Dall’unicorno alla vacca sacra: un viaggio in India

L’India.

Perché proprio l’India? Perché dopo tanto girovagare in Europa, in lungo e in largo, sempre sulla direttrice delle antichità mediterranee, è arrivata l’ora di guardarsi intorno e scoprire il mondo che fa da complemento al nostro cosmo occidentale; la direzione non poteva che essere l’est, l’Oriente oltre l’antica Mesopotamia, i deserti arabici e le terre di Persia: l’Oriente del subcontinente indiano.

Sensazioni. L’India ha rispettato ogni promessa e ci ha immersi in una bolgia di colori, odori, suoni e sapori, regolandoci storie suggestive e scorci incantevoli. Ci è voluto del tempo – ormai lo zaino è disfatto da qualche settimana un mese – per digerire una tale quantità di informazioni e trovare i contesti storico-culturali appropriati. Ne viene fuori quest’articolo che è lo stralcio di un diario di viaggio, ma anche un’indagine sulle radici antiche dell’India e sul multiforme processo che, dal III millennio a.C. al VI secolo a.C., ha consegnato all’umanità una delle religioni più antiche della storia.

Dal punto di vista geografico, l’India è un territorio esteso quanto la metà dell’intera Europa con una varietà di ambienti: le pianure del nord, quella dell’Indo a occidente e quella del Gange a oriente, separate dal deserto del Thar e da una striscia di giungla; le catene montuose, le pendici himalayane del nord e il vasto altopiano dell’India meridionale; e una zona costiera lunga settemila chilometri lambita dalle propaggini dell’Oceano Indiano. Una tale ricchezza geografica si riflette in ambienti culturali altrettanto diversificati. In effetti, storicamente, l’India non è mai stato una terra unitaria; anche al giorno d’oggi, la nazione indiana si configura come una federazione di ventotto stati.

Secondo alcuni studiosi, le peculiarità del clima indiano, con il suo verde lussureggiante e il rapido sfiorire, con i cicli monsonici e gli effetti snervanti sulle condizioni di vita umana, è stato un fattore determinante nel costituire quel sistema di credenza e di stili di vita noti con il nome di Induismo [1].

Uno scatto di Jaisalmer: due donne in vesti tradizionali sullo sfondo della tipica pietra color giallo oro con cui è costruita la città antica

Una diapositiva dall’India

Quattordici giorni, nove diverse destinazioni suddivise fra due Stati, il Rajasthan e l’Uttar Pradesh. Il nostro viaggio racchiude alcuni fra gli itinerari più classici dell’India del Nord. Lasciamo la nostra Sicilia per fare scalo a Roma, quindi sette ore di volo fino all’aeroporto internazionale Indira Gandhi di Delhi; la città è blindata – il G20 è iniziato giusto il giorno prima – per cui non possiamo fermarci nella capitale e ripartiamo nuovamente in auto per la nostra prima destinazione. È notte fonda. Il nostro autista ha una Citroen bianca, è un tipo taciturno e ci aiuta a riporre nel bagagliaio i nostri zaini. La città sembra tirata a lustro: sentieri segnati da luci con i colori di bandiera, enormi manifesti con la faccia del Presidente che sorride, fiducioso per il futuro del paese; nella periferia di Delhi, però, il paesaggio urbano inizia a cambiare. Ecco le casupole piccole, striminzite, che sembrano accavallarsi una sull’altra come segmenti di un castello di carte da gioco. Uomini seduti nel cuore della notte, a piedi scalzi, sotto luci al neon e vecchie pubblicità un po’ sbiadite.

Sono spossato a causa del fuso orario e del fatto che non ho recuperato alcuna ora di sonno sul volo intercontinentale. La nostra prima meta dista ancora sei ore di auto. La distanza non aiuta affatto, gli occhi si chiudono e dormo, un sonno leggero popolato da visioni che mi arrivano dal finestrino appannato dalle gocce di pioggia. Abbiamo lasciato Delhi e le strade ormai sono polverose, in alcuni tratti quasi delle mulattiere interrotte da enormi cantieri edili. Nonostante le tarda ora, la notte brulica di attività anche lontano dalla città. Apprendo la mia prima lezione.

In India la vita non si ferma mai, nemmeno di notte.

