Titolo: “La ballata del vecchio marinaio”
Autore: Samuel T. Coleridge
Editore: Bur Rizzoli
Collana: Classici Deluxe
Genere: Poesia
Pagine: 189
Prezzo: 14,00 €

“Questo è ciò che non dovete fare se un uccello ve la fa addosso!”
Con queste parole, nel mitico album dal vivo degli Iron Maiden Live After Death del 1985, Bruce Dickinson introdusse nel suo solito stile giullaresco una delle più belle composizioni metalliche di quella decade: The Rime of the Ancient Mariner, tratta dal suggestivo poema omonimo di Samuel Taylor Coleridge (1772-1834).
La storia raccontata dal poeta britannico è nota (e se così non fosse vi invito a saltare i prossimi due paragrafi per evitare spoiler). Un vecchio marinaio dall’aspetto cencioso ferma un convitato a un banchetto di nozze e lo costringe ad ascoltare la sua disavventura. Tutto inizia quando la sua nave, partita in viaggio da nord, una volta giunta all’equatore viene spinta da una tempesta fino alle lande ghiacciate vicine all’Antartide. Lì la ciurma riceve le visite di un albatro: un uccello che fa compagnia agli uomini per nove notti, mangia dalle loro mani e guida nuovamente la nave verso nord. Il marinaio, con un gesto che non ha alcuna giustificazione se non quella di motore poetico, uccide l’uccello di buon augurio attirandosi il biasimo dei compagni. Quando però nebbia e neve infine si dileguano gli altri marinai approvano il gesto del protagonista, rendendosi in questo modo complici del misfatto. A quel punto giunge una terribile bonaccia e la nave resta immobile per giorni e giorni (“… immoti come una dipinta nave in un mare dipinto”). La ciurma soffre la sete e l’arsura, mentre dagli abissi appaiono creature mostruose tra cui un Demone proveniente dalle terre del ghiaccio. Per punizione l’albatro viene appeso al collo del marinaio, in guisa di croce.

A un tratto appare all’orizzonte una nave spettrale con a bordo la Morte e la Vita in Morte. Le due entità giocano ai dadi e la Vita in Morte vince il marinaio. Tutti i membri dell’equipaggio cadono morti sul ponte, all’istante, e il marinaio si ritrova come in un incubo a condividere la nave con i cadaveri dei compagni che lo fissano con occhi accusatori. Dopo sette giorni infernali duranti i quali non è nemmeno riuscito a pregare, il protagonista vede danzare nell’acqua delle bellissime creature marine multicolore ed egli, inconsciamente, le benedice; così facendo rompe la maledizione. D’improvviso l’albatro gli cade dal collo e finisce tra i flutti, e si scatena una terribile tempesta. In una scena degna del miglior film horror i morti si rianimano e governano la nave insieme all’unico superstite. Essi non sono però creature dannate, bensì anime beate che innalzano un canto corale al Cielo. Il vascello viene risospinto dal demone marino fino all’Equatore, e da lì la nave schizza a velocità immane guidato dalle forze dell’oceano, tanto che il marinaio perde coscienza. Durante il suo sonno altri due demoni avvistano la nave e dialogano tra loro, riflettendo sul significato della sorte di quell’uomo e sui poteri che ora governano il suo fato. Al risveglio, alla luce della luna, il marinaio scopre di essere in vista della costa natia, e a quel punto gli spiriti angelici che avevano animato i corpi dei defunti si librano in volo, abbandonando i gusci vuoti dei marinai. Appare una barca con a bordo un eremita e altri due uomini. La nave, a conclusione della punizione, viene catturata da un gorgo e affonda in men che non si dica. Il protagonista viene salvato appena in tempo dagli occupanti della barca ma dopo questa esperienza non sarà più lo stesso: sarà infatti condannato a raccontare in eterno quello che è stato il suo viaggio attraverso il mondo della morte. Egli non è più un marinaio, bensì un poeta. Dovrà recitare la sua poesia e far gravare sulle spalle di chi la ascolterà il peso di quanto ha vissuto e la morale della storia:
“Meglio prega chi meglio ama le cose
siano grandi o modeste;
perché quel Dio d’amore che ci assiste
fece ogni cosa e l’ama.”

In questa bella edizione della BUR il poema è preceduto da un’interessantissima introduzione ad opera di Ginevra Bompiani ed è corredato dalle stupende illustrazioni di Gustave Doré. E oserei dire che entrambe le aggiunte sono importanti data l’esigua foliazione della poesia in sé.
Nella sua introduzione la Bompiani parte dalla disanima della collaborazione letteraria tra Coleridge e il poeta William Wordsworth: il loro progetto comune chiamato Lyrical Ballads. Un progetto in cui i temi sovrannaturali di Coleridge avrebbero dovuto convivere e alternarsi agli argomenti di ogni giorno di Wordsworth incontrandosi “a metà strada, cioè nella lingua comune delle passioni umane”. Le Lyrical Ballads ebbero vita breve a causa delle inconciliabili differenze tra i due autori in merito al concetto stesso di cosa dovesse essere il linguaggio della poesia: più comune e meno ancorato alla struttura metrica in Wordsworth, più ricercato, alto e imperniato sulla coesione del metro in Coleridge.
Nella premessa viene quindi affrontato il sottile tema della lingua naturale, intesa come un linguaggio puro, un metodo di comunicazione primigenio scevro da contaminazioni culturali, e di come l’uomo l’abbia abbandonata nel momento stesso in cui ha avuto accesso all’uso della parola. In Coleridge la lingua naturale è “presente solo come lutto e lamento”, in forma di memoria. Per paradosso, infatti, non è nella lingua semplice e impoverita dell’uomo comune che risiedono le tracce della perduta lingua degli angeli (come sosteneva Wordsworth), bensì in quella elaborata e colta utilizzata ne La ballata del vecchio marinaio, che per quanto ne sia agli antipodi ne risulta anche il più alto tributo. Una riflessione piuttosto complicata da afferrare a una prima analisi, e di certo qui eccessivamente riassunta, ma nondimeno stimolante e suggestiva.

