I racconti di Satrampa Zeiros – “Le Janare di Punta Licosa” di Alessio Noè

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , questa settimana abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Alessio Noé, che ci propone “Le Janare di Punta Licosa”, racconto weird di circa 30.000 battute.

Buona lettura.

Autore

Alessio Noè (Roma, 1984) vive e lavora Londra dove lavora come giornalista enogastronomico e consulente marketing. La viscerale passione per la letteratura weird si sviluppa dagli anni della pre-adolescenza prima attraverso la collana “Piccoli Brividi” per poi raffinarsi con autori come Buzzati, Landolfi, King e andando ad abbracciare i Maestri Lovecraft, Machen, Blackwood, W.H. Hodgson. Il suo stile richiama a volte il passato, a volte un presente oscuro vicino a quello di uno dei suoi modelli: Thomas Ligotti. Attualmente, oltre a scrivere racconti di genere fantastico, horror o che richiamino leggende del folklore italiano, è impegnato in un progetto che mischia fotografia e scrittura con il fotografo Edo Zollo.

Le Janare di Punta Licosa

di Alessio Noè

 

Castellabate, regione del Cilento (Campania) – 30 Settembre 2018

Fa ancora molto caldo e il mare sembra più bello che mai da qui. Godo di una vista paragonabile al sublime dei grandi Romantici. C’è l’acqua con i suoi riflessi verdi, grigi, azzurri sempre più sfumati fino al taglio netto che li separa dall’orizzonte offuscato che lascia viaggiare lontano la mente, i ricordi, i sogni. Gli strappi oscuri che occhieggiano dai nembi rammentano alla mia anima degli incubi che trattengo a fatica dentro di me.

Sono seduto sulla collina vicino alla casa che fu di mia nonna e che ora non è abitata da nessuno. Proprio lì, nella vecchia cantina, ho trovato un prezioso documento che avrei fatto meglio a consegnare ad uno dei musei locali dove però avrebbero potuto bollare il contenuto come una burla ai danni di una storia sacra. Sì perché il contenuto riguarda Costabile Gentilcore, colui che diede inizio alla costruzione del castello che poi ha dato il nome a questo paese, Castellabate (Castrum Abatis). Lui era l’abate e mia nonna ne è diretta – seppur lontana – discendente, almeno così si dice. Ormai è tardi e serbo con me il contenuto di quelle pagine. Si tratta di appunti scritti, riscritti, costantemente tramandati da secoli e via via adattati nel linguaggio, temo non nel contenuto. La prova tangibile è proprio accanto a me nel momento in cui scrivo.

Osservo l’ulivo, non uno qualsiasi, ma l’ulivo che mai è cresciuto. Non posso credere ai miei occhi, men che meno alle mani che accarezzano la maledetta corteccia di questo alberello nano, così pacifico all’apparenza, foriero di una storia che si perde nelle profondità di una terra per me sacra eppure maledetta. L’antico manoscritto cui accennavo ha dato forma ad una leggenda che la cara nonna mi ha raccontato sin da quando ero piccolo e che a sua volta le era stata raccontata anni e anni prima e così via fino a chissà quando nel passato. L’ho sempre ritenuta la classica fiaba che da piccolo mi faceva addormentare, qualcosa che si avvicina alle leggende folkloristiche. Mai avrei immaginato potesse essere in realtà ben più oscura di quel che avevo udito. Crescendo non ha fatto altro che punzecchiare la mia anima, un tormento che oggi sento di non poter più sopportare.

Accarezzo la scure adagiata sul nudo suolo che circonda l’ulivo. Ho due sole possibilità e prima di prendere la decisione ho bisogno di rileggere un’ultima volta il manoscritto e lasciare una mia traccia in quella che spero sarà l’ultima pagina di un maledetto diario.

 

Carteggio di Costabile Gentilcore, data incerta del marzo 1123 d.C.

Sono passati solo pochi mesi dall’inizio dell’edificazione della rocca che mi auguro possa essere efficace difesa di questo splendido territorio contro la barbarie dei saraceni. Le sofferenze che dieci anni or sono le popolazioni locali hanno dovuto patire sono atroci torture per un’anima come la mia che, oltre all’innata compassione per i fratelli cristiani, vive di puro amore per il suolo natìo. Non sarò mai abbastanza grato al duca Guglielmo per avermi insignito di questo onore e se è vero che mia intenzione non è quella di combattere una guerra, vorrei poter offrire alle genti che abitano la costa una sacrosanta difesa.