Dentro di me, il sonno e l’adrenalina hanno combattuto per tutta la notte. Mi sveglia una frenata dell’auto. Sussulto. Cosa mi sono perso? È finalmente giorno, il paesaggio è un miscuglio di giallo, come la polvere delle strade del Rajasthan, e di verde vegetale. Il nostro autista ci invita a fare colazione in una bancarella sgangherata. In barba a tutte le precauzioni sanitarie lette nei blog di viaggio, beviamo un tè in una ciotola di terracotta. È così caldo che mi scotta le labbra, ma ha un gusto intenso che sa di spezie. Nei miei ricordi quel tè rimarrà il migliore che abbia bevuto in India. Servito alle sei del mattino, mentre dei cani randagi gironzolano attorno all’auto e dall’altra parte della strada alcune donne in abiti dai colori sgargianti ci guardano con curiosità.

Benvenuti in India!

Uno scatto a Bikaner: una donna spazza i rifiuti dal bordo della strada mentre una mucca sacra fruga alla ricerca di qualcosa da mangiare

Le antichità della Valle dell’Indo

In Rajasthan le città distano parecchio le une dalle altre: sono piccole isole di vita urbana in mezzo a una terra piatta, polverosa e punteggiata da arbusti striminziti. Prima che Mumbai inaugurasse le nuove rotte mercantili via mare, i traffici commerciali seguivano le antiche rotte che dalle sponde orientali del Mediterraneo attraversavano tutto l’Oriente fino alla Cina. Da qui, dal deserto del Thar, passavano le carovane ed era tutto una compravendita di prodotti, di tessuti artigianali e spezie che crescono in natura; è una storia millenaria di cui sopravvive ancora oggi il ricordo. I commercianti offrono tè di benvenuto e fanno adagiare gli ospiti – per lo più stranieri, europei o americani – in comodi divani prima di iniziare a decantare le qualità dei loro tessuti. Non ci sono prezzi esposti e tutto passa da una contrattazione che, normalmente, si chiude in favore del venditore. Non è raro vedere, nel cuore delle città, qualcuno che tira per le briglie un dromedario; a Pushkar, la città sacra del dio Brahma, esiste ancora una fiera annuale dedicata ai dromedari che attira l’attenzione di tutto il Rajasthan. Da queste parti la vocazione al commercio non si è mai spenta.

Uno scatto nelle dune del deserto del Thar: io che stringo strani accordi con un cammelliere; da lì a poco, avrei provato l’ebbrezza di cavalcare un dromedario!

L’itinerario nel deserto del Thar si spinge fino a Jaisalmer, la città dorata, a un centinaio di chilometri dal confine fra l’India e il Pakistan. Il passaggio di convogli militari, e la presenza ben in vista di monumenti propagandistici, ci informa che siamo in prossimità di una frontiera militarizzata. Le tensioni per il controllo del Kashmir, regione a maggioranza musulmana ma annessa all’India per volere del Maharaja Hari Singh che la governava, rappresentano un motivo di controversia sin dal 1947 [2]. Eppure proprio questo il territorio, che si estende dal Rajasthan fino al fiume Indo, presenta uno spiccato interesse storico [3].

Era il 1842 quando Charles Masson, soldato della Compagnia delle Indie Orientali, esploratore e archeologo indipendente, pubblicava un diario di viaggio che citava per la prima volta la presenza di rovine che si estendevano per circa 25 miglia, senza tuttavia riuscire a catturare l’attenzione degli archeologi dell’epoca. Dovettero passare ulteriori sedici anni prima che Alexander Cunningham, allora ingegnere militare dell’esercito anglo-indiano, e pochi anni più tardi Direttore dell’Archeological Survey of India (ASI) si recasse a visitare tali rovine senza, tuttavia, apprezzarne la reale antichità [4]; anzi, erroneamente, attribuì i sigilli rinvenuti nel sito di Harappa alla scrittura Brahmi, successiva di alcune migliaia di anni. Il rinvenimento di nuovi sigilli nella valle dell’Indo risultò in un rinnovato interesse che si esplicò nelle campagne di scavi condotte fra il 1920 – 1922 nei siti di Harappa e Mohenjo Daro. Nel 1924, il Direttore Generale dell’ASI Sir John Marshall diede alle stampe una notizia che aveva dell’incredibile: era stata scoperta una nuova civiltà nel sud est asiatico, una civiltà del tutto sconosciuta, che contava un migliaio di siti.

Era la civiltà della Valle dell’Indo.