Un commento a parte merita il capitolo dedicato alla visione poetica di Coleridge, alla sua missione letteraria e forse di vita: ricondurre il tutto alla grandezza, alla vastità, a un ordine superiore. Questa è, a mio avviso, la parte più emozionante e in qualche misura illuminante di tutta l’introduzione. Perché se è vero che Coleridge, nel suo lavoro, riferisce ovviamente ogni cosa a una morale cristiana di molteplice ricondotto all’unico e all’armonia (lo stesso concetto di unità che egli intendeva riportare nella coerenza metrica formale della sua poesia), è pur altrettanto vero che viene presentato con forza dirompente il concetto di fantasia intesa come veicolo per visualizzare l’altro, l’oltre, l’alto. In questo io ritengo venga distillato il succo non solo di questo poema ma di tutta la linfa vitale che dà origine alla creatività artistica umana (con buona pace delle sterili riproduzioni compilative delle IA).
A tal proposito è straordinariamente prezioso l’estratto di una lettera che Coleridge scrisse a Poole:
“Dalle prime letture di racconti di fate e genii eccetera, il mio spirito è stato abituato alla vastità, e non ho mai considerato i miei sensi in alcun modo come il criterio di quel che credo… Bisogna permettere ai bambini di leggere storie fantastiche, e raccontargli di giganti, maghi, e genii? So quanto si è detto contro questa tesi, ma io le sono favorevole. Non conosco nessun altro mezzo di dare alla mente amore per il grande e il tutto. Coloro che sono stati condotti alle stesse verità passo passo, attraverso la testimonianza costante dei loro sensi, sembrano mancare di un senso che io possiedo. Non contemplano altro che parti, e tutte le parti sono necessariamente piccole. E l’universo sembra loro solo una congerie di piccolezze…”
Davvero difficile aggiungere qualcosa a una simile testimonianza, che echeggia attraverso i secoli con tutta la sua forza ancora oggi.

La lunga premessa si conclude con un’analisi tematica delle sette parti che compongono La ballata del vecchio marinaio, compresi gli innumerevoli riferimenti simbolici in esse contenuti e l’arco evolutivo del protagonista che, da semplice marinaio viene costretto a mutare ruolo/funzione e a diventare poeta. Egli non è più partecipe della vita, ma diviene custode di segreti, verità e sofferenze che è obbligato a condividere e trasmettere agli altri, come fossero un pesante e ineludibile fardello. In una riflessione meta-testuale comprendiamo come diventare poeti significhi lottare continuamente in solitudine per estinguere brevemente, a costo di grandi fatiche, il fuoco della narrazione poetica.
Meravigliose, ma non ci sarebbe bisogno di dirlo, le incisioni di Gustave Doré; capaci come poche altre raffigurazioni di catturare le visioni ora angoscianti ora catartiche evocate dai versi di Coleridge. Inserite a intervalli regolari nelle varie parti che compongono il poema, accompagnano il lettore e ne esaltano l’immaginazione già catturata dalla narrazione del poeta. L’effetto è intenso e quantomai vivido.

Efficace anche la traduzione italiana, per quanto improbo possa essere un tale compito. Il traduttore Mario Luzi rinuncia comprensibilmente a rispettare in modo pedissequo gli schemi delle rime, cosa impossibile in alcuni passaggi, a favore di una musicalità che offre quantomeno assonanze con l’originale e ricalca da vicino lo spirito e il gusto dell’opera.
Il poema in sé è breve e merita di essere gustato più volte, anche a voce alta, e ancor più merita di essere approfondito grazie al materiale aggiuntivo proposto in questa edizione. D’altra parte, se a distanza di 225 anni La ballata del vecchio marinaio ha ispirato artisti in ogni campo, a partire dal più grande incisore/illustratore della storia fino alla band heavy metal per eccellenza, forse potreste farvi catturare anche voi dall’occhio ardente del marinaio e ascoltare la sua storia.
Alla prossima!
“Nel frattempo io confido che sia utile contemplare di tanto in tanto nell’anima, come in una pittura l’immagine di questo mondo migliore e più grande: perché la mente, assuefatta alle piccolezze della vita presente, non si restringa troppo e non si riduca tutta in piccoli pensieri.”
Samuel T. Coleridge
