Intervista ad Alessandro Zurla

Alessandro Zurla è di casa qui su Hyperborea, e certo i lettori lo conoscono per i suoi articoli su musica e videogames. Ma il nostro Alessandro si dedica davvero a molto, molto altro, e l’altrettanto familiare Samuele Baricchi ha deciso di torchiarlo a riguardo come si deve…

Ciao Alessandro, grazie innanzi tutto del tuo tempo e della tua disponibilità per quest’intervista. Oggi parliamo di The Legend of Zelda, e di videogiochi e fantasy, è uscito il nuovo capitolo, seguito di Breath of the Wild: s’intitola Tears of the Kingdom ed è proprio tramite le lacrime del drago che nel gioco scopriamo le varie cutscenes, le scene a cui hai partecipato doppiando Raul, nella versione inglese Rauru, il Saggio della Luce. Come ti è sembrato il mondo di Zelda e quali collegamenti alla fantasy hai visto nella trama di cui hai fatto parte, anche in rapporto al personaggio dell’antagonista, Ganondorf.

A.Z.: Ciao Samuele, grazie a te per questa intervista che in realtà mi piace pensare sia più
una sorta di chiacchierata tra amici e appassionati dell’arte e del fantastico!
Dunque, premetto che pur essendo io un ex-videogiocatore e pur conoscendo bene la fama di Zelda non ho particolare familiarità con la saga in sé. Ricordo che ai tempi provai un po’ Ocarina of Time, per il Nintendo 64, ma per quanto riguarda la mitologia di questo mondo temo di non saperne tanto. Quello che ho colto dal lavoro che ho fatto in qualità di doppiatore mi è piaciuto molto, comunque, e vi ho ritrovato tematiche topiche non solo del genere ma della narrativa in senso assoluto. Prima fra tutte l’eterna lotta fra i due principi contrapposti di bene e male, quest’ultimo incarnato in maniera particolarmente efficace da un nemico che risorge e che non sembra mai possibile sgominare del tutto, ma solo rendere quiescente o sconfiggere per determinati periodi di tempo. Anche l’impianto di costruzione di un mondo vasto che invoglia all’esplorazione e alla scoperta di mille meraviglie è di sicuro un elemento di grande fascino e attrattiva.

Ti sei divertito a dare la voce a Raul, ti è piaciuto come personaggio? Alcuni, anzi molti, sostengono che il doppiaggio italiano sia nettamente superiore a quello inglese, il lavoro che avete svolto è stato apprezzato dai fan di Zelda! Parlaci un po’ dell’atmosfera in sala di doppiaggio e di come si svolge un doppiaggio per un medium come quello dei videogiochi, anche in riferimento ad altri titoli a cui hai lavorato ed eventualmente, se sai spiegarcelo, come mai il doppiaggio inglese risulta ai più “freddo” e poco espressivo; è una questione di differenze linguistiche, l’italiano riesce ad essere più espressivo per natura? O è semplicemente la nostra lingua madre e per quello ci risulta “migliore” rispetto a un altro doppiaggio in un altra lingua?