Rovine di Mohenjo Daro nell’odierno Pakistan

La Terra dell’Unicorno

Rakhigarhi è una città a 160 km a nord ovest di Delhi; con i suoi quattordicimila abitanti, in un paese la cui capitale conta quasi trenta milioni di abitanti, pari a metà della popolazione italiana, Rakhigarhi è soltanto un piccolo villaggio [5]. Un villaggio al centro di un dibattito controverso in quanto sorge su un’area archeologica dall’estensione stimata di circa 350 ettari, di cui soltanto il 5% è stato oggetto di scavi sistematici da parte dell’ASI. La pressione della comunità locale, in rapida crescita, rappresenta un ostacolo concreto alle campagne di scavo; come se non bastasse, inoltre, lo sfruttamento del suolo per le attività antropiche e la vendita di manufatti nel mercato rende Rakhigarhi un sito fortemente a rischio [6]. Nonostante questo triste primato, e le evidenti limitazioni della ricerca accademica, Rakhigarhi ha regalato dei ritrovamenti inestimabili.

Come la sepoltura che ho davanti agli occhi.

Uno scheletro intero, perfettamente conservato, con tanto di corredo funebre e braccialetti di conchiglia sulla mano sinistra, segno che questa donna doveva essere sposata. È uno dei tesori della galleria dedicata alla Civiltà della Valle dell’Indo del Museo Nazionale di Delhi. Il nostro tour dell’India del Nord è ormai prossimo al suo capolinea. Lo zaino si trova sottochiave nel deposito del museo – incredibilmente, ho dovuto attraversare un metal detector e persino una perquisizione; l’altro zaino, quello con i vestiti, i souvenir e qualche scorta di cibo è nel bagagliaio dell’auto parcheggiata poco fuori del museo. L’autista ci aspetterà per tutto il tempo necessario. Il Museo di Delhi è grande, ricco, ma ha un aspetto polveroso, come se fosse rimasto fermo ai primi anni novanta. Mi godo la visita.

Attorno a me, le vestigia della più prima cultura urbana del sud asiatico.

Uno scatto al Museo Nazione di Delhi: la Galleria della Civiltà dell’Indo è la più grande collezione archeologica dedicata al tema nel mondo

Per ripercorrere le tappe della civiltà di Harappa, dal nome della prima città rinvenuta, dobbiamo andare veramente indietro nel tempo, fino al 3.300 a.C., in quel periodo che gli storici chiamano fase harappana antica. Lungo il corso dei fiumi Indo e Ghaggar-Hakara, probabilmente identificabile con il corso del Sarawswati indicato nella tradizione vedica, sorgono diversi villaggi; sono piccoli agglomerati di un’umanità emersa dal neolitico da oltre duemila anni. Le risorse dislocate nel territorio sviluppano un’industria manifatturiera che ha un carattere per lo più regionale. A partire dal 2.800 a.C., tuttavia, gli scambi commerciali da un villaggio all’altro contribuiscono a uniformare la cultura secondo precisi riferimenti materiali. Da un punto all’altro, lungo il corso dei due fiumi, troviamo la stessa unità di peso, la medesima forma di scrittura, vasi di forma analoga e, soprattutto, vaste città costruite con mattoni cotti e circondati da imponenti mura.

La fase più matura della Civiltà della Valle dell’Indo dura appena qualche centinaio di anni, dal 2.600 al 1.900 a.C. Città come Harappa o Mohenjo Daro non hanno nulla da invidiare alle coeve civiltà egizia – in quegli anni il grande architetto Imhotep innalzava al faraone Djoser la prima piramide a gradoni –  e mesopotamica; anzi, per certi versi, il grado di sviluppo della Civiltà dell’Indo sembra precorrere i tempi: colpisce la spiccata progettazione urbanistica, con un sistema di fogne completo e case a due piani disposte in maniera regolare lungo le vie che intersecano la città, quest’ultima suddivisa in una parte alta, in cui risiedono le cresta in cui sono ubicati gli edifici per la gestione della collettività, e una parte bassa.

Siti della Civiltà dell’Indo riferibili al periodo harappano maturo (2600 – 1900 a.C.)

