I racconti di Satrampa Zeiros – “Fango” di Cristiano Fighera

Per “I racconti di Satampra Zeiros” , abbiamo il piacere di ospitare per la prima volta Cristiano Fighera,  che ci propone “Fango”, racconto sword and sorcery di circa 20.000 battute spazi inclusi.
Buona lettura.

SINOSSI

Marollo, brigante armato di bastarda a due mani, ha un problema: maledetto da un mago di provincia sta lentamente decomponendosi. La sua unica speranza è un grasso signore che vuole assumere lui e il suo compagno OvodiFerro perché uccidano un ricco sconosciuto. Marollo e Ovo, briganti poco dotati che vivono in una parodistica Italia versione fantasy, invece sbagliano, e finiscono per far fuori proprio chi li aveva assunti. Ma quando poi finiscono nelle mani di quella che avrebbe dovuto essere la loro vittima, e che in realtà è un potentissimo negromante in grado di far resuscitare i morti, devono decidere in fretta se salvare le proprie vite e la loro dignità oppure cedere al potere del mago e diventarne complici, e schiavi.


AUTORE

Cristiano Fighera, nato a Roma nel 1975, da sempre appassionato di horror, ha scritto fumetti (“Terra Inferno”, disegni di Francesco Biagini, pubblicato in Francia da Soleil), cortometraggi (tra cui “Ultimo Spettacolo”, regia di Alex Visani), e romanzi (“Dove vanno a morire gli angeli”, TaacBooks). Suoi racconti sono presenti in varie antologie di genere, edite tra gli altri da Nero Premio, NASF, PenneMatte.it, Dunwich Edizioni (“Morte a 666 giri”, “L’ultimo canto delle Sirene”, “Moon Witch”, “Ritorno a Dunwich” etc), Edizioni Hypnos, e dal gruppo EseScifi (“Esecranda”, “EseScifi”, “L’universo di Lovecraft” 1 e 2, “200 e 1 di questi mostri”, “Sole Morente” etc). Collabora con l’editore  Shockdom, e con le pagine web “Gli88folli”  – dedicata al cinema – e “LoSpazioBianco”- dedicata al fumetto – in veste di articolista e critico.


FANGO

di Cristiano Fighera

 

Il cielo notturno splendeva di stelle, diamanti intessuti su un arazzo di velluto nero. Gli astri riempivano l’orizzonte come i lumi di una città fatata, sospesa nel cielo.

Peccato che quaggiù di città così non ce ne sono, pensò Marollo. Solo sangue,  sudore, e merda.

Con un lungo lamento finì di svuotare l’intestino sull’erba. Poi, reggendosi alla bastarda da una mano e mezza piantata a terra, stese una mano nella semioscurità e strappò delle foglie, che usò per pulirsi. Si alzò a fatica, lieto che fosse troppo buio per vedere: di giorno non avrebbe resistito alla tentazione di sbirciare gli escrementi che il suo corpo fradicio aveva emesso; ma anche così intuiva – nel naso offeso e nell’addome indolenzito – che si era appena liberato di un ammasso di feci miste a carne e sangue, decomposto e putrido. Colpa del vecchio orbo, al quale aveva rubato due galline non sapendo che fosse un mago, e che lo aveva maledetto condannandolo a marcire, pezzo per pezzo, giorno per giorno, fino alla morte.

Staccargli la testa e darla in pasto ai suoi maiali era sembrata una bella idea. Ma ora Marollo non ne era più così sicuro.

Si pulì la mano sulla corteccia di un albero, arricciando il naso all’odore dolciastro di carogna che gli aleggiava intorno. Poi prese la spada e tornò all’accampamento, guidato dalla luce del falò. I muscoli gli dolevano. I capelli avevano iniziato a cadere. Non si sentiva per niente bene. Proprio no.

Il suo socio OvoDiFerro, panciuto brigante dei regni del sud, moro e col viso coperto da una folta barba cespugliosa, stava ancora discutendo con il loro cliente, un grasso signore pelato dalle vesti di seta e il viso nascosto da una maschera. Marollo si avvicinò lentamente, e si sedette oltre il confine delle fiamme, cercando di non farsi illuminare troppo. Se il signore avesse visto quanto era imputridito dall’ultima volta che si erano incontrati forse non avrebbe affidato loro alcuna missione; e negato l’oro, e soprattutto l’elisir di salute, che aveva promesso come pagamento.

