E’ nel vortice della tempesta, laddove le nubi turbinano con potenza, che l’antico Oriente ha posto, nei millenni anteriori al gran spartiacque cristiano, la teofania dei suoi Baal. Così avveniva per le apparizioni del tenebroso Enlil che sgomentavano i Sumeri e, ancora secoli dopo, lo stesso accadeva per l’ onnipotente Adonai richiamato dalle suppliche di Giobbe. Non fa eccezione, in questo, il dio che presiedeva alle lande montuose che dall’antica regione della Commagene, ai confini con l’Armenia, degradano verso l’Anatolia.
Le immagini che ce lo mostrano – dalle prime steli consunte ai bassorilievi quasi barocchi del tempo dei Severi – lo fanno con quegli attributi che da sempre porta con sé: l’ascia bipenne, con cui agita i venti di bufera, e il fulmine, che dalla sua mano precipita a sconvolgere il suolo. La sua patria è la città di Doliche, le cui rovine sorgono nell’attuale Turchia , e il nome con cui lo chiamiamo è quello che gli era stato attribuito dai suoi adoratori romani: Iuppiter Dolichenus.
La storia del Giove di Doliche, risalente nei suoi presupposti almeno al II millennio a.C., si affianca a quelle di numerosi “patroni” delle antiche metropoli d’Asia, e numerosi sono i popoli che hanno tributato onori ai suoi altari, nel calderone di genti che era la regione vicino-orientale: Hittiti, Accadi, Hurriti e non solo.
In verità, nella veste in cui lo conosciamo, compostamente simile a quella del Giove Capitolino di cui ha accumulato i titoli sommi di Optimus e Maximus, il dio di Doliche è essenzialmente un costrutto romano, che per gli antichi non necessitava neanche della consueta e a volte laboriosa interpretatio per essere assimilato in pieno con la divinità custode dei destini dell’Impero.
Il suo culto inoltre, a differenza di molte altre “superstizioni orientali” come quella di Mithra o Cibele, non implicava rituali scandalosamente esotici né mysteria cui accedere solo tramite iniziazione; seppur cinto della tradizionale tiara dei re orientali o talvolta del cappello frigio, Giove Dolicheno può sembrare – in apparenza – la mera riproposizione del signore del pantheon greco-romano nelle vesti di tutore armato dell’antico confine con le satrapie persiano-sassanidi.
Cos’è che ha reso dunque popolare la sua devozione, facendone a cavallo fra II e III secolo un concorrente pericoloso per i culti di Serapide, Asclepio e persino della veneranda Magna Mater?
Probabilmente, le ragioni del successo del culto di Giove Dolicheno, giunto a Roma per opera di zelanti immigrati siriani al principio dell’età imperiale, sono da attribuirsi a fattori che lo rendono assieme diverso e affine alle molte divinità patrone delle variopinte poleis greco orientali.
Come accennato all’inizio, l’iconografia del dio affonda le sue radici nella rappresentazione di un più antico nume di origine Hittita, Teshub, che aveva la sua dimora proprio fra le cime cinte di nembi della Commagene; è tramite questa prima forma che il patrono di Doliche si afferma, quella di nume guerriero che regge l’ascia e il fulmine, simboli del suo dominio sui venti di tempesta, e questa sua veste non sarà mai più abbandonata.
Variamente assimilato alla vasta congerie di divinità che si passarono l’un l’altra il ruolo di re dei pantheon orientali, Giove Dolicheno mantenne per lungo tempo la sua identità solo in relazione all’antico santuario che ne celebrava i riti nella città anatolica, e il suo dominio era né più né meno quello di un qualunque “Baal di provincia”, tanto che il suo approdo in Occidente si confuse con quello contemporaneo di diversi altri numi parigrado: lo Iuppiter Damascenus più propriamente siriano e quello Heliopoletanus della monumentale Baalbek.
Fu a partire dall’età dei Flavi che l’ascesa del signore di Doliche cominciò a manifestarsi, in armonia col mutamento cui andava incontro il preponderante pantheon greco-romano, e già durante il regno di Antonino Pio, un tempio a lui dedicato – il dolocenum – prese a innalzarsi a Roma sul colle Aventino.
Se sulla cima del vicino Campidoglio Giove era ancora, affiancato da Giunone e Minerva, il dominatore della triade sacra tradizionale della religione romana, nel resto dell’impero la sua concezione cominciava ormai ad a trascendere il ruolo di semplice “re degli dèi”, per assumere un afflato cosmico sconosciuto alle mitologie classiche. Svuotati di reale significato religioso, i vetusti titoli del suo potere non bastavano più a magnificarne la potenza, e proprio sulla scorta degli attributi propri dei suoi emuli orientali, egli acquisiva adesso il nome nuovo di Ys”Altissimo”, e di summus exuperantissimus, quasi a volerne indicare una intrinseca superiorità rispetto a qualunque altro dio.