A.Z.: Comincio a rispondere dalla fine! La lingua italiana ha una sua musicalità straordinaria, diversa sia dal giapponese sia dall’inglese. Non a caso il concetto di adattamento, nel doppiaggio, significa andare oltre una mera traduzione (che in linea di principio non deve mai essere letterale, in nessun ambito), bensì trasferire concetti, atmosfere e stile in una nostra versione; una sorta di equilibrismo che consente, almeno in teoria, di non tradire l’originale nella sostanza e nemmeno nella forma. Affinché ciò avvenga è inevitabile, paradossalmente, apportare piccole modifiche alla forma stessa. L’Italia ha una tradizione eccezionale in questo senso, e il doppiaggio dei videogiochi non è che l’ultimo tassello di un mosaico molto più grande. Ha caratteristiche e modalità di lavoro molto differenti però, dovute soprattutto al fatto che spesso, mentre si procede alla localizzazione in lingua italiana, lo stesso videogioco è ancora in fase di sviluppo. Perciò non è infrequente ritrovarsi a lavorare su materiali non definitivi o in alcuni casi addirittura assenti! Molte cutscenes, ad esempio, capita di doverle doppiare su nero, cioè senza video di riferimento, basandosi unicamente sulla traccia audio. Inutile dire che questo rappresenta una difficoltà non da poco in quei casi in cui sarebbe auspicabile una maggiore aderenza alle espressioni facciali dei personaggi, ma in generale risulta penalizzante anche per capire meglio il contesto delle varie scene. Con Tears of the Kingdom le cose sono andate splendidamente bene. La Nintendo ci ha fornito tutto il supporto tecnico/logistico di cui potevamo aver bisogno, sia dal punto di vista dei materiali sia della consulenza in merito ai testi. Inoltre il direttore del doppiaggio è stato il collega Jacopo Calatroni, bravissimo sia da un punto di vista artistico sia empatico. Si è creato proprio un bel clima di lavoro e tutto è filato nel migliore dei modi. Le condizioni ottimali mi hanno permesso di immergermi completamente in Raul e di godermelo fino in fondo; ho trovato molte affinità con alcuni aspetti del suo carattere e ho potuto toccare alcune corde del mio mondo vocale/recitativo che non sempre riesco a esprimere. In genere sono piuttosto prezzemolino, per così dire; mi spiace spaziare sia con la voce sia con le caratterizzazioni da un estremo all’altro, interpretando ruoli alquanto diversi tra loro. In ambito videoludico ad esempio sono passato dallo psicopatico Stefano Valentini di The Evil Within 2 al marine ammazza zombi Tank Dempsey di Call of Duty, passando per bei tenebrosi come Uldren/Corvo di Destiny o Alan Wake (tutt’ora uno dei personaggi più popolari che io abbia doppiato). Raul ha una voce morbida e pacata, ma al contempo ha un piglio saggio e autorevole. Come lo stesso Jacopo mi ha detto, per aiutarmi a inquadrarlo, si tratta “non solo di un re buono, ma di un buon re. Il tipo di persona che vorresti come sovrano”. Ecco, direi che questa frase lo riassume al meglio!

Quali indicazioni tecniche ti sono state fornite in sala di doppiaggio riguardo alla voce di Raul? Qual è il tuo approccio quando devi doppiare un personaggio, e hai doppiato personaggi diversi tra loro, molto diversi, segui le indicazioni che ti vengono date, ci metti del tuo, in base al personaggio sai già più o meno che voce dovrebbe avere in italiano?

A.Z.: Sulla voce di Raul ti ho anticipato nella risposta precedente. Per quanto riguarda le indicazioni, una volta che mi sono sentito a mio agio con il direttore e il fonico (e non ci è voluto molto) mi sono sentito libero di interagire con loro e dialogare in modo da offrire al tempo stesso la mia versione del personaggio e rispondere alle loro aspettative. Come detto ritengo che una traduzione letterale, anche ragionando in termini attoriali, non sia mai un buon servizio. Ogni doppiatore deve metterci del suo in quello che fa, altrimenti saremmo tutti ugualmente sostituibili su qualsiasi cosa, come le voci sintetiche che stanno creando tanto scompiglio in tempi recenti. Io cerco sempre di mettere tutto me stesso in quello che faccio, in un’ottica un po’ da cantante sul palco; in un angolino della mia mente penso sempre che quello che sto doppiando potrebbe essere l’ultima cosa che avrò l’occasione di registrare, la mia ultima performance! Ovviamente questa è l’idea, che poi i risultati siano sempre apprezzabili questo è un altro discorso ahahah!

Sei appassionato di fantasy, cosa ne pensi di Zelda? C’è una spada leggendaria, un riferimento chiaro e palese a Excalibur, una principessa da salvare, e Link e il mondo di Hyrule ritornano ciclicamente a combattere contro il male, come una sorta di Campione Eterno di Michael Moorcock, che deve mediare tra Legge e Caos. Un videogioco può essere un’opera fantasy al pari di un romanzo? E quanto influisce il doppiaggio e l’interpretazione dei doppiatori?