[…]

Dopo mesi di annotazioni sull’evoluzione dei lavori, sento il bisogno di confessarmi sulle pagine di un diario che dovrà rimanere per sempre un intimo sussurro della mia anima a se stessa. Nessun essere umano lo dovrà mai leggere e sarà mia premura eliminare ogni sua pagina fisica prima che la morte mi avvolga nelle sue spire. Non parlo volutamente di paradiso perché dopo quello che ho vissuto, la mia anima è eternamente corrotta, insudiciata, violentata. Se il paradiso c’è, non è posto per il mio spirito martoriato. Continuerò a offrire il mio supporto ai fedeli, racconterò loro della redenzione e augurerò che ognuno di loro peccatori possa elevarsi nel Cielo. Tremo al pensiero del suo contraltare, perché ne ho potute intravedere le sembianze e se non sono impazzito è solo per poter terminare l’edificazione del castello. Le pagine di questo diario mi hanno tenuto savio, spero, ben oltre la mia fede ormai infranta.

Per rispetto del mio devoto novizio Bonaccorso di Raniero, il quale temo si trovi nelle fiamme più nere di un inferno ben peggiore di quel che ho sempre immaginato, accludo qui di seguito alcuni stralci del suo personale diario. Trattasi di un monito per me, qualcosa che mi è servito a completare la storia e possa aiutare a mettere insieme i pezzi di questa nera notte calata su di me. Nulla più, giacché queste pagine non saranno mai lette da altri occhi umani.

In tua memoria, caro Bonaccorso. Farò in modo che il tuo nome non venga dimenticato quando il Castello dell’Angelo sarà terminato.

 

Diario privato di Bonaccorso di Raniero, 17 gennaio 1123

[…] Ho accolto con una felicità indescrivibile l’incarico che l’eminente duca Guglielmo mi ha personalmente assegnato due mesi or sono: accompagnare Costabile Gentilcore e supportarlo nella sua impagabile opera di edificazione del Castello dell’Angelo. Il mio compito, assieme ad altri monaci, era quello di essere sempre al suo fianco e il mio animo è stato fin da subito pronto ad accogliere questa grazia divina. Sia dannata invece la mia terrena curiosità. Inutile cercare di giustificarla pensando che avrei voluto aiutarlo.

Ho peccato, e l’ho fatto gravemente, mettendo il naso in affari non miei e da allora le fauci del demonio si sono spalancate sotto di me, attendendo un ultimo passo falso. Il principe del Male si gode ogni mio passo, sapendo che presto cadrò in fallo. Ma se merito di essere fatto in pezzi e dato in pasto ai dannati, il mio corpo terreno ha paura e ho bisogno di scrivere tutto quanto ho visto con i miei occhi. Dio quanto vorrei che fossero le allucinazioni di un pazzo, annebbiato dalla stanchezza e dal timore di non essere all’altezza del compito assegnatomi. Le mie preghiere mai hanno avuto la potenza che hanno oggi nel chiedere al Signore perché, perché mai ha potuto permettere che certe mostruosità avvenissero sotto il suo sguardo. La mia fede vacilla perché se l’Onnipotente viene oscurato sulla terra con la facilità che ho potuto constatare, allora la sua potenza non è così somma. La natura non ha nulla a che fare con lui, se davvero un Dio c’è: Essa ha una sua volontà, sue dinamiche ora sublimi ora raccapriccianti.

Poco dopo aver appreso del mio nobile incarico, sono partito al seguito dell’umile abate Costabile Gentilcore. Mai ho osato uscire dal mio ruolo e l’abate, sempre mite e schivo ma sempre nobile e garbato, mi ha assegnato il compito di supervisionare la costruzione del castello in sua assenza ogni sabato. Nel resto dei giorni il mio dovere era quello di seguirlo durante le celebrazioni. Ho così avuto modo di conoscere l’amore della gente del posto per un uomo, quasi considerato santo in vita, che tanto si stava spendendo per offrire il suo contributo alla comunità.