A dispetto di una tale ricchezza, quella di Harappa è una civiltà che rimane ancora oggi avvolta nel mistero. La quantità di sigilli rinvenuti, verosimilmente impiegati per tracciare transazioni commerciali, riportano pittogrammi che nella loro completezza ammontano a quattrocento segni differenti, una lingua che non siamo stati ancora in gradi di decifrare. Le impressioni sui sigilli spesso accompagnano figure di animali: tori, antilopi, bufali, elefanti, tigri; oltre la metà dei sigilli, tuttavia, rappresenta lo stesso animale di fronte a qualcosa di simile a un braciere, o un incensiere; sembrerebbe il profilo di una mucca, non fosse che per i modelli di terracotta a tuttotondo che confermano la presenza di un solo corno sulla fronte dell’animale. Più che una mucca, si tratterebbe allora di un unicorno. Ipotesi suggestiva, che rimanda a un universo mitico che siamo appena in grado di penetrare.

Uno dei tanti sigilli rappresentanti l’unicorno

Che dire delle figure femminili in terracotta interpretate come divinità delle fertilità? La cosiddetta Dea Madre indossa gioielli, sfoggia acconciature elaborate e attributi femminili ben in evidenza. Alcune interpretazioni rimandano tale culto a quello successivo della religione induista legata alla dea Parvati, moglie del dio Shiva; e lo stesso dio Shiva, alle volte identificato con il titolo di Pashupati il “Signore degli Animali”, sarebbe rappresentato in un sigillo di steatite rinvenuto a Mohenjo Daro: nel piccolo timbro raffigura un uomo munito di copricapo cornuto, circondato da animali, mentre siede a gambe incrociate, in una posa non dissimile dalle moderne pratiche di yoga. Tali interpretazioni ammettono alcuni elementi che, seppur embrionali e contaminati dal contatto con l’area euroasiatica, confluiranno nella più tarda cultura induista

Sigilli della Valle dell’Indo: al centro, secondo alcune interpretazioni, lo pseudo-Shiva

A partire dal 2.000 a.C., e per i tre secoli successivi, si assiste a un’inversione di quel progresso che aveva caratterizzato la civiltà dell’Indo: le città si spopolano in favore di contesti più rurali e regrediti. Cosa è accaduto alla civiltà di Harappa? Negli anni la questione della fine della Civiltà dell’Indo è stata esaminata da svariati punti di vista, nessuno dei quali ha mai fornito una spiegazione esauriente per spiegare la scomparsa di un’intera civiltà. Quasi certamente, alcuni fattori ambientali hanno indebolito fino a rendere impraticabili quelle stesse città millenarie: secondo alcune teorie, l’intenso sfruttamento delle risorse boschive della regione ha causato la deforestazione con consequenziali alterazioni delle precipitazioni; un’altra ipotesi, invece, suppone l’inaridimento delle fonti idriche dovuto a mutamenti idrogeologici che hanno cambiato il corso del fiume Saraswati; da non trascurare, infine, il collasso delle economie internazionali verso il medio oriente che per secoli era stato il primo motore della regione [7].

Quale che sia stata la causa (o più probabilmente la concomitanza di cause) il tramonto della Civiltà di Harappa segna una battuta di arresto nella storia antica dell’India, paragonabile a quello che rappresentò nell’area mediterranea la caduta dei regni micenei e delle monarchie vicino orientali. Come già accennato, qualcosa della cultura della Valle dell’Indo perdurò nei secoli a seguire, mischiandosi a nuovi influssi per sbocciare in quel complesso prodotto sociale e culturale quale è l’Induismo.

La Dea Madre, una scultura della Civiltà dell’Indo

Il lago nato dal loto

Si dice essere una delle città più antiche dell’India, una città che oggi conta poco meno di 14.000 abitanti, il cui centro può essere racchiuso in una lunga passeggiata attorno a un lago. Di turisti, a Pushkar, durante la nostra permanenza, non se ne vede nemmeno l’ombra. Attorno a noi un dedalo di viuzze con negozi che grondano di vestiti e bigiotteria. L’odore è una strana commistione di incensi, cibo e polvere. A dispetto della sua apparenza assolutamente insignificante, Pushkar è una delle città sacre dell’India. Se solo riusciste a fermarvi e a guardarvi semplicemente intorno – i venditori in India possono davvero stremarvi – vi accorgereste che Pushkar è permeata da un’atmosfera piena di spiritualità, ben diversa dal resto del Rajasthan.

Uno scatto di Pushkar

In India ogni cosa sembra avere una storia, un rito a cui rifarsi, una regola da rispettare.

Secondo la tradizione induista, il lago della città è nato dalla caduta di tre petali del fioro di loto con cui il dio Brahma uccise il demone Vajra Nabh. La sacralità delle acque del lago si intuisce dalla presenza di ben cinquantadue ghats, ovvero scalinate che permettono ai fedeli induisti di immergersi in acque per le abluzioni rituali. Oltre al suo lago, che si crede in grado di curare le malattie della pelle, Pushkar è una città nota per ospitare uno dei pochissimi templi dedicati al dio Brahma in tutta l’India; fatto curioso, quest’ultimo, se si considera il posto di rilievo riservato al dio in quanto creatore del mondo. Brahma, inoltre, appartiene alla Trimurti insieme agli dei Vishnu e Shiva, rispettivamente colui che conserva il mondo e colui che lo distrugge e lo rigenera. Quali sono i motivi dietro tale paradosso? Perché esistono così pochi templi di Brahma in India? La letteratura mitica indiana contenuta nei purana, elaborata nei primi secoli della nostra era ma discendente dalla stratificazione di tradizioni orali ben più antiche, riservate all’educazione delle fasce più basse della società, ci racconta l’episodio di una contesa fra Brahma e Vishnu su chi fosse il dio più potente: apparve allora il dio Shiva nella forma di una colonna di luce che, per sancire il vincitore, chiese a entrambe le divinità di trovare l’estremità del pilastro divino. Brahama e Vishnu intrapresero la ricerca in direzioni opposte e, mentre Vishnu si arrese e ammise l’infinità del pilastro di luce, Brahma mentì dichiarando di aver trovato una delle due estremità. Indignato, il dio Shiva decise di punire la scorrettezza di Brahma e gli inflisse una maledizione così che il dio non avesse alcun seguace [8-9].

L’incontro con il dio Brahma è anche l’inizio di un viaggio nella spiritualità indiana.

Ci siamo lasciati alle spalle il bazar di Pushkar – per un tratto un vitello sacro ci è venuto dietro, suscitando l’ilarità degli indiani; quanto siamo apparsi buffi, contenti come bambini, mentre ci facevano un selfie con l’animale? – e ci siamo addentrati in un tratto di città che si allontana dal lago; per le strade risuona l’eco di una campana. Seguiamo la folla. Come ogni volta che si calpesta un suolo sacro, ci siamo tolti le scarpe e le abbiamo affidate alla guardiania di un uomo seduto davanti un emporio. Saliamo l’ampia gradinata del tempio avvertendo sotto i piedi nudi la pietra, liscia e fredda, e i residui delle offerte di riso e fiori. La folla dei fedeli tutt’intorno cresce di minuto in minuto. Non vedo l’area sacra con l’effige del dio, né la zona circostante riservata ai bramini. Vedo solo gente, a dozzine, che si accalca portando altri fiori, offerte in denaro e cibo. C’è un’atmosfera suggestiva fatta di gong che suonano, di litanie, di tamburi nascosti alla vista che ti fanno percepire ogni tonfo come una vibrazione del corpo. Ci mettiamo anche noi in fila, in mano un fiore raccolto da terra, vogliamo partecipare e dare la nostra offerta a Brahma. La fila scorre a singhiozzi, con tutti che cercano di passarti davanti, trascinati dal fervore religioso. Al termine vedo il bramino che offre a Brahma una fiamma di canfora, che brucia senza lasciare residui. Lo fa eseguendo movimenti circolari che santificano l’offerta affinché, al termine della cerimonia, ogni fedele possa passare la mano sopra la fiamma e segnarsi il capo partecipando alla benedizione del dio.

Murti del dio Brahma, tempio di Pushkar

Quello appena descritto prende il nome di aarti, ovvero il rituale di adorazione di una divinità per mezzo della luce.

La spiritualità indiana è piena di simbolismi, significati – a volte anche contraddizioni – e pratiche più svariate. Nel corso del nostro viaggio, solo per citare qualche aneddoto più curioso, abbiamo potuto apprezzare: sacerdoti che avevano compiuto il voto del silenzio e fedeli che ingerivano la polvere ricavata dalle ossa dei morti; asceti col titolo di baba riveriti come santi in terra, e falsi profeti che spacciandosi per baba miravano solo a spillare soldi; topi venerati a migliaia in un unico tempio e interi villaggi, devoti a divinità rurali, mettersi in marcia a piedi per centinaia di chilometri.

La religiosità indiana è fatta di profumi, odori, sensazioni. È un miscuglio di usanze veramente antico. Quanto antico? Abbiamo già detto che alcuni concetti erano già presenti nel substrato della civiltà dell’Indo già a partire dal III millennio a.C. A dispetto di ciò, tuttavia, l’induismo si fonda su elementi esterni riconducibili alle penetrazioni indoeuropee che interessarono il territorio dell’India del nord intorno al 1500 a.C. [10]

L’arrivo degli Arii (o indoari o ariani) che subentrarono alla già vacillante Civiltà dell’Indo, determinò una forte regressione culturale come la scomparsa della scrittura e di una struttura statale. In effetti, gli Arii erano un popolo nomade, pastori dalla cui lingua indoeuropea derivò il sanscrito storico. Le principali testimonianze di questo popolo ci sono pervenute soprattutto attraverso i quattro Veda, ovvero le raccolte degli inni, dei canti e delle formule rituali. Cosa molto interessante, la migrazione dei popoli indoeuropei determinò una certa analogia fra il pantheon indoariano e quello persiano da cui successivamente sarà elaborato lo zoroastrismo. I documenti vedici indicano che gli ariani erano suddivisi in classi, antesignane delle caste indiane, ciascuna con un proprio ruolo sociale [11]: ritroviamo così i brahmani, ovvero i sacerdoti; gli kshatriya, i guerrieri; i Vaishya, ovvero i mercanti e gli artigiani. Queste prime tre classi sono riferibili ai conquistatori ariani, i “nati due volte”, cui si aggiungono gli shudra, i servitori, che rappresentano la popolazione più antica. Al di fuori di questa gerarchia sociale, infine, si ritrovano i dalit, gli intoccabili, coloro che sono impuri.

L’evoluzione storica dell’India nei secoli successivi alla venuta degli ariani è, al giorno d’oggi, ancora oscura; purtuttavia, sono proprio questi secoli che vedono il passaggio dalla cultura vedica all’induismo storico. Dal punto di vista politico, la definizione dei regni sembra originarsi dal progressivo stanziarsi delle tribù in tutto il nord dell’India. Il termine “Jana” letteralmente indica un a tribù, cui i testi buddhisti successivi fanno corrispondere, intorno al VI – IV sec. a.C. sedici grandi regni denominati Mahajanapada [12].

Le sedici Mahajanapadas (V sec a.C.)

Questo periodo è un calderone di fedi diversi, che unisce le grandi divinità ariane ad altre forze di origine pre-vedica; per l’uomo comune la religiosità rimaneva un miscuglio di riti legati alla fertilità e divinità associati a caste e fedi locali, in un miscuglio che rifletteva la tipica diversità dell’India. Tuttavia, figure intellettuali di spicco come sacerdoti, asceti e pensatori, iniziarono a studiare le idee religiose, speculando anche sull’essenza del mondo e il significato della vita. Quest’ambiente spirituale segna, intorno al IX secolo a.C., il passaggio dal vedismo al brahmanesimo che, a sua volta, sfocerà nei primi secoli dopo Cristo nell’induismo storico. La letteratura prodotta da questa ricerca religiosa formò due importanti raccolte: i Brahamana, commenti in prosa sui riti connessi con i Veda, e le Upanishad, una raccolta che includeva formule, aforismi e trattati filosofici.

Morire a Varanasi

Quando il pensiero induista si andò cristallizzando nella sua letteratura, si credeva che l’uomo avesse uno spirito identico al grande spirito del mondo. Raggiungere questa superiore consapevolezza era lo scopo della vita, o di numerose vite: sin dagli albori del pensiero vedico, infatti, l’induismo ammette la trasmigrazione dell’anima. Per un individuo, la reincarnazione può andare nel senso di una casta superiore o inferiore – è possibile, persino, che l’anima si reincarni in una pianta o in un animale – a seconda il risultato della propria condotta di vita, o karma. Nel pensiero delle Upanishad, il mondo è inteso come mera illusione e lo scopo della vita è quello di liberarsi dal continuo ciclo di reincarnazione. Nella moderna credenza indù esiste un posto in cui gli Dei permettono all’anima di liberarsi dal mondo ed è la riva occidentale del Gange, presso la città sacra di Varanasi.

Uno scatto del Gange

«Se siete venuti qui in India» ci dice una guida locale. «È perché avete lasciato qualcosa in sospeso.» Il suo sorriso, laconico e che non si presta a dibattiti, mi strappa un brivido. Quello che mi sta offrendo è una prospettiva di vita assolutamente diversa da quella occidentale.

Varanasi, Baranasi, Benares, Kashi.

Quanti nomi per una sola città. Il largo incrocio in cui si trova il nostro hotel è trafficato allo stesso modo sia di giorno che di notte. Per fortuna, l’hotel è ben isolato perché il rischio è che i clacson di auto e tuc tuc si infilino anche nei sogni. Siamo al margine di una zona pedonale, una larga via con vetrine scintillanti di abiti tradizionali femminili. Lungo i marciapiedi dozzine di persone stendono frutta e verdura su larghi teli. Sulle prime, Varanasi è una citta che ci disorienta. La strada lascia posto a vicoli strettissimi, un dedalo di viuzze con ristoranti, piccoli negozi e insegne dipinte. Sulla nostra testa l’intreccio di cavi elettrici ci dà l’impressione di passeggiare per una foresta. Troviamo una larga gradinata che conduce al Gange. Largo, maestoso, con le acque torbide in continuo tumulto e le barche cariche di turisti alla ricerca di uno scatto perfetto della città, il fiume sacro dell’India è la meta di tanti fedeli induisti che si immergono in bagni rituali. Noto un uomo che, insieme alla sua compagna, rastrella il basso fondale a pochi metri dai gradini. Tira fuori oggetti simili a piccole statuine di terracotta, le spoglia dei cimeli e li ributta nelle acque.

Immagino che stia cercando qualcosa di prezioso.

A differenza delle altre città dell’India, i crematori di Varanasi sono all’interno della città, non ai suoi margini. Ci addentriamo nel cuore spirituale del paese, una vera e propria industria della cremazione: qui lavorano gli intoccabili ci spiega Elena, la nostra guida – come tanti italiani ha deciso di trasferirsi qui in India – sono loro che vendono la legna di sandalo per la cremazione. Le contraddizioni della società indiana si colgono a colpo d’occhio: il lavoro degli addetti alla cremazione è imprescindibile, eppure tali attività sono affidate a coloro che non hanno alcuna considerazione, che vivono in specifici quartieri perché nessuno si sognerebbe mai di vendere loro un immobile.

Uno scatto di Varanasi: due indiani preparano la vendita della legna per i riti funebri

Proprio davanti ai nostri occhi scende una barella fatta con canne di bambù, al di sopra vi è adagiato un corpo avvolto in uno sgargiante lenzuolo arancione su cui sono adagiati dei fiori. Stranamente, in India, il funerale non ha i connotati dolorosi come in occidente; l’uomo, il figlio maschio maggiore della famiglia, attende i preparativi in disparte; attorno a lui, gli altri uomini della famiglia, qualcuno con un cellulare in mano, gli altri chiacchierano con i propri vicini. Non ci sono donne in quanto a loro non è permesso partecipare ai funerali. Nei pressi del gruppo è tutto un via vai di uomini che trasportano bracciate di legna con cui sarà costruita la pira. Quando sarà il momento, il figlio maschio accenderà il fuoco, poi starà agli addetti alla cremazione tenere vivo il fuoco e assicurare che il corpo bruci e, soprattutto, che la testa del defunto si spacchi. Se non dovesse accadere, saranno loro stessi a provvedere affinché il cranio non rimanga integro, altrimenti l’anima del defunto non potrà lasciare il corpo. Al termine della cerimonia, le ceneri del corpo e della legna bruciata saranno gettate nel Gange e il figlio maschio terminerà il rito lanciandosi alle spalle una scodella d’acqua del fiume. La famiglia riunita, quindi, tornerà a casa avendo cura di fare un percorso diverso da quello fatto per venire al crematorio.

La vita, in India, non è attaccamento.

E nessun posto lo dimostra più che Varanasi. Qui, dove il dio Shiva si manifestò per la prima volta, dove le anime si librano via dai corpi in riva al Gange e gli animali, cani, capre e mucche si mescolano agli uomini, in cerchio che parla di vita e di morte.