A.Z.: Sicuramente i videogiochi possono essere opere altrettanto rispettabili e valide rispetto ad altre creazioni realizzate attraverso differenti media. Troppo spesso in passato c’è stato snobismo verso nuove forme di espressione: penso ad esempio ai fumetti. Oggigiorno credo che nessuno si sorprenda più di tanto se i videogiochi offrono trame o comparti creativi di altissimo livello, non dopo che firme illustri come Tom Clancy o George R.R. Martin hanno contribuito con le loro penne ad alcuni titoli. Alla fin fine, come detto, le tematiche della narrativa fantasy sono più o meno sempre quelle, la cosa interessante è vedere in che modo vengono declinate di volta in volta, e in questo senso i videogiochi offrono tante possibilità interessanti. Nello specifico in Zelda ho apprezzato moltissimo l’impianto grafico, basato su uno stile più vicino al cartone animato e non incentrato per l’ennesima volta sulla ricerca esasperata dell’iper-realismo. Come disse un programmatore tanti anni fa: “nel momento in cui i giochi riprodurranno alla perfezione la realtà avremo tutti i giochi uguali, con la stessa grafica”. Ed è una cosa verissima. Nel corso degli anni si è progressivamente persa la differenziazione stilistica da una casa di produzione all’altra. Ai miei tempi (parlo come mio nonno, lo so!) era possibile distinguere un gioco Namco da uno Capcom o Konami semplicemente dallo stile grafico, si trattava di un’impronta distintiva. Mi piace che Zelda abbia conservato questo approccio maggiormente autoriale, gli conferisce personalità e stile.
Il doppiaggio in genere dovrebbe avere il pregio di non far notare la propria presenza, essere in qualche misura invisibile. Nel migliore dei casi essere esaltante per l’efficacia di alcune interpretazioni. Ad esempio io mi sono esaltato, lo confesso, nei momenti di confronto tra Raul e Ganondorf; ma questo forse è legato al piacere di sapere che il cattivo è interpretato da un mio caro amico, Francesco Rizzi.

Parlaci del tuo romanzo sword & sorcery e del personaggio che hai creato, Lupo di Ferro

A.Z.: Le Cronache del Lupo è un romanzo breve nato come reazione alla fatica che avevo
sostenuto per portare a termine un altro libro (ben più lungo e difficoltoso, che si spera vedrà
la luce a breve). È nato quindi come pura valvola di sfogo e divertimento. Inizialmente
doveva essere un semplice racconto di poche pagine. Neanche a farlo apposta, la scintilla
iniziale è nata dall’aver rivisto su youtube dei video di un vecchio videogioco chiamato
Deathtrap Dungeon, di Ian Livingstone (l’autore di Lupo Solitario). Lupo di Ferro è stato ispirato dalle fattezze del protagonista di quel gioco: sono partito da una semplice scena orrorifica ambientata in una caverna e da lì ho poi cominciato senza neanche accorgermene a imbastire una storia più articolata, in cui ho fatto confluire alcuni temi che volevo affrontare e che, in una qualche misura, è risultata essere una specie di mio piccolo omaggio al genere Sword & Sorcery. A sua volta Le Cronache del Lupo è diventato parte di qualcosa di più grande, che troverà sviluppi in due ulteriori romanzi brevi, di cui uno già pronto.

Trovi collegamenti tra i libri game e i videogiochi open world contemporanei? In questo Zelda e anche nel precedente Breath of the Wild l’esperienza di gioco, per quanto non abbia particolari elementi GDR, cambia in base al “percorso” che fai, alle strade e ai posti che segui ed esplori, ai personaggi con cui parli.

A.Z.: Sicuramente ci sono molti punti in comune. L’esperienza dei giochi di ruolo o di esplorazione, che siano giochi da tavolo tipo Heroquest o le primissime avventure grafiche
costituite praticamente solo da messaggi di testo, ruota sempre attorno allo stesso concetto l’immersione in un mondo “altro” che puoi scoprire un pezzetto alla volta e in cui puoi
divertirti a provare un gran numero di combinazioni differenti. Esplorare varie strade,
incontrare personaggi differenti ogni volta o anche solo diventare sempre più bravi e
consapevoli in quello che si sta facendo sono tutti stimoli all’approfondimento del “prodotto”, sia esso videogioco o librogame.