Gli abitanti cis Alentum ci hanno raccontato che da mesi uno strano fenomeno aveva raggiunto il suo apogeo. Se è vero che avvenimenti del genere non sono infrequenti, sapere che un bimbo su due nell’ultimo anno era stato rapito senza lasciar traccia, mette i brividi. E quelli che non sparivano erano accomunati da spiacevoli malattie, nel migliore dei casi, o da orribili mutilazioni presenti già alla nascita: bimbi nati senza occhi, arti appena formati e non fatti per vivere, totale assenza di organi di vitale importanza, bitorzoli grotteschi. La serie di eventi aveva ragionevolmente gettato la popolazione nello sconforto e i più attribuivano il tutto alla maledizione che i saraceni, dalle loro terre, stavano inviando qui dove era prevista la costruzione di una una fortezza benedetta da Dio che li avrebbe dovuti tenere lontani; alcuni, e iniziavano a non esser pochi, vociferavano delle perfide Janare. Esse, nella tradizione, erano streghe incoroporee che secondo i racconti traevano linfa vitale dai neonati, appunto.

Sia io che l’abate abbiamo sempre ritenuto inverosimile questa spiegazione, eppure il fatto in sé era concreto e sotto i nostri occhi. Neonati che sparivano e altri che spiravano tra atroci sofferenze. Per non parlare di quelli che nascevano con deformità che un Dio non dovrebbe permettere in terra.

L’abate Costabile aveva preso molto sul serio le preghiere dei fedeli, tanto quanto il compito di costruire il castello. Da quel momento il suo animo ha subìto un cambiamento radicale. Quasi avesse voluto combattere da solo e in silenzio i demoni che la gente immaginava rapissero e deturpassero i propri figli, l’abate consumava le proprie energie e dava prova di eroismo fuori dal comune. Il corpo iniziava a risentirne, e ciò, per un uomo della sua levatura, era il minimo; io però ero preoccupato perché percepivo che la sua anima stesse vacillando.

Oltre al clima cupo dato dagli sfortunati avvenimenti e il freddo che attanaglia questo paese nei lunghi e ventosi mesi invernali, il mio animo ha ceduto a tentazioni che avrei dovuto tenere alla larga. Durante le lunghe meditazioni che osservavo nella mia cella, mi sono domandato come mai l’abate fosse apparso così riservato e chiuso, se per la preoccupazione dovuta al fenomeno dei neonati o per le fatiche nel seguire gli estenuanti lavori. Mi era sempre stato descritto come un uomo espansivo e che non lesinava mai una parola in più, mentre gli ultimi tempi, nonostante la mia devozione nei suoi confronti, avevano delineato un uomo cupo, misterioso e refrattario.

Se nelle prime settimane ho tenuto a bada la mia curiosità, alcune situazioni mi hanno poi spinto a voler indagare. Ho spesso scorto l’abate in meditazione, almeno così pensavo, in riva al mare. Non sono certo si trattasse di meditazione poiché, raggiungendolo, potevo scorgere uno sguardo sofferente, colmo di paura e terrore. Alle mie domande se si sentisse bene o se avesse bisogno di qualcosa, rispondeva sempre con fugacità, quasi infastidito. Poi un segnale, in quel frangente di poco conto, mi fece cambiare strategia. Era notte, credo fosse quella tra un sabato e una domenica, e ho visto che Costabile si recava sul crinale di una collina che scivola dolcemente in mare. Trascinava un piccolo alberello, che poi ho scoperto essere un ulivo, per piantarlo facendo ben attenzione che nessuno lo notasse. Fermatosi in preghiera e seppur a considerevole distanza – lo osservavo dalla mia cella che affacciava proprio sulla collinetta – ho capito che si trattava di una supplica disperata, sofferente come mai ne avevo viste. Le sue dita affondarono nel terreno e le sue unghie quasi graffiavano la corteccia del piccolo ulivo. Al suo ritorno l’ho sentito crollare in un sonno turbato da singhiozzi struggenti. 

