BUSHIDO – I PRINCIPI MORALI DEL GUERRIERO SECONDO LA CULTURA GIAPPONESE DEL BUDDISMO ZEN

Veloce come il vento, tranquillo come una foresta ed inamovibile come una montagna.” – Clan Takeda

 

Per secoli e secoli la classe combattente giapponese si è tramandata di nonno in nipote un insieme di precetti, valori e caratteristiche che furono standardizzate e canonizzate unicamente verso il 1600 d. C.

Sebbene questo insieme di norme militari e morali risalga addirittura al 660 a. C. il codice dei samurai fu messo per iscritto solo tra il XV e il XVI secolo da Tsuramoto Tashiro, che scrisse l’Hakagure, secondo i precetti che gli furono insegnati dal monaco guerriero Yamamoto Tsunetomo.

Gi  – “Vi è solo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato”

Yu  – “L’eroico coraggio non è cieco, ma intelligente e forte” oppure “Nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere”

Jin  – “L’intenso addestramento rende il samurai svelto e forte. È diverso dagli altri, egli acquisisce un potere che deve essere utilizzato per il bene comune. Possiede compassione, coglie ogni opportunità di essere d’aiuto ai propri simili e se l’opportunità non si presenta egli fa di tutto per trovarne una. La compassione di un samurai va dimostrata soprattutto nei riguardi delle donne e dei fanciulli.”

Rei – “I Samurai non hanno motivi per comportarsi in maniera crudele, non hanno bisogno di mostrare la propria forza. Un Samurai è gentile anche con i nemici. Senza tale dimostrazione di rispetto esteriore un uomo è poco più di un animale. Il Samurai è rispettato non solo per la sua forza in battaglia ma anche per come interagisce con gli altri uomini. Il miglior combattimento è quello evitato.”

Makoto – “Quando un Samurai esprime l’intenzione di compiere un’azione, questa è praticamente già compiuta, nulla gli impedirà di portare a termine l’intenzione espressa. Egli non ha bisogno né di “dare la parola” né di promettere. Parlare e agire sono la medesima cosa.”

Meiyo – “Vi è un solo giudice dell’onore del Samurai: lui stesso. Le decisioni che prendi e le azioni che ne conseguono sono un riflesso di ciò che sei in realtà. Non puoi nasconderti da te stesso.”

Chugi – “Per il Samurai compiere un’azione o esprimere qualcosa equivale a diventarne proprietario. Egli ne assume la piena responsabilità, anche per ciò che ne consegue. Il Samurai è immensamente leale verso coloro di cui si prende cura. Egli resta fieramente fedele a coloro di cui è responsabile.”

In quest’insieme di precetti si può notare anzi tutto una tendenza, tipica del buddismo zen, a “mescolare” norme legate alla materialità e all’immaterialità.

Secondo la concezione taoista dell’universo, ogni cosa rivela il suo contrario, tramite il dualismo yin / yang.

Anche in questa serie di insegnamenti presente nell’Hakagure vediamo il senso di completezza tipico delle culture dell’Estremo Oriente. Ogni cosa è sì concreta, ma ha anche un valore intrinseco più “alto”, legato alla sfera del non sensibile, ogni caratteristica fisica di un guerriero Samurai (dal verbo “samurere”, asservire) non è fine a sé stessa, ma appunto asservita a un valore profondamente etico.

Nel precetto del “Gi” è presente la convinzione che l’etica sia una sola, non esistono più tipi di etica, come nella filosofia moderna occidentale, e non esistono scorciatoie e mezzi termini, non esistono titoli o garanzie, non esiste una “compravendita delle indulgenze”, ogni uomo è responsabile del suo onore e delle sue azioni, la moralità consiste nel fare ciò che è giusto. Tramite questo iniziale concetto si può snocciolare tutta la via del Bushido (da “bu”, guerriero a cavallo, “shi”, corrispondente all’anèr greco, ovvero uomo nel pieno delle sue facoltà intellettive, e “do”, che significa “via, percorso, strada” dal punto di vista puramente morale).

Per “ciò che è giusto” s’intende qualcosa che la tradizione giapponese da per scontato, in quanto risalente a dottrine anteriori alla via del guerriero. Parallelamente alla trascrizione dei principi etici dei combattenti, che ricordano chiaramente il codice cavalleresco europeo e il mos maiorum romano antico, durante il periodo Tokugawa anche la filosofia del buddismo zen si sviluppò e prese una forma ben definita, sebbene fosse uno stile di vita che le persone seguivano da secoli e secoli.

Ciò che è “giusto” è ciò che porta al “Satori”, l’illuminazione mistica secondo la cultura giapponese.

Il “Satori” si differenzia dal “Nirvana” della tradizione antica induista e buddista in quanto quest’ultimo esplica un momento eterno, una condizione spirituale dell’intelletto, e quindi dell’anima, che ha abbandonato il ciclo di reincarnazioni fisiche rappresentato dalla ruota del Samsara, per divenire unicamente un essere “astrale”, ossia legato solo ed eternamente a una dimensione dell’Oltre, dell’Assoluto ; l’illuminazione in senso giapponese è un momento hic et nunc, qui ed ora, e l’esercizio della meditazione “Za Zen” (letteralmente “meditare in tranquillità”) dovrebbe portare all’applicazione e al raggiungimento di tale condizione nella vita di tutti i giorni, nella materialità della quotidianità.

Il precetto “Yu” indica una sorta di rovesciamento vero e proprio dell’epicureismo greco. Quest’ultimo considera valente un atteggiamento refrattario, un allontanamento dalla vita e dalla sua carnalità, una scelta tra i piaceri “catastematici” e quelli “cinetici”, partendo da una concezione dell’universo fondata sull’atomismo democriteo.

“Yu” indica invece, a chiare lettere, che “nascondersi come una tartaruga nel guscio non è vivere”, e qui vediamo il riferimento alla sfera dell’azione, però questo tipo di coraggio nell’esporsi al mondo non dev’essere, per l’appunto, cieco, ma guidato dall’intelletto e dalla razionalità, se no, siamo poco più che animali.

Il precetto “Jin” è fortemente legato al tema della compassione verso il prossimo, un valore che riscontriamo facilmente nell’epica cavalleresca e nell’etica cristiana occidentale, Orlando infatti era “santo” in quanto martire per la causa cristiana, i cavalieri erano gentili con donne e fanciulli, come esplicato nell’Hakagure. Questa concezione è pressochè identica e vi è un parallelismo forte, per quanto concerne questo valore etico, tra il Samurai e il Cavaliere.

Secondo la filosofia del buddismo zen ogni uomo è infatti responsabile e influenzato per e da ogni essere vivente. Un Samurai infatti non dovrebbe mai fare distinzione tra amico e nemico, in quanto entrambi parte del medesimo Tutto. “Seppellisci il tuo nemico”, è un altro leit – motiv della tradizione dell’Estremo Oriente. Nel senso di “sconfiggere” il proprio avversario, qualsiasi cosa e qualsiasi ente esso rappresenti, e di appunto “seppellirlo”, rendergli onore, eseguire il rito funebre che simbolicamente rappresenta anche il lasciarsi alle spalle il nemico battuto, in quanto, sempre secondo lo zen, ogni istante, ogni momento del reale è a sé stante, e non esiste futuro, presente, o passato. Ogni istante è slegato e libero nella sua unicità.

“Rei” sta a indicare invece la gentilezza, nel senso in cui “il combattimento migliore è quello evitato”, ed è collegato al tema del rispetto appunto verso anche il proprio nemico. Si può notare come ogni precetto sia a sé stante, ma collegato intrinsicamente con tutti gli altri, è facilmente comprensibile prendendo in considerazione la concezione orientale e in particolar modo buddista secondo cui tutto è Uno.

“Makoto” esplica il senso dell’onore nell’istante in cui azione e pensiero coincidono, per un Samurai non esiste la “parola data”, fa esattamente ciò che ha intenzione di fare, e se ne prende ogni responsabilità, in un’apparente libertà d’intenti in realtà collegata estremamente al concetto del “Satori”, un momento d’illuminazione mistica, totale, durante il quale ogni cosa è sia pensiero sia azione.

“Meiyo” è sempre collegato all’agire in relazione alla sfera del non sensibile e dell’essenza, “non puoi nasconderti da te stesso” ricorda quasi il “conosci te stesso” dell’oracolo di Delfi dell’antica Grecia, ogni azione rivela ciò che sei intimamente, e ogni scelta quindi dev’essere guidata dall’intelletto e dall’anima.

“Chugi” riguarda invece il concetto di fedeltà e di asservimento al padrone, in senso più lato invece significa il rispetto verso coloro che si è scelto di proteggere, e la piena assunzione delle proprie responsabilità di fronte alle proprie azioni.

Ogni precetto del Bushido, se non rispettato, porta inevitabilmente al “Seppuku”, il suicidio rituale.

Quest’aspetto è singolare ed esplica in maniera chiara e certa l’importanza forte della sfera etica per un Samurai e per un uomo di origini giapponesi o che segue dottrine di natura orientale. E’ lontanissimo dai concetti distorti delle culture cosiddette “new age”, che predicano invece che un rigore morale, una presunta libertà data dalla consapevolezza che ogni istante non è ripetibile, ma appunto per questo, dovrebbe essere, secondo la filosofia del buddismo zen, reso irripetibile dall’azione, cosa che invece la “new age” non fa, confondendo le acque e infangando, non nel senso di sporcare ma nel senso di rendere meno chiaro, il concetto dell’onore dell’Oriente antico. Quando si parla di Oriente bisogna abbandonare i pregiudizi creati dalle stesse persone che si fregiano di essere “guru” o “maestri” in ambito di zen, quando invece proprio uno dei più grandi maestri zen Ikkyu Sojun, nel XV secolo, scriveva che “nessuno deve definirsi maestro di zen” oppure “non gli rivolgerò mai più lo sguardo”, perderà il rispetto, perderà l’onore stesso, nessuno baderà più a lui.

Il “Seppuku” consiste nella decapitazione ed eviscerazione volontaria, il Samurai che ha tradito i suoi ideali deve, tramite una spada corta, che si differenzia nel nome e negli usi in base all’epoca storica a cui ci si riferisce.

Il taglio doveva essere eseguito da sinistra verso destra e poi verso l’alto mentre ci si trovava nella classica posizione giapponese detta “seiza”, cioè in ginocchio con le punte dei piedi rivolte all’indietro; ciò aveva anche la funzione di impedire che il corpo cadesse all’indietro poiché, secondo il codice morale allora seguito, il guerriero deve morire cadendo con onore in avanti.

Per preservare ancora di più l’onore del samurai, un fidato compagno, previa promessa all’amico, decapitava il samurai appena egli si era inferto la ferita all’addome in modo che il dolore non gli sfigurasse il volto. La “kaishaku”, la decapitazione, richiedeva eccezionale abilità e infatti il “kaishakunin” era l’amico più abile nell’arte della katana, e anche il più “saldo” dal punto di vista emozionale, un errore dovuto alla scarsa abilità o all’eccessiva sensibilità avrebbe causato ulteriori e inutili sofferenze.

La via del guerriero o Bushido coincide per molti aspetti con l’etica cavalleresca europea, spesso infatti, in moltissime epopee eroiche vediamo il cavaliere idealizzato e difensore dei deboli e degli oppressi, serve il suo padrone ciecamente, ed è “benedetto da Dio” nel farlo, la garanzia è la salvezza eterna, tema completamente estraneo alle tradizioni orientali, in quanto non hanno il senso del peccato e del peccatore, ma condividono il medesimo substrato, la stessa identica forza vitale e gli stessi intenti. Lo scopo, tra un cavaliere e un samurai, è pressochè lo stesso, il raggiungimento di uno status superiore, spirituale, tramite l’esercizio di azioni meritevoli dal punto di vista etico.

Tutto ciò che è etico è di per sé quindi anche giusto, e tutto ciò che è giusto riecheggia nelle azioni degli uomini, aderendo alla condizione naturale umana, alla consapevolezza che ogni istante è di per sé in divenire, “tutto scorre” e “non è possibile entrare due volte nello stesso fiume” (queste frasi sono di Eraclito, filosofo greco antico che non a caso fu molto influenzato dalle dottrine del pensiero orientale) e irripetibile, unico, e nella individualità è presente una parte del Tutto, che si dispiega tramite i due aspetti taoisti dello yin e dello yang.

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