Parlaci delle altre esperienze di doppiaggio che hai avuto, sempre nell’ambito dei videogiochi. Quali sono state quelle che ti sono servite anche per approcciarti magari a personaggi che non avresti mai pensato di doppiare e quindi ti hanno reso più versatile, in quali invece ti sei annoiato a morte, in quali ti sei immedesimato, quali sono stati i tuoi preferiti? Come ti rapporti al doppiaggio? Segui le indicazioni del direttore di doppiaggio o ci metti del tuo? Come un musicista che segue uno spartito, ma ogni tanto improvvisa qualche nota e qualche fraseggio? Qual è il rapporto tra la tua emotività personale e l’emotività di un personaggio che stai doppiando, ti sei mai immedesimato talmente tanto da non sapere più dove iniziasse Alessandro e dove finisse il personaggio a cui stavi prestando la voce, anche considerando che vieni dal mondo del teatro. Che ne pensi di Stanislavskij e del suo metodo, e se puoi spiegare cos’è a chi ci legge?

A.Z.: Nei videogiochi una delle esperienze più intense e appaganti è stata senz’altro quella di Owen in The Last of Us 2. Un bellissimo personaggio, sfaccettato e ben interpretato, protagonista di alcune scene davvero memorabili e intense. È stato un ruolo che mi è rimasto dentro e mi ha aiutato a crescere. E mi diverto sempre un mondo quando interpreto quello sbruffoncello di Kung Lao in Mortal Kombat! Circa il mio approccio al doppiaggio, di nuovo, credo di averti anticipato in una precedente risposta. Aggiungo solo che il rapporto con il direttore può essere una questione molto delicata, si tratta di fiducia e conoscenza reciproca, un po’ come tra attore e regista. Ci vuole del tempo per capire che quando le cose non funzionano non è sempre colpa tua, a volte si tratta semplicemente di incompatibilità, di sensibilità e analisi differenti. In genere cerco sempre di mettermi in discussione e di affidarmi a chi mi dirige, perché penso che sia il modo migliore per evitare di diventare un’eterna replica di me stesso in ogni circostanza. Poi è inevitabile che ci siano direttori/direttrici con cui mi sento in buone mani e altri che a volte fingo di ascoltare per poi fare comunque quello che voglio io, ahahah! A ogni buon conto l’improvvisazione non può mai avere molto spazio, trattandosi di ricalcare quanto già fatto da un altro attore, parlerei piuttosto di libertà nel dare delle “pennellate”, piccoli guizzi che col proseguire della tua maturazione diventano un tratto distintivo, una firma personale: il tuo tocco, insomma. A differenza del teatro, comunque, non c’è il tempo materiale per fare un lavoro significativo di approfondimento sul personaggio, quindi non si rischia di confondersi con il ruolo che si interpreta 🙂 Mi è capitato però in più di un’occasione di commuovermi a leggio, o di avere il viso in fiamme per la rabbia, o più spesso di uscire dalla sala sudato fradicio. L’accessibilità emotiva e la libera apertura dei propri sentimenti sono un requisito importante per dare verità a ciò che si dice; se non provi almeno in minima parte quello che prova il tuo personaggio sullo schermo sei solo una “testa vuota che parla”, stai emettendo suoni e basta. Certo, all’emotività bisogna abbinare il senso estetico e la resa tecnica, ma senza un coinvolgimento più viscerale alcune scene non è proprio possibile renderle credibili. Stanislavskij non credo abbia bisogno di presentazioni (e non sono certo il più qualificato per parlarne), ma il suo metodo è importante alla luce di quanto detto, perché lavorando sui suoi insegnamenti ci si allena ad analizzare la scena, le circostanze date, la posta in gioco, gli ostacoli, la relazione del proprio personaggio con le persone con cui interagisce ecc.; soprattutto si impara a conoscere se stessi e a scoprire quali sono i tasti giusti da premere per scatenare determinate reazioni emotive. Io ho avuto la fortuna di studiare con Michael Rodgers, un attore che viene proprio da quel tipo di scuola, vale a dire quella che di fatto ha plasmato la recitazione al cinema come la intendiamo oggi. E parlo di cinema perché ovviamente l’argomento è il doppiaggio, ma tutto parte sempre dal teatro; purtroppo io non calco il palcoscenico molto spesso, e questo mi procura un sacco di ansia quando mi capita di doverlo fare!