Ho così smesso di raggiungerlo, ma nelle notti successive a quella dell’ulivo non ho potuto far a meno di percepire preghiere assai bizzarre provenire dalla sua cella. L’ho udito singhiozzare, urlare, sibilare, implorare. Mai avevo sentito un abate esternare una tale gamma di emozioni che definirei oscure. I suoi occhi, giorno dopo giorno, erano sempre più stanchi, segnati di rosso e incavati in orbite nere come lo sono  le notti senza stelle.

Dannato me e quel sabato piovoso. Dopo aver svolto le mie mansioni al cantiere, sono passato quindi dai nostri alloggi e ovviamente lui non c’era. Non ho mai saputo dove andasse e perché tenesse quel segreto per sé. Ho sbirciato nella sua cella e lì ho avuto conferma che qualcosa di strano c’era davvero. Ovunque c’erano graffi sulle pareti. Pareti di pietra, fredde, dure e imponenti. I graffi erano chiaramente opera dell’abate e spiegavano le sue urla notturne, a malapena soffocate. Il sangue, secco, descriveva strane figure che pian piano ho ricondotto a quelle di alberi; più precisamente pini. Scorgevo rami che, sconvolto com’ero, mi sembrava vibrassero e rilucessero di un cremisi irreale. L’odore proveniente dalla cella poi non era sostenibile. Sotto l’uscio potevo percepire un fetore tangibile, putrido, caldo. Malato. Che la decomposizione dell’anima dell’abate avesse infestato la sua cella prima ancora del suo corpo? Ho cercato di mantenere lucidità e trovare una possibile spiegazione. Quello che mi rimbombava nella mente erano quegli alberi che ricordavano tanto i pini marittimi. Dove potevo trovare una selva di pini marittimi che potesse richiamare quell’orrore?

 

Diario privato di Bonaccorso di Raniero, data incerta del febbraio 1123

Le pagine che sto scrivendo in questo momento sono forse le più importanti della mia vita. Ho atteso diverse settimane prima che Costabile mi concedesse la giusta occasione per essere seguito. Ovviamente lui non sospetta nulla, almeno spero. Ieri mi ha detto che, come ogni sabato, sarà mio compito supervisionare il cantiere ma io ho trovato il modo di convincere altri due monaci, miei fedeli amici, a coprirmi senza dir nulla al nostro benefattore.

Nelle ultime settimane ho percepito meno movimenti sospetti provenire dalla cella di Costabile. Da due notti invece la notte è stata intrisa di tensione, quasi una solenne attesa per qualcosa di imponente che incombesse su tutti noi. Nessuno ne ha parlato, ma gli occhi dei monaci e lo sguardo rigido, freddo e allo stesso tempo vuoto di Gentilcore erano eloquenti. Per la prima volta da quando sono qui ho paura. La notte che ho scoperto i segni nella cella di Costabile ero sconvolto, ma l’adrenalina mi ha sostenuto. Questa sospensione, un’attesa lacerante, mi divora dentro e ho come l’impressione che manchi poco per…

Il crepuscolo ha dipinto il cielo di un viola purpureo. L’aria, già fredda, si è fatta gelida e il vento insopportabile. Ho persino avuto l’impressione, camminando con i sandali sulla nuda terra, di sentirla fremere, ribollire, trattenuta a stento da non so quali forze. Se tutto procede come penso, tra poco Gentilcore uscirà dalla sua cella e io sarò la sua ombra. Le prossime pagine del mio diario sveleranno forse il mistero e mi auguro che la mia anima possa essere più leggera dopo di ciò.

 

Carteggio di Costabile Gentilcore, data incerta del marzo 1123 d.C.

Caro, umile e santo – tu sì, davvero santo – Bonaccorso. Purtroppo nessuna pagina ha seguito queste tue ultime parole e seppur non direttamente responsabile, so che in parte è mia colpa. Mea culpa, mea maxima culpa. L’unico sollievo che posso dare alla mia anima mortale – tale è perché dopo i miei trascorsi non posso intravedere nemmeno lontanamente un’idea di paradiso – è quello di trascrivere gli avvenimenti per come sono andati.