Ed ecco che così come il Baal dolicheno domina i cieli, così il Giove che porta il suo nome assume gradualmente le fattezze enoteistiche di un pantokrator, andando a soddisfare tanto la vivace speculazione mistica neoplatonica che la religiosità sentimentale di stampo orientale.
Mentre le specificità regionali cominciavano a relegare gli altri suoi omonimi nell’ambito delle superstitiones externae, (basti pensare allo Zeus della città di Zeugma, non lontano da Doliche, il cui tempio montano pure per secoli fu effigiato su numerose monete) per il dio venuto dalla Commagene la conferma del “innalzamento di grado” arriverà esplicita durante i giorni di gloria della dinastia dei Severi, le cui ascendenze fenicio-siriane faciliteranno con naturalezza l’acquisizione di un contesto religioso in cui quel Giove con la scure richiama e assomma sia gli dèi aviti d’Oriente che il necessario e irriducibile tradizionalismo romano su cui si regge l’istituzione imperiale.
Non è un caso, dunque, che proprio mentre attorno al trono cominciano ad assieparsi le figure di imperatrici (madri, spose, o tutrici dei legittimi sovrani) come Julia Domna e Julia Mamaea, anche accanto al signore di Doliche compaia una paredra divina, una Juno che lo affianca nella signoria cosmica superando perfino la gloria della coppia veneranda Iside-Serapide, che in un bassorilievo conservato ai Musei Capitolini saluta devotamente i reggitori dell’Universo.
Anche le legioni di stanza in Oriente, attirate dal prestigio e dal vigore di quel dio armato dal potere irresistibile, offriranno un contributo non da poco alla venerazione di Iuppiter Dolichenus, portandolo poi fino ai limiti estremi dell’impero, tanto che persino la gelida Carnuntum, in Pannonia, ebbe infine il suo dolocenum.
Purtroppo per i suoi adoratori, però, proprio le cause dell’ascesa del dio saranno, dopo almeno due secoli di portentosa fioritura, le radici della sua decadenza.
La semplicità e l’immediatezza del suo culto, pur rivestite di un’elaborazione teologica ellenistica, si riveleranno via via incapaci di accontentare l’ardente ricerca spirituale dei mistici tardo imperiali, attirati sempre di più dal monoteismo solare che proprio in Siria originava, e propagandato – dopo gli eccessi di Eliogabalo – da imperatori soldato come Aureliano. Nonostante alcuni elementi rituali come i conviti e le lustrazioni sacre, le liturgie del nume anatolico non potevano competere con i sontuosi e intriganti misteri dei suoi rivali. Soprattutto, la sua salvezza e le sue funzioni di protettore universale, per quanto grandiose, si limitavano all’aldiquà, e ciò proprio quando il desiderio di una vita oltremondana si faceva sempre più urgente per intere masse di ricercatori del sacro.
Così, le stesse legioni che avevano innalzato are votive al signore di Doliche, nell’arco di pochi decenni si convertiranno in gran parte al suo rivale solare Mithra, e al suo compagno Sole Invitto, meglio capaci di interpretare la necessità di una divinità protettrice dell’impero che fosse davvero universale, e capace di schiudere le porte di un’esistenza immortale. Non irrilevante, in un simile contesto, fu probabilmente la distruzione ingloriosa del santuario originario del dio avvenuta nel 270 ad opera del sovrano persiano Shapur II, evento che dovette recidere buona parte del prestigio di un nume che si presentava come marziale e invictus.
Il tramonto del Giove Dolicheno fu così tanto triste quanto repentino; nemmeno i polemisti cristiani più virulenti, noterà la Hörig, se la prenderanno con questo Baal decaduto, tanto la sua importanza era scemata già nel IV secolo. Il culto, tanto a livello dell’ecumene romana quanto locale, scomparve senza lasciare traccia all’alba dell’impero cristiano, quando proprio Doliche divenne sede di una delle diocesi del Patriarcato di Antiochia; costretto dal disprezzo degli uomini a ritirarsi fra le nubi da cui era nata la sua leggenda, il signore delle tempeste assurto per una breve stagione a re dell’Universo smise per sempre di far sentire la sua voce.
Approfondimenti
-R. Turcan, Les cultes orientaux dans le monde romain, Les Belles Lettres 1992
– E. Sanzi, Agli ordini di Iuppiter Dolichenus, in Arte e memoria culturale nella Seconda Sofistica, Edizioni del Prisma, 2007
– E. Sanzi, IVPPITER OPTIMVS MAXIMVS DOLICHENVS – Un “culto orientale” fra tradizione e innovazione, Lithos 2013
-F.Cumont, Le religioni orientali nel paganesimo romano, Ghibli, 2013