Arriveremo a un punto in cui i videogiochi non saranno più distinguibili dalla realtà, per via del fotorealismo che tecnologicamente si sviluppa sempre di più, e la realtà virtuale potrà essere accessibile a tutti, magari tramite non un visore, ma un semplice paio di occhiali non troppo ingombranti; a quel punto, il videogioco sarà ancora un medium catartico in grado di raccontare una storia o secondo te le persone inizieranno a staccarsi dalla realtà completamente per vivere in un mondo virtuale più bello rispetto alle loro esistenze? Quel legame che certi videogiochi come anche Zelda hanno con il mito e con la fiaba andrà perso? O sarà possibile “vivere” un mito, anziché leggerlo, o giocarlo? Questo però non snatura l’esperienza stessa di catarsi dell’arte audiovisiva, che deriva dal teatro, che avviene in momenti di calma, distinguendo quindi la realtà dell’osservatore, dalla realtà rappresentata in scena? Se le due realtà si fondono, secondo te, può essere una direzione da intraprendere o è la morte della recitazione?

A.Z: È una domanda a dir poco complessa! Quello che posso dirti è che non esiste solo la catarsi di Aristotele, cioè il vedere un conflitto risolto sul palco che poi ci fa uscire da teatro rigenerati e più saggi, ma ad esempio Brecht proponeva un’epica intesa come narrativa dentro e fuori, un’alternanza di momenti di coinvolgimento dello spettatore in ciò che accade (ma senza l’immedesimazione in un personaggio specifico) e momenti in cui l’autore faceva riflettere il pubblico su quanto succedeva in scena: una sorta di commento ragionato, uno stimolo a portare il conflitto rappresentato sul palco nel mondo reale per dare il via a una rivoluzione. In entrambi i casi comunque, catarsi e riflessione, c’è un prima e un dopo, una fase in cui assorbi l’opera e una in cui utilizzi in modo attivo ciò che hai assorbito. In effetti con l’attuale evoluzione dei videogiochi il rischio di uno straniamento totale dalla realtà che ci circonda penso che esista; ma non solo per i motivi della grafica fotorealistica e della realtà virtuale che citavi tu bensì, banalmente, per la mancanza di un dopo. Il quantitativo di ore che certe esperienze videoludiche richiedono per essere portate a termine è mostruoso, si parla di centinaia di ore in certi casi; io stesso ne ho passate parecchie in passato, tante che non saprei quantificarle. Fino a un certo punto si è trattato di esperienze che mi hanno consentito di stimolare il mio immaginario, di arricchirlo, strutturarlo e intrattenerlo. Ora invece, se penso alla miriade di cose che potrei fare nel frattempo, per mettere a frutto i miei studi e la mia creatività, mi viene l’ansia all’idea di isolarmi per giorni con un singolo videogioco ed essere interamente assorbito da qualcosa che poi non ho nemmeno il tempo di rielaborare perché di fatto si sostituisce al mio vissuto. Ma forse si tratta solo del vecchio adagio per cui ogni stagione ha i suoi frutti; ognuno ha il suo percorso, e le cose di cui abbiamo bisogno cambiano di volta in volta. L’importante è che ci siano delle fasi e che non veniamo intrappolati in qualcosa di infinito. La morte della recitazione o delle espressioni artistiche, invece, avverrà solo quando le macchine ci sostituiranno in ogni aspetto creativo (sia su scala industriale sia in ambito hobbystico), e soprattutto quando le esperienze di immersione nei mondi fantastici diventeranno solo una fruizione totalmente passiva da parte degli spettatori/giocatori. L’arte serve a emozionare, divertire, sognare, ispirarci a dare forma alle visioni che si agitano nei nostri cuori e menti, ma soprattutto a indagare la nostra stessa realtà, magari a migliorarla, a conferirle una narrazione e una direzione, a creare connessioni e parallelismi che permettano di comprendere meglio il comportamento umano; come ha detto una volta Michael Rodgers “l’arte serve a ricordarti che hai un’anima”. Ha una funzione sociale. Se dovesse sostituirsi in toto alla società stessa diventerebbe un’altra cosa. Non so quale.