Il buon Bonaccorso aveva capito fin troppo e questa sua arguzia gli è stata fatale. Dopo le tante lamentele da parte della popolazione locale, ho meditato molto e pregato intensamente. Non è stata la mano di Dio a venire in mio soccorso, ma quella del demonio.

Una notte, durante una preghiera, ho sentito il mio corpo prima avvamparsi di un caldo insopportabile, ho udito le grida dell’Ade, diavoli che ragliavano e anime che dilaniavano le proprie gole per cercare di essere udite. In pochi istanti mi è parso di impazzire. Poi il gelo, dentro e fuori dal mio corpo, seguito da un silenzio gelido. Proprio in quel momento ho visto. Attorno a me, nella cella, non distinguibili con gli occhi ma quasi impresse nella mia carne, c’erano le Janare. Non già streghe come le intendiamo secondo tradizioni folkloristiche, ma entità che non possiedono alcun elemento terreno. È stato quasi come se le leggi della fisica fossero state frantumate e ricomposte secondo regole incomprensibili dalla mente umana. Mi hanno parlato senza alcun suono e il mio cervello a stento ha saputo decifrare quel linguaggio fatto di scosse, tremori, pressioni, pulsazioni.

Dio, il mio Dio, è sembrato al cospetto di cotanta potenza, non più che una fiaba, un lontano ricordo, qualcosa di piccolo e insignificante. La loro presenza non appartiene al nostro tempo né ad alcun tempo della terra. Essa risiede nel cielo, in chissà quale dimensione e per quel che posso aver compreso c’è sempre stata e ci sarà ben oltre il nostro passaggio fugace. In ginocchio, senza pregare, ho capito che la loro non era una beffa agli abitanti del posto, bensì un tributo che pretendevano dall’Uomo: i loro di neonati. Senza la minima possibilità di poterlo spiegare a parole, sono riuscito ad implorar loro di stipulare un patto: avrei offerto il generoso frutto della terra in luogo della vita nascitura. Simbolo della mia promessa, il piccolo ulivo che Bonaccorso mi ha visto piantare sulla collina qui dappresso. Il furore delle Janare si è placato, non mi spiego ancora come, e io ho ripreso le mie facoltà fisiche. Stravolto ma lucido, mi sono quindi deciso a portare avanti il mio piano.

Avrei piantato un ulivo come memoria di questo accordo e da quel momento avrei portato loro delle offerte terrene giacché per entità senza luogo e senza tempo, la vita di un neonato o il frutto della terra non avrebbero dovuto aver grande differenza. La loro era sete di esser venerate, sfamate. La sfortunata congiunzione astrale che aveva condannato questo luogo in questo tempo è crudele, ma al destino non c’è modo di fuggire. Io ho solo tentato di deviarne il corso… forse avrei dovuto lasciare che esso compisse il suo ineluttabile giro di vite.

Quello che sapevo era che la dimora terrena delle entità si trovava su Punta Licosa. Lì, mi era stato indicato, avrei dovuto portare abbondanti carichi di frutta, verdura e tutto ciò che la terra avrebbe concesso. La prima volta che mi sono recato in quel luogo non la dimenticherò mai. Spingevo un piccolo carretto con cassette di agrumi dei più prelibati, sottratti a malincuore alla popolazione cilentana con le scuse più vaghe. Era la mia prima offerta e non avevo immaginato nulla di più simbolico.

Il lungo viale che si dipana lungo questa lingua di terra bagnata dal mare si andava oscurando per via della notte incombente e della selva di pini marittimi. Il vento freddo sino a quel momento mi aveva portato alle narici un piacevole odore di macchia mediterranea, un aroma che mi ha riportato memorie dolci di un passato che quasi mi ha commosso. Via via mi sono sentito sospeso in un non-tempo e la tenerezza di un passato che sembrava così distante era insopportabile perché sapevo in che direzione il cammino mi stava guidando. Non ero più Costabile Gentilcore, bensì un umano perduto in un tempo maledetto e condannato da qualcosa di antico e profondo.

 

Improvvisamente mi sembrò che il buio toccasse la mia pelle restituendo una sensazione di umido e perfettamente liscio. Non potevo vedere nemmeno le mie mani e anche portandole ad un palmo dagli occhi esse sembravano avvolte, come tutto il mio corpo, nell’oblio. I rami dei pini mi iniziarono a sfiorare la pelle e fui subito rapito da quell’orribile orda di suoni, ma questa volta non recavano urla infernali. Non posso spiegare cosa provai, ma sembravano lampi che precedono un temporale a scuotere il mio cervello. Tremavo e sentivo tutto attorno sibili, strusciamenti pur senza vedere nulla o udire alcun suono reale. Il carretto fu frantumato e il terreno sotto i miei piedi tremò dandomi quasi la sensazione di una bocca affamata che sta per spalancarsi a fatica dopo secoli, forse millenni, di digiuno. Non so come la mia mente abbia mantenuto perspicuità – posto che sia davvero così – ma poco dopo tornai a vedere con gli occhi.

Ero nel mezzo della pineta, completamente sporco di terra e davanti a me c’era il carretto orribilmente segnato e svuotato del suo contenuto. Nessun agrume era rimasto nemmeno al suolo. Capii che l’offerta era stata ben accolta e pur se sconvolto provai un certo sollievo. Rimaneva però nell’aria un fortissimo afrore, qualcosa di disgustoso. Sapeva di morte, anzi di qualcosa che è oltre.

Per poco meno di un mese ho pensato che le mie offerte fossero gradite perché nessun bimbo nacque deforme e nemmeno si verificarono rapimenti. Non avevo però considerato un elemento: nessun bimbo nacque in quel periodo. Seppur breve, era strano poiché ciò stava accomunando tutti i villaggi della zona. Avevo sottovalutato questo aspetto. Nelle settimane che seguirono, la mia offerta veniva consumata alla stessa maniera della prima volta. Mai ho provato minor timore, solo uno stupore ridotto. Le mie membra però tremavano sempre, le ossa gelavano e la mia mente vacillava solcando crepe che hanno minato, in fine, la mia profonda fede in un Dio buono e misericordioso.

Ho letto e riletto le pagine di Bonaccorso e mi rendo conto degli empi gesti da me compiuti nella cella dove soggiornavo proprio grazie a ciò che egli ha lasciato scritto. Sì, le mie mani erano segnate orribilmente, ma ho sempre pensato si trattasse del duro lavoro che ogni giorno mi aspettava nei campi e sul cantiere (ho sempre cercato di dare una mano come potevo quasi per espiare una colpa, ahimé, non mia). I rami, quei dannati rami che Bonaccorso vide (e che io non riuscii mai a ritrovare nei graffi che avevo compiuto sulle mura della cella) hanno condotto il povero novizio verso una morte indicibile e la sua anima mi tormenta nel buio di quello che mi auguro possa essere il mio ultimo inverno su questa terra. La notte che egli mi seguì era come ammantata di una potenza inespressa ma percepibile. Scariche di energia fluttuavano nell’aria e il suolo sembrava richiamare qualcosa con una forza innaturale.

Dentro di me sapevo che non le mie offerte iniziavano a non esser più sufficienti e mi sentii quasi folleggiato per questo. Eppure volli adempiere ancora una volta il mio compito. Non ero consapevole della presenza di Bonaccorso, ma come ogni volta cercai di essere estremamente discreto e percorsi la lunga strada che arrivava a Punta Licosa.

Una volta arrivato lì, nulla avvenne. Il carretto con le offerte rimase intonso eppure quella disarmonia nell’atmosfera era sempre più incontenibile. Decisi di addentrarmi nella selva di pini marittimi, ma via via il buio rendeva impossibile capire dove stessi andando. Ci fu prima un silenzio innaturale, poi come un digrignare di denti… gli alberi sembravano muoversi, ma non potevo né vederlo, né sentirlo chiaramente. Fu poi un tuono, non dal cielo, ma dal suolo, qualcosa che non potrò mai descrivere ma era un rimbombo colmo di malignità, semplicemente insopportabile per orecchie umane. Infine ci furono delle urla dilanianti che mi fecero gelare il sangue. Io non potevo voltarmi sperando di vedere alcunché: davanti, ai miei lati e dietro c’era il buio. Non dimenticherò mai il suono che seguì: carne che si lacera e ossa che si spezzano producendo un odore di disperazione che mi empì le narici. Mai in vita mia avevo percepito sì distintamente un tale orrore, ma non avevo dubbi sulla gravità di quel che si stava consumando e sulla mia totale impotenza. Nulla sarebbe stato più come prima, ne ero certo. I pungenti aghi di pini marittimi continuavano a sfiorarmi e potevo quasi percepire affilati sibili provenire da essi. Poi un ghigno, ma non proveniente da una bocca, bensì da mille cavità incorporee. Mi avvolse e pian piano indietreggiai tornando a percepire i contorni che mi circondavano.

Ero nuovamente all’inizio della strada che porta a Punta Licosa. Il mare sembrava tinto di rosso alla mia sinistra e il mio carretto di offerte votive intatto.

 

Carteggio di Costabile Gentilcore, data incerta del marzo 1123 d.C.

Una settimana è trascorsa da quando Bonaccorso è scomparso. Io so perché e non ho più chiuso occhio da quella notte. I monaci sono sconvolti ma hanno proseguito con zelo un lavoro che non poteva interrompersi e così le popolazioni locali che hanno favoleggiato di storie incredibili al riguardo. Alcune, purtroppo, non erano poi così distanti dalla realtà a riprova di quanto a volte le leggende popolari abbiano ben più di un fondo di verità. Il fatto di non aver rinvenuto il corpo di Bonaccorso rendeva tutti estremamente inquieti ma per il bene comune cercai di riportare una calma che nemmeno io, dentro, possedevo. In quel momento, forse per l’ultima volta, provai a far valere il Bene Supremo. Cercando risposte mi sono introdotto nella cella del mio caro novizio dove ho trovato il suo carteggio. Ora se rileggo le sue parole cado nello sconforto e vorrei poter morire.

Era sabato e quella notte avrei dovuto portare, come di consueto la mia offerta, ma ero sconvolto per la scomparsa del caro Bonaccorso. Sapevo che non sarebbe andata come sempre nella pineta di Licosa, sapevo che qualcosa era cambiato ma non potevo immaginare in che modo. Fattasi notte raccolsi le offerte che avevo come mio solito nella cella e le caricai sul carretto.

La notte, non posso scordarlo, sembrava quasi contrita dal terrore perché le stelle erano velate, nascoste per non dover assistere ad un orrore ben oltre le capacità della natura stessa. Avevo paura, ma cos’altro può fare un uomo che pensa di avere lo scudo di Dio con sé? Arrivai a Punta Licosa e il mare che solitamente si infrange sugli scogli di Ogliastro, lì dappresso, era come ritratto, richiamato con fare materno dalla luna. Non udivo quasi suoni provenire dal mare e mi sentii profondamente solo. Oggi mi auguro che lo fossi stato davvero.

Entrato nella pineta mi resi subito conto di poter scorgere il punto nel quale il buio iniziava ad essere impenetrabile e cercai di abituare gli occhi. Era come se da un certo tratto in poi non fosse più possibile scorgere i rami e i caratteristici aghi ai loro estremi, ma tutto fosse confuso, pastoso. Un magmatico incubo davanti ai miei occhi. Mi voltai un’ultima volta per cercare un appiglio nella civiltà che sembrava ora così lontana e sentii dentro di me le voci dei tanti abitanti di queste splendide terre, percepii i profumi provenire dalle loro cucine, i canti dai loro vicoli, il calore dei camini accesi, il rumore delle reti issate dai pescatori ogni giorno. Per loro sapevo che avrei dovuto compiere ancora una volta quel gesto. Fui condotto dai miei passi nell’oscuro e via via che m’addentravo il silenzio diventava palpabile.