Cercando di risultare impressionante, piantò davanti a sé la bastarda e appoggiò sull’elsa gli avambracci chiusi nei bracciali di cuoio. Poi abbassò la testa, fissando il gentiluomo in quella che sperava fosse una posa truce

“L’uomo del quale vi dovete occupare,” stava dicendo il tizio, “passerà domani, proveniente da Aurocastro e diretto alla capitale. Viaggia in un carro chiuso, scortato da pochi soldati dai mantelli verdi e le bandiere rosse. Ciò che voglio è che nessuno di loro, nessuno, sopravviva. Se ci riuscirete ci vedremo tra sei giorni alla terza porta di Rumen. Anch’io partirò domani: portatemi una prova della morte del viaggiatore e io vi darò l’oro …” l’uomo indicò Marollo con una molle mano ingioiellata, “…e l’elisir.”

“E’ tutto chiaro,” rispose OvoDiFerro. “Può fidarsi di noi.”

L’omone si alzò, allontanandosi a passi incerti. Quattro guardie lo aspettavano fuori portata di voce. Discesero con lui il fianco della collina, sostenendolo perché non cadesse.

“Bene, no?” disse OvoDiFerro. “Uccidere un ricco e prendere l’oro di un altro. Facile come rubare a un bambino.” Gli occhi porcini gli brillavano: oro voleva dire cibo in quantità. Smettere di rubare per un po’. Magari pagarsi una donna, invece di stuprarla.

Marollo annuì. Con la lingua intanto stuzzicava una gengiva: un altro dente stava per cadere. Lo spinse di lato, sentì qualcosa cedere, decise che era meglio lasciar stare.

Il giorno successivo, allo spuntare del sole, si appostarono tra due cespugli di viburni ai margini del largo sentiero circondato da boschi di lecci, castagni e carpini, che si snodava tra le gole chiamate del Forello, perché si diceva vi fosse un buco che portava nell’aldilà, e che partendo da nord offriva un passaggio agevole verso Rumen, capitale del regno di Laitia. Si sentiva borbottare poco lontano l’acqua del fiume Tiberis. O Albus, come lo chiamavano gli Osci del sud, il popolo di OvoDiFerro, per via delle sue acque chiare.

Marollo sudava sangue.

“Fai schifo,” gli disse OvoDiFerro. “Hai ancora un po’ di muscoli per usare la bastarda?”

“Abbastanza per schiacciarti la testa come una noce,” gli rispose lui. Quella mattina, alzatosi per pisciare, si era ritrovato una brutta sorpresa nei pantaloni, e non riusciva più a togliersi l’immagine dalla testa.

OvoDiFerro teneva davanti a sé la mazza ferrata dal manico ricoperto di cuoio, e in mano un balestrino che sparava dardi velocissimi, e riusciva a trafiggere un uomo a cinquanta passi. Marollo il suo spadone: per lui, armi come il balestrino erano adatte solo a deboli e codardi. Mai, ne avrebbe usata una. Mai.

Non dovettero aspettare molto: le ombre dei castagni si erano ristrette di un palmo quando dal fondo della strada venne un rumore di ruote ferrate. Da una curva uscì un giovane che portava un palo con appesa una bandierina verde. Dietro di lui, pochi soldati dai mantelli rossi, vestiti con corte tuniche mal tenute, circondavano un carro chiuso trainato da due buoi.

“Rosso e verde. Ci siamo,” disse OvoDiFerro. “Tieni strette le budella, biondo. E’ ora di guadagnarci la paga.”

Attesero che i soldati fossero vicini, approfittando per saggiarne le potenzialità. Nessuno pareva particolarmente forte, a parte un gigante nubiano che procedeva facendo dondolare un’ascia bipenne come fosse uno stecco Procedevano lenti, provati dal caldo. Quello con la bandierina era in testa, uno stava alla guida del carro, quattro davanti ai buoi, due ai lati della vettura – tra cui il nubiano – e due in fondo. In tutto, dieci.