Recentemente per Italian Sword & Sorcery hai svolto una lettura e un’interpretazione di una poesia di Karl Edward Wagner, ci sono altri autori di fantasy sword & sorcery di cui ti piacerebbe interpretare qualcosa?

A.Z.: Beh, ovviamente il mio sogno sarebbe interpretare Elric di Melniboné in un ipotetica serie realizzata con la tecnica del rotoscopio (sulla falsa riga del film d’animazione Fire & Ice)! Ahahah Ma ragionando in termini più fattibili trovo che alcuni racconti di Clark Ashton Smith possiedano una musicalità davvero straordinaria.

So che porti Dante in giro per le città italiane, con parti dell’Inferno; parlaci di questo progetto, se ti va, e in conclusione ti faccio la solita domanda di rito, quali sono gli autori fantasy sword & sorcery che più ti hanno influenzato e che sono stati fondamentali per te? E cosa ti ha spinto a diventare un doppiatore?

A.Z: Il progetto si chiama Dantemotivo, è una colonna sonora sinfonica originale alla recitazione dell’Inferno, composta da Michele Bacci, un mio amico musicista. Abbiamo pubblicato quattro cofanetti di CD con l’Inferno Dantesco integrale. Io interpreto quasi tutte le terzine e ho diretto le voci degli ospiti illustri che hanno accettato di partecipare quali, ad esempio, Flavio Oreglio, Gabriele Calindri e Christian Iansante. Il succo è restituire la dirompente forza vitale del testo, allontanandoci da un’impostazione accademica e declamatoria (anche se siamo stati seguiti da una dantista per evitare di dire o fare cose che fossero in contrasto con quanto creato dal Sommo Poeta). Ho cercato di dar corpo al Dante viaggiatore, perché in fondo si tratta della sconvolgente avventura di un uomo che, da vivo, percorre tutto il regno dei morti incontrando demoni, anime dannate, pene strazianti, nemici e amici. Un calderone ribollente di emozioni umane che non ha eguali al mondo! Lo stesso Dante scrisse la sua Commedia in volgare e non in latino perché ottenesse la maggior diffusione possibile. Noi tentiamo di fare la stessa cosa, proponendola in una veste che abbia un appeal cinematografico e coinvolgente. Dal vivo realizziamo uno spettacolo con luci e videoproiezioni, nel quale io recito degli estratti di alcuni canti sincronizzandomi con le basi musicali. È come cantare: gli attacchi e le chiusure di ogni terzina devono essere ben precisi. Vietato sbagliare! Se vi va cercate qualche video su YouTube. Di autori che mi hanno ispirato ce ne sono fin troppi (Howard, Lovecraft, Moorcock, Brooks; ma anche autori non fantasy come Bergonzoni, i Wu Ming o i grandi classici del passato). Quanto al motivo che ha fatto nascere in me il desiderio di diventare doppiatore è presto detto: I Cavalieri dello Zodiaco! L’afflato interpretativo di quelle voci, la dimensione mitologica, le musiche straordinarie del Maestro Seiji Yokohama hanno lasciato un’impronta indelebile nella mia anima. Non sarei quello che sono oggi senza di loro. Di nuovo, è l’arte che dà una direzione alla vita.
Grazie mille, Samuele, per questa lunga chiacchierata! Spero di non essere stato troppo prolisso, certi argomenti mi appassionano, e spero che anche altri possano aver trovato interessanti le nostre riflessioni. Alla prossima!



Rispondi

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: