Virgin Steele – The Marriage of Heaven and Hell part 1

 

“Ride like the wind in chains of Defiance I see the scars and the pain

Shatter the Ground i stand before you Kill me, or die where you stand…”

“Cavalca come il vento in catene di Ribellione

Vedo le cicatrici e il dolore

Frantuma il terreno io sto di fronte a te

Uccidimi, o muori lì dove sei…” (Weeping of the Spirits)

Lo spirito dello Sword and Sorcery in musica.

Il gotico, il metallo, le influenze anni ottanta, un pizzico di blues, tonnellate di grinta. Questi e altri gli ingredienti di un’opera composita e complessa, partorita da un pugno di artisti in cerca di riscatto dopo alcuni anni bui e bisognosi di riaffermare in toto la propria identità e il proprio messaggio. In una rispondenza metamusicale è esattamente quanto accade ai personaggi che animano il doppio album in questione, di cui esaminiamo la prima parte.

I Virgin Steele, band nata nel 1981 per volontà del chitarrista Jack Starr (defezionario dopo i primi due album) e del cantante e tastierista David DeFeis, dopo aver dato buona prova di sé e negli anni ottanta con lavori come Guardians of the flame, Age of Consent e soprattutto Noble Savage (album in cui emergeva in tutto il suo splendore un’attitudine sanguigna e allo stesso tempo sofisticata) si erano persi a causa di problemi con il management e parevano destinati a smarrirsi per sempre. Il ritorno sulle scene con l’anomalo Life Among the Ruins non era bastato a riportarli in quota.

Ci pensò The marriage of heaven and hell part 1. Marriage non è un concept album in senso stretto, non racconta una storia con un preciso arco narrativo facilmente ricostruibile, ma lo è nella misura in cui tratta temi specifici e ricorrenti all’interno dei quali si può rintracciare un filo rosso che va a costituire una vicenda cui viene dato il sapore del Mito. Per usare le parole dello stesso David DeFeis, il principale compositore del gruppo:

…I Miti sono senza tempo e i personaggi, anche se sono dei, demoni o quello che è, si comportano in maniera molto umana, sono reali. Non mi interessa fare lezioni di storia, ma quei Miti, li posso usare come piattaforma di lancio per quello che voglio dire. Posso usarli come testimonianza della mia vita e della condizione del mondo oggi… L’idea era quella di estrarre Excalibur dalla roccia… e usarla per tagliare a metà tutte le stronzate che accadono nella vita.” (da un’intervista per Moon TV).

Da qui la natura frammentaria ed episodica delle singole canzoni, che sono perfettamente fruibili anche singolarmente e offrono spunto per trattare i diversi argomenti che solleticano l’autore ma, nondimeno, concorrono a formare un corpo unico. Non a caso nel corso dell’album vi sono melodie che si ripropongono seguendo arrangiamenti diversi, esattamente come a livello dei testi si presentano in più occasioni concetti e situazioni ricorrenti. Per la sua stessa natura criptica è quindi un lavoro maggiormente aperto a interpretazioni e personalizzazioni, a seconda della sensibilità dell’ascoltatore, fermi restando i suoi tratti distintivi.

I temi di Marriage, parte 1 e 2, si possono suddividere in due macro categorie: grandi vicende e passioni mortali contrapposte alle grandi vicende e passioni divine, siano esse di matrice pagana o cristiana. A questi due temi antitetici si aggiunge trasversalmente quello più importante di tutta l’opera: la storia d’amore di un uomo e di una donna che di volta in volta vengono separati dalla morte violenta o comunque tragica di lei. Una morte decretata proprio da quegli dei che, come gli antichi residenti dell’Olimpo, sono capricciosi e dispotici e pertanto non più divini di quanto lo siano gli stessi uomini. Lo spirito guerriero e indomito del protagonista si ribella a questa tirannia celeste e dichiara apertamente una sfida alle divinità, proclamando il suo selvaggio regno sulla Terra e incoronandosi re dell’umanità; una sorta di Prometeo moderno e senza tempo, punto di riferimento per tutti gli altri mortali con sentimenti affini (con un po’ di autoironia c’è l’autocelebrazione, in tal senso, degli stessi DeFeis e compagnia nella canzone Blood of the Saints).

Da questa ribellione nasce il quarto e ultimo tema del concept: la natura divina nell’essere umano contrapposta all’imperscrutabile volontà degli dei ufficiali. È così che il clangore dell’acciaio (Weeping of the Spirits), il cuore del protagonista che sanguina consumandosi a folle velocità sulle strade per allontanarsi dal proprio dolore (Blood and Gasoline), le ferite che tormentano la psiche (Self Crucifixion), si uniscono al racconto biblico e spesso immaginifico delle alte sfere e al dialogo tra le forze divine e quelle mortali. Questo dialogo viene rielaborato in forme diverse varie volte nel corso delle canzoni, avendo di volta in volta un interprete umano differente che, tuttavia, proprio come il Campione Eterno di Moorcock, incarna sempre il medesimo spirito in differenti versioni di se stesso. In una di queste ad esempio, l’aggressiva e veloce The Raven Song, il Campione rivive nel protagonista de Il Corvo di Poe e invoca l’uccello tenebroso affinché gli riporti l’adorata Lenore. Il tema della perdita della donna amata viene così declinato in chiave gotica e drammatica, in pieno stile Heavy Metal.

In quello che sarà il terzo capitolo della, chiamiamola così, saga (l’album Invictus) sarà proprio la consapevolezza da parte dell’anima del Campione delle sue molteplici reincarnazioni a innescare la guerra totale dell’umano contro il divino. Questo variopinto tessuto letterario e immaginifico diventa il tappeto perfetto per la riproposizione di un lessico evocativo nelle sue ripetizioni e per un’esplorazione musicale che spazia dal rock progressivo settantiano, alla NWOBHM (New Wave of British Heavy Metal) passando per il blues e, appunto, il gotico. Lo sviluppo della narrazione, complice anche l’abbondanza di materiale e il fatto che le canzoni della parte 1 e 2 siano state scritte praticamente tutte insieme in un’orgia compositiva, sembra procedere in qualche modo in senso inverso, o comunque atemporale, con la anthemica canzone d’apertura (I Will Come for you) che vede il protagonista superare le rovine del suo mondo esteriore e interiore, devastato dagli emissari in Terra delle forze divine, per riprendersi ciò che è suo di diritto: vendetta o amore perduto che sia.

La conclusione è invece affidata alla rombante e accattivante Life Among the Ruins, che chiude il cerchio sull’infelice vicenda dei due amanti, la cui tragica fine innesca il desiderio di vendetta da cui si è partiti all’inizio dell’album. Durante il viaggio non mancano episodi più intimisti e struggenti come House of Dust, una ballata sulla distanza incolmabile e sui ricordi amari di ciò che è stato e non tornerà più, e quelli più marcatamente metallici ed epici come Last Supper, canzone che, come lascia intuire il titolo, riprende letteralmente il momento culminante della morte e resurrezione del Salvatore cristiano.

Uno degli apici esecutivi e compositivi dei Virgin Steele, questa prima metà dell’opera, vede l’ultimo contributo del prode Joey Ayvazian alle pelli, prima dell’arrivo di quella macchina da guerra che risponde al nome di Frank Gilchriest. Menzione d’onore meritatissima anche per il fedele Edward Pursino alla chitarra, mai come in questo caso versatile e incisivo sia in fase solistica che ritmica. Notevole anche il suo apporto in fase di composizione che, purtroppo, scemerà negli anni a venire con il progredire della discografia del gruppo. Ma sopra a tutti spicca proprio il capo indiscusso, e al tempo stesso molto discusso, della band: David DeFeis. Struggenti i suoi interventi al pianoforte e alla tastiera, mai invadenti e sempre originali, in bilico tra musica classica e un tocco di follia; devastante la sua performance vocale, a quel tempo al culmine delle condizioni fisiche e capace di offrire una potenza fuori dal comune e un’estensione invidiabile. DeFeis è il perfetto alfiere di quel romanticismo barbarico, termine altisonante da lui stesso coniato che, da una parte, rimanda a un immaginario che coincide con quello dello Sword And Sorcery, dall’altra è condito da dosi abbondanti di narcisismo e alta cultura letteraria.

The Marriage of Heaven and Hell part 1, come d’altronde il capitolo successivo, rimane una gemma preziosa della musica tutta degli anni novanta, criminalmente poco celebrata quando invece dovrebbe essere portata a esempio di espressione artistica libera, dirompente e mai banale.

Un catalizzatore di passioni ardenti e vita piena.

articolo di Alessandro Zurla

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