Non appena vennero superati dall’ultimo soldato, OvoDiFerro alzò il balestrino, prese la mira e fece partire un dardo. Fu un attimo: l’ultimo uomo a destra del carro lasciò cadere la lancia e cadde a piombo. Il suo compagno, spaventato, si guardò intorno e aprì la bocca per urlare.

Non ne ebbe il tempo: OvoDiFerro uscì dai cespugli e gli abbatté la mazza sul cranio, fracassandoglielo. Dietro di lui veniva Marollo, correndo con la bastarda tenuta a due mani e puntata in avanti. Con un sol colpo infilò la lama tra due assi del carro, caricando il peso sulle ginocchia e facendola penetrare fin quasi al forte. Dall’interno della vettura venne un muggito profondo, come il lamento di una vacca in agonia, che lo divertì.

OvoDiFerro era già corso avanti. Si spostò a destra, abbatté senza difficoltà il milite di guardia e avanzò verso i quattro in testa. Marollo capì che aveva voluto lasciare a lui il nubiano, e rise forte. Quando il nero lo vide, però, invece di attaccare spalancò gli occhi e arretrò, superstizioso come tutta la sua gente. Marollo ghignò, soddisfatto: era la prima volta che putrefarsi gli tornava utile. Si aspettava comunque uno scontro, e un po’ lo temeva; ma quando il nero lo vide snudare i denti, emettendo bave sanguinolente dal volto scarnificato, strillò e scappò verso il bosco, scomparendo tra i cespugli.

“Figlio di una troia nera!” gli urlò dietro Marollo. “Scappa, scappa!” Poi, ridendo ancora, corse dal suo compagno.

I quattro militi rimasti avevano imbastito una debole difesa. Tenevano alte le spade, esitando a colpire, e quando Marollo li caricò si girarono d’istinto verso di lui. OvoDiFerro ne approfittò per abbatterne uno con un fendente tirato dall’alto verso il basso, che gli fece crocchiare le ossa e volare via l’elmo. Poi colpì al volto il secondo, sradicandogli la mascella.

Marollo pensò agli altri due: se ne liberò in fretta, senza dilungarsi, poiché sentiva le braccia che gli cedevano. Al primo frantumò la guardia con un fendente che gli fece volare via la spada, e poi lo infilzò al centro del costato. Al secondo invece mollò un colpo alto, piantandogli la lama dalla spalla destra fin quasi al centro del petto. Gorgogliando sangue il soldato cadde, morto ancor prima di toccare terra.

Rimaneva il ragazzo con la bandiera. Tremava, paralizzato dal terrore.

Marollo gli si avvicinò. Alzò la spada, indicò il sentiero alle sue spalle, e con voce tonante disse: “Và. Sei libero. Dì a tutti che il grande Marollo è giunto nelle vostre terre, e vuole essere omaggiato.”

Il ragazzo spalancò gli occhi, incredulo.

“Grazie, nobile signore!” urlò. Gettò lontano l’asta e girò su se stesso.

Prima che potesse fare un passo, Marollo gli mozzò la testa con un unico fendente.

OvoDiFerro rise.

“Crepare non ti toglie l’allegria, biondo,” disse.

“L’elisir della salute me ne darà ancora di più,” gli rispose lui. Poi andò al carro, che intanto si era fermato. I bovi ruminavano, scacciando pigramente le mosche con la coda. Del conducente non c’era traccia.

“Due mancano,” disse. “Il bovaro e il nubiano.”

“Ci frega poco. Da queste parti non tornano sicuro.”

“Il grasso aveva detto di eliminarli tutti.”

“E quando ci darà la ricompensa diremo che abbiamo fatto così. Poi se la vedrà lui.”

Marollo storse la bocca, ma tacque. Di solito cercava di concludere i propri affari in modo dignitoso; ma non gli pareva quello il momento di cavillare. Invece afferrò la maniglia dello sportello e con uno strappo lo aprì.

Dentro al carro, riverso sopra grossi cuscini rossi e neri, in una pozza di sangue che gli si allargava intorno ai piedi calzati in morbide babbucce, stava il grasso signore che li aveva assunti. Non aveva più la maschera, ma non c’era di che sbagliarsi: la sua mole, e gli abiti di seta, parlavano per lui.