Uno scatto di Varanasi: Maniharnika Ghat, uno dei maggiori crematori della città

Percorsi di lettura

L’india, con i suoi profumi e le sue tradizioni millenarie è una terra inevitabilmente corteggiata da scrittori di ogni epoca. Dall’italiano Emilio Salgari, che vi ambientò i Misteri della Giungla Nera (1887), primo libro del ciclo indo-malese, all’Inglese Bernard Cornwell, che ne fa sfondo delle avventure della fortunata serie dedicata al soldato britannico Richard Shape, l’India è stato sinonimo di avventure ed esotismo. Le proposte nel campo della narrativa di immaginazione abbondano, come il romanzo horror di Dan Simmons Il Canto di Kali (1985), vincitore del Premio World Fantasy e pubblicato in Italia sotto l’egida della collana Urania. Alla mitologia indiana è ispirato anche uno dei più famosi romanzi di Roger Zelazny, Signore della Luce (1967), opera che valse il premio Hugo all’autore. Dal campo della fantasy, invece, arrivano numerose opere che esplorano le possibilità della trasmigrazione dell’anima, come il brillante racconto The Only Death in the City (Paris) contenuto nella raccolta Sunfall (1981) di Caroline J. Cherryh [13]. Per chi avesse voglia, invece, di una perla tutta italiana da non perdere è il racconto Vimana! di Alessandro Forlani, contenuto nella raccolta Arabrab di Anubi (2017), un audace racconto che incrocia un’ottima fantasy mediterranea con atmosfere da science-fantasy, riprendendo proprio il tema dell’invasione degli Arii nel II millennio a.C. Un’ultima menzione va, infine, alla fantasy indiana: secondo quanto riportato dal quotidiano The Hindu, The Simoqin Prophecies (2007), primo volume della Gameworld Trilogy, può essere considerato il primo esempio di fantasy che traspone il mondo culturale indiano all’interno di un genere che ha radici in occidente [13, 14].

Insomma, come avrete capito, ce n’è davvero per tutti i gusti!


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Note

La foto di copertina e tutte le altre indicate nell’articolo come “scatti” sono gentilmente concesse da Giuseppina Geraci, ogni diritto è riservato

[1] C. Starr, Storia del Mondo Antico p.168, Editori Riuniti (1997)

[2] Per un approfondimento delle guerre indo-pakistane si rimanda alla pagina dell’atlante treccani

[3] S.K. Singh, G. K. Srivastava, An Introduction to the Indus Valley Civilization 3° ed., National Museum of Delhi (2023)

[4] L’Archeological Survey of India è un dipartimento del governo indiano creato con lo scopo di riportare alla luce, studiare e preservare i siti di interesse storico dell’India.

[5] P. Anima, Rakhigarhi, the village that treads on history (2019) consultato su theindusbusinessline.com

[6] Rakhigarhi, the forgotten, and now endangered archaeological site in Haryana (2023) consultato su timesofindia.com.

[7] Testi e iscrizioni ritrovate in Mesopotamia all’epoca di Sargon di Akkad (ca 2350 a.C.) menziona scambi commerciali con Meluhha che è stata identificata con la regione attorno alla Valle dell’Indo (cfr. S.K. Singh, G. K. Srivastava, An Introduction to the Indus Valley Civilization 3° ed.).

[8] Esiste una versione alternativa che spiega la maledizione di Shiva su Brahama, da mettere in relazione con l’infatuazione ossessivo di quest’ultimo per Shatarupa, donna da lui stesso plasmata.

[9] Dal punto di vista storico il declino del culto di Brahma intorno al VII sec a.C. è da mettere in relazione con l’ascesa dei culti di Shiva e di Vishnu, oltre che agli scontri con i Buddhisti e i Giainisti (fonte).

[10] C. Starr, Storia del Mondo Antico p.170, Editori Riuniti (1997)

[11] Per una panoramica di base sul sistema delle caste in India si rimanda alla pagina Wikipedia

[12] Per una panoramica di base sul periodi storico si rimanda alla pagina di wikipedia

[11] C. Starr, Storia del Mondo Antico p.171, Editori Riuniti (1997)

[12] Sunfall è un’antologia edita in Italia dalla Compagnia del Fantastico Newton con il titolo il Crepuscolo della Terra, di cui potete trovare una recensione qui.

[13] https://www.thecuriousreader.in/bookrack/indian-fantasy-fiction-sci-fi/

[14] https://www.thehindu.com/books/samit-basu/article4344205.ece

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