volta tanto, parlare a cuor leggero di un romanzo singolo e concluso – e siano benedetti oggi, dato che si avverte più che mai il bisogno, essendo tutto allungato all’inverosimile – senza la preoccupazione dell’irreperibilità di porzioni di saghe o riferimenti è anche “riposante” sotto certi aspetti.

Michael Shea ha proposto una letteratura in larga maggioranza puramente derivativa, il suo vanceismo irriducibile, volenteroso, onesto e in senso generale “eccessivo” per un autore alle prese con l’intrinseca missione di costruire la propria identità è un qualcosa di simile al riferimento burroughsiano per John Norman, che è stato per quest’ultimo uno strumento della rappresentazione per mezzo della narrativa di un postulato di natura erotica e filosofica, mentre in Shea è stato impiegato per scopi puramente letterari inerenti ad avventure oscure, parzialmente “bangsiane”, bilanciate tra parodia e normale ironia, ultradimensionali e catabasiche. Tuttavia, nonostante le pesanti implicazioni delle derivazioni che sostanziano il lavoro di Shea, si può concludere che non è mai mancato un metodo concreto, brillante, un bell’istinto descrittivo e qualche gradevole sussulto personale negli interstizi più ridotti, oltre ad aver scritto secondo molti il miglior “pastiche vanciano” di sempre.

Note

Nota Generale: A Quest of Simbilis è uscito in italiano per Fanucci con il titolo “Simbilis” mentre gli altri due romanzi oggi trattati sono stati pubblicati nella collana Urania Fantasy nei primissimi anni ’90

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