OvoDiFerro arrivava in quel momento. Vide il morto e iniziò a imprecare nel dialetto del suo popolo. Alzò la mazza e colpì il carro fino a esaurire il fiato; poi si piantò seduto in mezzo allo stradone.

“Che il Tartaro se lo inghiotta intero,” sibilò. “Bandiere rosse e mantelli verdi, aveva detto. O era il contrario?”

E mò?” disse Marollo. Del grassone non gli importava nulla, ma con lui se ne andava anche la possibilità di ottenere l’elisir. Si infilò nella cabina e perquisì il cadavere e l’interno della vettura, lordandosi le mani nel sangue non del tutto coagulato. Trovò alcune sacchette piene di spezie, un borsellino con poche monete, e poco altro. Delle loro ricompense nessuna traccia. E non c’era neppure abbastanza denaro per pagare  uno stregone di provincia, uno di quei maghi da poco che forse potevano togliere una maledizione e forse no, ma comunque pretendevano di essere pagati in anticipo.

“L’elisir non c’è,” disse a OvoDiFerro. “E neppure l’oro.”

“E se non ci sono noi ce le andiamo a prendere,” rispose quello. “Quel fetente ha detto che andava a Rumen? Facciamo lo stesso. Diremo che lo abbiamo incontrato per caso, ferito dai briganti, e che mentre moriva ci ha chiesto di portarlo a casa. Trovata la casa, ci prenderemo quel che è nostro.”

A Marollo il piano sembrò debole ma sensato.

Sistemarono il grassone in posizione dignitosa. Poi OvoDiFerro si mise a cassetta.

“Guido io,” disse a Marollo. “Che tu fai schifo.”

“Posso dire che ho il mal di Lebhr. Mi  butto addosso un mantello.”

“E poi? A Rumen gli infetti non li fanno passare.”

“Ma io non sono infetto.”

“Ma ci pari.”

Alla fine decisero che avrebbero viaggiato insieme, ma separandosi alle porte della città. OvoDiFerro sarebbe entrato per la via principale, mentre Marollo avrebbe usato le cloache. Nascosero i cadaveri dei soldati dietro ai cespugli, e partirono.

Non incontrarono nessuno lungo la via; ma i buoi erano lenti, e neppure le frustate riuscivano a motivarli. Viaggiarono in quelle condizioni fino allo Zenith, tormentati dal caldo e dalle mosche. Poi OvoDiFerro udì cavalli al trotto che si avvicinavano, e urlò a Marollo di scendere.

Marollo aveva preso posto accanto al cadavere, e dormiva. Fece appena in tempo a infilarsi tra gli alberi che sullo stradone apparvero trenta soldati con elmi e armature di rame. Dietro di loro veniva un grosso carro, nero come la pece. Le insegne dei cavalieri erano verdi. I mantelli rosso fuoco.

Marollo imprecò. Verde e rosso, rosso e verde. Ecco cos’era successo.

Quando vide il carro, il comandante fece fermare gli uomini. Osservò il mezzo e il conducente. Poi andò al carro nero a riferire. La porta della vettura subito si spalancò. Ne scese un vecchio pallido e magro, dal naso a becco e gli occhi infuocati, vestito con un lungo mantello nero ornato da figure dorate. Marollo rabbrividì: erano i sigilli di Pluto, i simboli proibiti che aveva imparato a conoscere da giovane, nei tre anni passati in schiavitù.

Il vecchio era un negromante.

Guardando lui e i suoi soldati armati di lunghe spade capì che tutto sommato erano stati fortunati ad aver sbagliato vittima. Se non fosse bastato quel drappello ad ucciderli, lo avrebbero fatto di certo gli spiriti e i morti che il loro padrone sapeva evocare. Maledisse il grasso signore: quale pazzo manda due uomini contro trenta soldati e un mago nero?

“Questo è il carro di Giuffredo Alzarete,” disse il vecchio a OvoDiFerro. “Perché è qui, e tu chi sei?”

OvoDiFerro si fece piccolo.

“Abbiamo trovato il signore moribondo lungo la strada, e col suo ultimo fiato ha voluto che lo portassimo a Rumen.” disse. Parlava in maniera corretta, come faceva quando voleva sembrare innocuo.

Abbiamo? Che significa abbiamo? Chi c’è con te?”

Marollo impallidì.

“Nessuno,” rispose però OvoDiFerro. “Dei viandanti mi hanno aiutato, ma andavano nella direzione opposta e hanno proseguito per la loro strada. Sono rimasto solo, ma ho deciso di onorare l’ultimo desiderio di….”

Il negromante rise.

“Tu menti,” disse. Alzò il naso, annusò l’aria, e indicò al comandante di aprire lo sportello del carro.

L’uomo ubbidì. Il corpo del grasso signore cadde subito in avanti,  finendo piegato in due in un’assurda riverenza. Il negromante rise più forte di prima.

“Idiota di un Alzarete,” disse. “Volevi essere mio pari. Hai voluto strafare. E questo è il risultato. Morire per mano dei banditi è degno di te. Ma ci dirai tu stesso se è vero.” Tornò al suo carro, vi entrò e ne emerse tenendo tra le mani adunche un piccolo scrigno nero.

“Alzatelo!” ordinò ai suoi soldati, e attese che quelli, in quattro, rimettessero dritto il cadavere. Poi gli accostò il cofanetto al viso, e lo aprì.

I soldati distolsero la testa e serrarono occhi e bocca. Dallo scrigno si levò un sottile fumo scarlatto che aleggiò intorno al viso del morto, e poi si infilò su per le narici e tra le labbra socchiuse. Il cadavere emise un gemito acuto, risucchiò aria nei polmoni ormai seccati, e aprì le palpebre.

I suoi occhi erano diventati completamente neri.

I soldati lo lasciarono andare, portando le mani alle spade. Il negromante invece rimase al suo posto, limitandosi a richiudere lo scrigno. Alla guida del carro, OvoDiFerro era impallidito al punto che ora il morto pareva lui.

 “Giuffredo,” disse il vecchio. “Se in mio potere e non puoi mentirmi. Dimmi: chi ti ha ucciso?”

Il grassone intanto si era rialzato. Si muoveva lento, come stordito. Si guardò intorno, cercando di capire chi aveva parlato. Poi, con una voce che pareva venire dal fondo di un abisso, disse: “Nooon… looo… sooo…

“Dove stavi andando, allora? Che volevi fare?”

Il cadavere spalancò la bocca. Fili di bava colarono a terra.

Fame,” disse. “Ho… fameee…

Il negromante lo schiaffeggiò, ma il cadavere subì il colpo senza alcuna reazione.

Fameee….” ripeté. Il vecchio allora indicò OvoDiFerro.

“Tiratelo giù,” ordinò.

“Oh no, no, no! Io non so niente! Non ho fatto niente!” pregò quello. Poi, mentre gli uomini del mago si affollavano per afferrarlo, il suo sguardo perso incrociò quello di Marollo.

“Lui! E’ stato lui! E’ stato lui a ucciderlo!” strillò.

Tutte le teste si girarono nella sua direzione.

Marollo saltò in piedi bestemmiando. Sì girò verso il bosco, puntò un possibile sentiero, caricò il peso sulle gambe, e poi sentì uno schiocco provenire dal ginocchio destro. Crollò miseramente a terra: qualcosa dentro di lui aveva ceduto.

Fu circondato. Il negromante gli si chinò davanti al viso. Da vicino la sua veste non era semplicemente nera: la stoffa mulinava, come se al suo interno grosse nuvole scure si spostassero spinte dal vento. Guardarle era ipnotico.

Mentre Marollo le fissava, udì provenire dal carro le urla strazianti di OvoDiFerro.

Fu felice di non poterlo vedere.

Il negromante dischiuse le labbra in un sorriso d’aceto. Gli toccò una guancia tumefatta con la punta di un dito, e poi se la leccò.

“Aaah, una maledizione,” disse. “E neppure troppo potente. Potrebbe toglierla anche un bambino.”

Marollo si sentì umiliato.

“Sei tu che hai ucciso Alzarete? Attenzione, rispondi bene.”

Marollo fece segno di no con la testa. Fissò il negromante. Poi, lentamente, fece segno di sì.

“Tu e quello laggiù?”

“Io solo.”

Il negromante ghignò. Dentro le sue pupille si agitavano rossi vermi. Erano occhi di chi ha vissuto a lungo, e visto cose che un semplice uomo non può neppure immaginare.

Dietro di loro, le grida di OvoDiFerro cessarono di colpo.

Le cicale iniziarono a cantare.

“Voi bifolchi non imparerete mai,” disse il vecchio. “Tentate la sorte, cadete, riprovate, cadete di nuovo, eppure continuate a tentare. Il vostro posto è il porcile, eppure vi illudete sempre di poterne uscire. Ma per fare cosa? Per sprecare ogni occasione, come fate sempre. Siete nati nel fango, ed è lì che…”

Il negromante tacque. La mascella gli cedette di colpo, gli occhi gli si rovesciarono all’indietro, e un rivolo di sangue gli scese dalla fronte inzaccherandogli il viso. Crollò a terra senza un suono, la testa aperta in due. Le nubi dentro la sua veste avevano smesso di roteare

Dalle fila dei soldati venne un urlo di sorpresa e terrore. Indietreggiarono, portandosi le mani alle gole, e si  svuotarono come otri bucati, trasformandosi in fumo. Caddero a terra ridotti a ossa e cenere. Qualunque patto avessero stretto col vecchio, o qualsiasi schiavitù fosse stata loro imposta, ora che l’uomo era morto non esisteva più. E loro con lei.

“Allora: chi è che ha la madre troia?” disse una voce.

Marollo alzò la testa. Dietro di lui, la bipenne lorda di sangue tra le mani, stava il nubiano.

“Io,” rispose Marollo. “Io, io.”

Il nubiano sorrise, mettendo in mostra denti bianchissimi. Gli girò intorno e diede un calcio al vecchio, che rotolò via spandendo cervella tra la polvere. Poi corse ai carri, accarezzandoli.

“Troppo bello. Troppo, troppo bello,” ripeteva, isterico.

Marollo si puntellò sui gomiti cercando di rialzarsi, ma la sua gamba destra era inservibile. “Dammi una mano,” disse al suo salvatore.

L’uomo lo fissò arcuando le sopracciglia.

“Si chiede per favore,” disse, stizzito.

Marollo, colto da un vago senso di disagio, tacque. Raddoppiando gli sforzi riuscì a mettersi seduto. Il nubiano intanto si era chinato sul corpo del grassone, tornato cadavere. Sotto di lui, seppelliti dalla montagna di carne, sbucavano gli stivali di OvoDiFerro.

“Oggi mi hai servito tu, povero padrone,” disse, dandogli una pacca affettuosa sulla testa. “Ero troppo stupido per diventare tuo assistente, eh? Ero scemo, come tutti i Nubiani. E invece adesso guarda un po’.”

Si infilò dentro al carro e ne uscì con una bustina di spezie che gettò in grembo a Marollo. “Ecco il tuo elisir. Il padrone te lo aveva preparato. Ti sarebbe bastato cuocerlo per un’ora nell’acqua del Tiberis e saresti guarito. Non è buffo?”

Marollo si sentì svenire.

Il Nubiano si avvicinò al negromante, gli sfilò il mantello e lo indossò. Le nubi nere ricominciarono subito a vorticare. L’uomo chiuse gli occhi, e quando li riaprì Marollo vide che i vermi si erano trasferiti lì.

“Uooooh! Vedo R’lyeh. Vedo la pietra sacra di Bismantova. Vedo i mondi oltre i mondi,” strillò. Poi si chinò su di lui. “Ma visto che ho ricevuto questo dono grazie a te, ti concedo una possibilità: diventa mio servo, e io ti guarirò. Rinuncia alla libertà, ubbidiscimi per il resto della vita, e io ti risanerò. O questo, o la morte. Scegli.”

Marollo afferrò la sua spada, e ricambiò lo sguardo. La risposta era facile. Aprì le labbra lacerate e sanguinanti, e pronunciò ad alta voce due lettere; l’unica risposta che il mondo, la vita, la sua natura, gli anni di schiavitù, le lotte, il fango nel quale aveva sempre sguazzato, e forse il destino, gli avevano insegnato a dare.

L’unica risposta che conosceva.

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