Ecco il buio e gli aghi a graffiare il mio viso, le mie braccia. La veste lacera nulla poteva ma non provavo dolore, solo un terrore acceso che consumava la mia anima prima ancora che il mio corpo. Di colpo sentii quel maledetto sussurrare e  non aspettavo altro che il tremore del suolo. Ci fu invece un intensificarsi del fruscìo che ora mi richiamava qualcosa di umano, benché raccapricciante, ora di totalmente lontano, alieno. La mia pelle iniziò a percepire qualcosa di caldo, morbido e bagnato. Il tuono che sentii la settimana precedente ora era attutito e sordo, rabbioso e premeva dal suolo rilasciando ogni forma di energia negativa lungo i rami e gli aghi di pini marittimi che sembravano vivi. Un fetore malato mi invase i polmoni e mancò poco che cadessi sulle ginocchia già provate dalla fatica. Improvvisamente tutto brillò di un nero lucore che dipinse i tratti del puro abominio. Nessun pittore mai si è avvicinato a quell’orrore infernale. I pini marittimi erano completamente coperti di arti, pezzi di carne, teste, occhi, dita… di neonati. Rimasi immobile e gocce di siero umano mi bagnarono la testa quasi destandomi dalla paralisi. Il vento che iniziò a soffiare faceva ballare la macabra foresta di neonati, una danza delirante, nera.

C’era ogni sorta di  abominazione e girandomi scoprii che i rami erano tutti attorno a me, addosso a me. Non potevo fuggire e sentire piccole mani sfiorarmi, teste cave cozzare le une sulle altre, ossa strofinare mi fece impazzire. Ancora più sconvolgente fu capire che si trattava di corpicini non del tutto formati: le dita erano tozze, gli occhi velati, gli arti sviluppati solo in parte. Un brusio proveniva da ogni ramo e in pochi istanti tutto mi fu chiaro: ero stato schernito dalle Janare che avevano accettato la mia offerta e invece di continuare a rapire o deformare i neonati, avevano rapito ciò che ancora nato non era facendolo sviluppare orrendamente in quel loro avamposto terreno. Uno scricchiolio continuo e insopportabile mi raccontò delle sofferenze che avevano nutrito le malvagie creature incorporee. Non gridai, non svenni, fui semplicemente ridotto al nulla.

Quel poco che la mia mente fu in grado di comprendere fu sicuramente indotto dalle forze che avevano scatenato quella efferatezza. Le Janare, forze oscure che non appartengono alla nostra Terra, nemmeno al nostro Cielo, avevano scherzato con l’Uomo cercando di risvegliare terrori nascosti in un tempo dimenticato. Mai saprò quale fosse il loro intento, se non che per loro i secoli, i millenni, passeranno velocemente e sapranno attendere il momento giusto per completare ciò che a me sembra appena abbozzato. Da lì in poi la mia mente perdette completamente coscienza e mi trovai il mattino seguente riverso nella stessa pineta. Il carretto, vuoto, conteneva ora un orribile idolo di legno: un ramo malamente lavorato sembrava richiamare una forma umanoide inespressiva.

 

Carteggio di Costabile Gentilcore, data incerta del marzo 1123 d.C.

Sono trascorse poche ore da ciò che non posso dimenticare, mai potrei. Non sono mai stato così lucido. Scrivo qui ciò che mi rimane possibile e me ne andrò per sempre o almeno lo spero perché se mai la mia anima dovesse scoprire ciò che davvero la vita nasconde… preferirei patire un inferno senza fine sulla terra. Non posso però fare altro che togliere la vita da questo corpo ormai privo di forza e di  scopo. L’ulivo, quel gentile ulivo che piantai con tanta speranza, sarà la mia tomba e spero un eterno monito, inconsapevole, per gli uomini che verranno.

 

Lettera dell’abate Beato Simeone, 13 aprile 1123 d.C.

[…]

Nota per sua signoria, Duca Guglielmo: non seppelliremo Costabile Gentilcore in alcuna chiesa. Vi basti sapere che le sue colpe sono indicibili perché in nome di Dio non posso riferire ulteriori dettagli. Sarà mia premura offrire lui una comunque degna sepoltura con la speranza che la sua anima possa espiare le colpe di cui non posso accennare.

Addio.

 

Ansa, 1 ottobre 2018

*** Un giovanissimo ragazzo, 18 anni, è stato rinvenuto questa mattina impiccato ad un ulivo nella zona di San Leo, Castellabate in Cilento. Ai piedi della vittima, della quale ancora non si conosce l’identità, è stata trovata un’accetta e un diario che sarà esaminato dalla polizia per conoscere eventuali dettagli utili alla risoluzione del mistero dietro questo gesto ***

Rispondi

Scopri di più da

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continue reading